Se Borges ha
scritto il sogno della letteratura, Leone ha filmato il sogno
del cinema, ma con una differenza: l’operazione creativa di Borges è
puramente intellettuale, quella di Leone è concreta, fisica, materica. In essa
il linguaggio cinematografico è il corpo stesso del suo sogno, il
suo sangue, la sua violenza, la sua epica. Perché i film di Leone
non sono soltanto storie sapientemente costruite, ma incarnano il cinema
stesso, cioè sono il cinema del cinema, il nostro occhio interiore,
lo sguardo che incontra e vede il mito. E il mito non è astrattezza
perché comprende, oltre al sogno, la realtà e la morte. Il mito è appartenenza,
inconscio collettivo, individualità e comunità.
Il protagonista della trilogia
del dollaro, interpretato da Clint Eastwood, non ha in fondo un’identità
precisa: chi è? da dove viene? dove andrà? Egli, di volta in volta, è
l’avventuriero astuto, l’infallibile bounty killer, il giustiziere, il destino.
Compare come un fantasma e come un fantasma se ne va, ma ovunque lascia un
segno di sé – un segno enigmatico, tra la vita e la morte. Il suo poncho non
nasconde soltanto la corazza come alla fine di Per un pugno di dollari (1964),
ma qualcosa di più: il segreto inaccessibile di sé stesso, che poi risulta
essere il segreto del cinema.
I film di Sergio Leone consentono sempre
una lettura stratificata, a più livelli. Come ogni mito sono onnicomprensivi.
In essi la leggenda non è disgiunta dalla dimensione storica e quest’ultima è a
sua volta attraversata dal sogno, che è quello dell’uomo e del cinema. Un
cerchio perfetto. Un sogno dentro un sogno. Come le arene circolari delle
grandi sfide, dove le vicende dei personaggi diventano altro,
assumono una dimensione ulteriore, arcana e liturgica – complice la
straordinaria musica di Ennio Morricone – ed i pistoleri si rivelano figure
archetipiche, senza tempo. Non si può non citare, a questo proposito, il
colonnello Douglas Mortimer, in Per qualche dollaro in più (1965),
interpretato magnificamente da Lee Van Cleef (attore su cui in Italia non
esiste colpevolmente neanche un libro, a differenza di altri paesi), che
conferisce al personaggio la freddezza del pistolero esperto, con un passato
militarmente glorioso, insieme ad un dolore intimo, ad una profonda lacerazione
interiore, che si rivela solo alla fine, a vendetta consumata, quando se ne va
solo, verso il tramonto.
Leone ha saputo raccontare il mito senza
trascurare la realtà storica in esso contenuta, con grande attenzione al minimo
dettaglio: precisione, frutto di ricerca documentata, al servizio del sogno che
è il cinema.
Si pensi alle sequenze riguardanti la
guerra di Secessione nel film Il buono, il brutto, il cattivo (1966):
esse si possono considerare tra le più significative, in ambito
cinematografico, non solo di quel conflitto, ma dell’atrocità della guerra in
generale: il terribile campo di concentramento nordista di Betterville,
l’interno della Missione di Sant’Antonio dove i frati francescani curano i
feriti, lo scontro tra i due eserciti nemici per la conquista del ponte di
Langstone non si possono dimenticare. Leggenda e realtà si fondono e ci
trasmettono un senso di desolazione, di orrore e di pietà che resta dentro di
noi.
In C’era una volta il West (1968),
poi – grande affresco epico e lirico di formidabile efficacia – questo
particolare processo linguistico risulta ancora più evidente. Qui il vecchio West,
quello del nostro immaginario, sta ormai per finire. Il sogno di un’epoca e di
un cinema deve lasciare spazio ad una civiltà contrassegnata dal capitale e
dagli affari, come simboleggia l’avanzata della ferrovia verso l’Oceano
Pacifico. I vecchi eroi sono destinati a sparire. Il mito incontra la morte di
sé stesso e può sopravvivere solo in un sogno nostalgico, ossia nel c’era
una volta.
Armonica, il protagonista, se ne va dopo
la sua vendetta, ma – come dice Cheyenne, il bandito romantico, che morirà poco
dopo – “la gente come lui ha dentro qualcosa, qualcosa che sa di
morte”, mentre al centro del film c’è la figura di Jill, donna forte e dolce al
tempo stesso, che fa da tramite tra passato e futuro, unico personaggio
destinato ad entrare nella nuova epoca che sta avanzando: incarna la vita che
non si arrende e prosegue, nonostante la delusione ed il lutto che reca in sé.
Essa si colloca tra il Mito e la Storia, quella che inizia proprio
quando finisce il film. Solo in Jill i segni della morte sono
uniti a quella della vita futura, che certo non sarà facile, ma che lei
probabilmente saprà affrontare. Giustamente è stato osservato che tutti gli
altri personaggi attendono di scomparire, sono una razza che non esisterà più,
ed il film dilata i tempi come in una lunga e solenne agonia: un sogno (quello
di Leone e nostro) che vuole ritardare la propria fine incombente ed
ineluttabile.
Per questo C’era una volta il
West è l’ultimo western di Leone (il successivo film Giù
la testa non si può considerare tale), con il quale il regista
conclude – dopo la cosiddetta trilogia del dollaro – la
sua riscrittura del genere, ossia la rivisitazione in chiave
personale e mitica insieme delle figure, dei luoghi e delle situazioni-tipo del
cinema western. L’eroe solitario, le armi, la legge, la banca, il cimitero e la
morte, il duello assumono nel cinema di Leone caratteristiche proprie, diverse
rispetto ai western classici americani, all’interno di un linguaggio
cinematografico nuovo, in cui vengono privilegiati i primi e primissimi piani,
i dettagli ed una particolare attenzione viene dedicata ai dialoghi, alla
colonna sonora (non solo musica, ma anche rumori), ai costumi, alla
scenografia, persino ai titoli di testa, con effetti sorprendenti. C’era
una volta il West comprende tutto questo, ma al tempo stesso conserva
la memoria del western classico: è un omaggio e un addio melanconico
ad un genere, ad un mondo e ad un sogno.
Un discorso a parte meriterebbe Giù
la testa (1971), film che originariamente non avrebbe dovuto essere
diretto da Sergio Leone (Rod Steiger e James Coburn pretesero che fosse lui il
regista). Si tratta di un’opera complessa che – pur con qualche scompenso di
sceneggiatura – segna anch’essa una fine: quella
delle illusioni. Celebri sono le parole del peone messicano Juan
Miranda rivolte al terrorista irlandese John Mallory: “Rivoluzione?
Rivoluzione? Per favore, non parlarmi tu di rivoluzione! Io so benissimo cosa
sono e come cominciano: c’è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli
che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: – Oh, oh,
è venuto il momento di cambiare tutto – […] Io so quello che dico, ci son
cresciuto in mezzo, alle rivoluzioni. Quelli che leggono i libri vanno da
quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: – Qui ci vuole un
cambiamento – e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi
di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano,
parlano, e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera
gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di
rivoluzione… E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente! Tutto torna come
prima”.
È il film più politico di
Leone, nel quale i temi dell’amicizia, del tradimento e del
rapporto tra la Storia ed il destino si
intrecciano con le vicende private dei due protagonisti – un film sul
fallimento degli ideali (John afferma: “Quando ho cominciato a usare la
dinamite, allora credevo anch’io in tante cose…in tutte, e ho finito per
credere solo nella dinamite”) e sulla solitudine e l’impotenza di fronte alla
realtà (“E adesso io?”, si chiede Juan dopo la morte di John). Qui il Mito si
è già disgregato, ci sono solo illusioni destinate a finire, e la
Storia si annuncia come un immenso campo di battaglia notturno con il quale si
conclude il film.
Il percorso artistico di Leone termina
con C’era una volta in America (1984), che è ritenuto il suo
capolavoro. Un film sul tempo e sul cinema, un’opera circolare, anzi concentrica ed ellittica,
dentro la quale non solo c’è l’America degli anni Trenta con le sue
contraddizioni, ma anche la memoria drogata di quel sogno che
si forma all’interno della fumeria d’oppio dove si rifugia il protagonista
Noodles e dove il pubblico assiste al teatro cinese, ossia alle ombre del Bene
e del Male che si combattono su uno schermo bianco. Inizio e fine del film si
sovrappongono al sogno del cinema e al sogno stesso di Noodles.
Realistico, violento, e al tempo stesso
onirico, sfuggente, è il film che – più ancora di altri – racchiude magicamente
il sentimento leoniano del cinema come visione mitica che non supera
la realtà del mondo, ma meglio la interpreta e la vive. Anche qui sono presenti
i temi dell’amicizia e del tradimento, legati entrambi all’ossessione del
tempo, dei ricordi e dell’amore mancato. Nessuno è vincitore in questo film,
perché ciascuno perde qualcosa di sé o del proprio sogno
adolescenziale. Non vince Max, non vince Deborah e non vince nemmeno Noodles. A
quest’ultimo (e a noi spettatori) resta soltanto il suo enigmatico sorriso
nella fumeria d’oppio. Un sorriso per dimenticare, o forse ricominciare a
ricordare nelle luci e nelle ombre del cinema e del suo sogno.
Mauro Germani