POESIA CHE NON SALVA LA VITA
Sebastiano Aglieco ha
ragione quando scrive nella prefazione a Livorno (L'Arcolaio,
pagine 75, euro 11,50), l'ultimo libro di Mauro Germani, che "Non capisco
questa vita", le parole di una canzone di Piero Ciampi, potrebbero
costituire il sottofondo di questi versi in cui il poeta riporta in vita le
inquietudini della città toscana che dette i natali a sua madre.
Leggendo questo libro mi sono venute in mente alcune bellissime parole di
Fabrizio De André. Il cantautore genovese, parlando della morte, disse che non
aveva paura della sua, ma di tutto quello che muore intorno. E aveva paura di
tutto quello che non riusciva a capire. Nei pensieri
evocati dal poeta, il disincanto è una cosa concreta che spezza il tempo in
frammenti. Germani indossa il vestito del niente che la vita gli cuce addosso.
Nel nulla che si spalanca come un abisso si avverte il bisogno di autenticità.
In questa mancanza di senso la parola serve per dire chi siamo e chi non siamo
veramente: "A quale vita interrotta, a quale passo / le
strade e i portici brulicanti, / l'aria di sale, il mormorio dell'acqua? / A
quale anima perduta, a quale domanda / le voci solitarie, le case in bilico /
nella notte, le preghiere / spezzate dal tempo? / A quale fine / queste parole
superstiti, / questo singhiozzo di terra e di nulla?".
Davanti al mondo che non c'è, che
sopravvive grazie alle apparenze che governano le relazioni umane, il poeta è
consapevole che la fine di tutto è a portata di mano. In "questo
morire a frammenti" si respira "l'aria
palpitante del nulla". A un passo dal vuoto la parola
soccorre sul precipizio e prende per mano l'uomo. Dentro il quotidiano disfarsi
dell'epoca, Germani scrive con una lingua bassa e vera il suo diario dei giorni
difficili. Il non essere suscita nel poeta inquietanti domande davanti alle
quali egli si pone in ascolto, tenendo sempre conto che le risposte forse non
saranno esaustive per dare conto del catalogo fragile dell'esistenza, nella
quale è impossibile vedere anche la mano di Dio: "Fra un gesto
d'amore, fra un gesto e la terra. Sapesse Dio la storia di un bacio o di una
parola sempre sconfitta, sempre perduta. Potessimo noi non essere qui, avere un
cielo da raccontare come un pianto vero, e una voce sola, uno sguardo solo,
senza questo amore sfigurato, quest'ombra inghiottita dal tempo...".L'inesistenza
è fisicamente tangibile nei versi di Mauro Germani. La sua poesia non si
discosta mai da una corporeità di pensieri che prendono vita da una
riflessione empirica sulla stanchezza della nostra umanità perduta. "Su
questa mancanza fondativa, - scrive Sebastiano Aglieco
nella prefazione - la poesia di Mauro Germani costruisce i
suoi pieni e i suoi vuoti. Ma anche improvvise accensioni che illuminano
l'attimo, e poi riconsegnano il senso al disinganno oscuro dell'origine,
proprio ad evidenziare una dimensione precaria costantemente minacciata dal
nulla e da un abissale senso d'irrealtà la richiesta di un'autenticità
esistenziale impossibile da raggiungere...".
Come Fabrizio De
André, Germani scrive per non capire, ma scrive perché è sicuro che soltanto
credendo nella parola potrà essere possibile testimoniare l'esistenza
imperfetta di noi uomini stretti nella morsa dell'incomunicabilità, il vero
abisso nel quale siamo precipitati. "Poiché tutto finirà / o
forse / tornerà una parola / una soltanto / nell'ultima voce".La
precarietà è nelle cose, il poeta ce la racconta dal vero di una scrittura
asciutta della sua esperienza di uomo tra gli uomini, con la consapevolezza che
la poesia non salva la vita, ma puù essere utile a conservare le tracce che si
lasciano in questo grande freddo interiore. Scrivere, scavando nell'abisso che
non circonda, ma che ci abbraccia. Il rispetto per la parola è rispetto
dell'uomo. Forse da questa missione qualcosa verrà fuori. O forse no.
(articolo pubblicato su Linea quotidiano il 10/03/2010)