martedì 26 agosto 2025

La lezione di Sant'Agostino


La lettura oggi di Sant’Agostino (354-430) non può che essere per noi una lezione benefica. Le sue riflessioni intorno al dubbio e alla verità, al male e alla grazia, hanno ancora la capacità di scuotere la nostra intelligenza e la nostra anima, in un periodo storico come quello attuale, in cui tutto sembra vacillare e il pensiero del futuro fa paura. 

Sappiamo come in Sant’Agostino la ricerca della verità sia sempre stata fondamentale e non priva di tormento, come attestano le Confessioni (400), opera in cui la componente biografica assume per la prima volta grande valore in ambito filosofico. Qui non solo pensiero e vita sono strettamente legati, ma evidenziano in modo netto il problema dell’interiorità dell’uomo, della sua inquietudine e al contempo il suo desiderio di appartenenza, di superamento della solitudine e del conflitto tra luce e tenebre. C’è in Sant’Agostino una costante e pervicace aspirazione alla verità, una parola questa che oggi suscita perplessità, o addirittura sfiducia, o senso di inutilità, di ricerca vana. Che cos’è propriamente la verità? Esiste realmente? E dov’è? Certo è che se facciamo riferimento a quanto accade nel mondo, vale a dire alla complessità degli eventi, comprese le guerre in corso, e delle relazioni tra chi detiene il potere, non si può non provare un senso di smarrimento e di impotenza. 

Ma la verità a cui si riferisce Sant’Agostino non è legata strettamente ai fatti, non è la maschera del qui e ora: essa è oltre la prigione dello scetticismo e del sospetto, non si lascia confondere dalla polemica, dai ricatti e dalle minacce. È una verità ontologica, intima e ulteriore che, pur essendo nell’interiorità dell’uomo, non è tutto l’uomo: «Se troverai mutevole la tua natura, trascendi te stesso» – afferma Sant’Agostino in De vera religione. E in modo assai originale ribalta la concezione del dubbio universale degli scettici, perché dichiara che paradossalmente è proprio il dubbio che attesta la verità. Quest’ultimo contiene infatti la verità, o almeno una sua traccia, in quanto chi dubita pensa di possedere un criterio di giudizio, cioè una verità: «Chi capisce d’essere in dubbio, vede una cosa sicura; quindi è certo del vero. Chiunque perciò dubita se vi sia la verità, ha in sé il vero per cui non dubita; e non v’è vero, che sia vero, senza la verità» (De vera religione). In pratica, non si dubiterebbe se non si avesse già in qualche modo la verità. Ecco allora che Sant’Agostino ci dice che noi siamo in relazione con quest’ultima, non siamo gettati nell’insignificanza, né vittime di una menzogna assoluta. 

C’è un luogo della verità che ci chiama e che da sempre è in noi, pur non coincidendo completamente con noi. È qualcosa che non ha a che fare con la reminiscenza platonica, né con la ragione, ma è una luce, anzi una illuminazione che ci spinge a vedere, che guida la nostra anima e permette la condizione della verità stessa, la quale non può che essere eterna e necessaria perché è Dio. E in tutta l’opera di Sant’Agostino noi possiamo cogliere la testimonianza della sua ricerca ininterrotta di Dio, il quale rappresenta la meta desiderata e ultima, il punto d’arrivo di un percorso spirituale e intellettuale che affronta con coraggio e caparbietà, ma anche con fiducia, ogni sfida del proprio tempo e ogni tipo di problema. Celebre è la frase rivolta a Dio:« Tu ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché riposi in Te», che troviamo nelle Confessioni

Non dobbiamo pensare tuttavia che questo significhi, per chi crede in Dio, una forma di passività, tutt’altro. È importante sottolineare che per Sant’Agostino la verità non è mai un possesso definitivo, assoluto, che si conquista una volta per sempre. Anche chi è cristiano non deve sottrarsi alla ricerca, perché la verità ha una doppia dimensione: è dentro l’uomo, ma al tempo stesso è trascendente, e non può essere totalmente compresa, perché essa fa parte di un mistero che è in fondo inesauribile. Il pensiero di Sant’Agostino si rivela in questo senso assai importante perché da un lato ci apre alla speranza, ci permette di uscire dallo scetticismo e/o dal nichilismo, e dall’altro ci fa capire i nostri limiti e ci esorta ad abbandonare ogni delirio di onnipotenza, per ascoltare invece la voce misteriosa di quel maestro interiore che non smette di chiamarci. Spesso il suo richiamo si confonde con quello di altre voci, un frastuono che stordisce, che ottenebra la mente e il cuore. Il maestro interiore sembra non avere più forza, essere diventato quasi muto o addirittura assente, sopraffatto dall’ombra. È allora che si apre in noi si apre una ferita e la nostra interiorità è scissa, travagliata da una profonda divisione che è capace di condizionare le nostre scelte. 

La riflessione di Sant’Agostino sul male è consapevole di questa tragica lacerazione, tanto che afferma la duplicità della volontà, che egli stesso ha sperimentato. Si tratta di un contrasto tra ciò che si vorrebbe volere e la debolezza della volontà, cioè l’incapacità di volere ciò che si vorrebbe per tendere alla profondità e verità del nostro essere. E qui Sant’Agostino distingue il libero arbitrio dalla libertà, in virtù della grazia. Sono passaggi fondamentali per comprendere appieno il suo pensiero. Se il libero arbitrio è la scelta tra diverse possibilità, la libertà è qualcosa di più, è la capacità di compiere fino in fondo la scelta del bene: per fare questo, però, occorre la grazia, la quale rende davvero libero e autentico il libero arbitrio; senza la grazia gli uomini, a causa del peccato originale, sarebbero solo «massa dannata». In tal modo Sant’Agostino entra in polemica con l’eresia di Pelagio, che di fatto negava la dottrina del peccato originale e rendeva inutile la redenzione di Cristo. 

Interessante notare, poi, che per Sant’Agostino, dopo una iniziale e giovanile adesione al manicheismo, il male è, di per sé, negazione, mancanza di bene, non essere, non dipende da Dio, ma dall’uomo, il quale  ha la responsabilità morale delle proprie azioni. In particolare, chi lo pratica compie un atto che va contro sé stesso: egli – più che scegliere il male – fallisce la scelta, sceglie male, cioè non accoglie quella verità che lo chiama e lo attende, optando così per una sorta di degradazione, una realtà inferiore e pericolosa per la propria anima. Tali riflessioni sul male e sulla scelta possono essere per noi oggi più che mai feconde, vere e proprie illuminazioni che ci fanno meditare sull'importanza del discernimento nella nostra vita, onde evitare derive fatali a causa del nostro egoismo e della nostra sete di potere.

Per concludere, da queste brevi considerazioni sull'opera di Sant’Agostino (ce ne sarebbero altre da aggiungere, come quelle relative alla dimensione del tempo e al rapporto tra fede e ragione), si può comprendere come il suo pensiero sia stato innovativo (soprattutto per l’interiorità concepita come principio filosofico) e abbia anticipato temi e problematiche assai rilevanti presenti nell’esistenzialismo cristiano (si vedano, per esempio, i concetti di verità, di libertà, di scissione interiore, di angoscia e di scelta).

Mauro Germani

domenica 10 agosto 2025

Georges Bernanos - Il signor Ouine


Georges Bernanos, Il signor Ouine, Logos, 1982 (I ed. italiana Mondadori, 1949)

A proposito di questo libro l’ultimo romanzo di Georges Bernanos (1988-1948), iniziato nel 1931, concluso nel 1940 e pubblicato prima nel 1943 a Rio de Janeiro in versione incompleta e poi a Parigi nel 1946 in quella integrale – Albert Béguin scrisse che per lo scrittore «nessuna tra le sue opere ha richiesto da lui, per ritrovar la sorgente nascosta, un accanito lavoro come Il signor Ouine». Si tratta infatti di un’opera complessa, dalla forma insolita, interrotta da spazi bianchi, puntini di sospensione e cambiamenti di prospettiva, come fosse sul ciglio di un precipizio, ossia costantemente attaccata dal nulla, sospinta in una sorta di buio delirio, in una dimensione in cui tutto si sfalda, tra immagini improvvise simili a quelle dei sogni, dialoghi febbricitanti sempre in sospeso e dissolvenze in nero. Perché il villaggio di Fenouille, nell’Artois, oltre a essere inzuppato di pioggia e immerso nel fango, rivela un profondo stato di perdizione, di vuoto e di mancanza di bene, se si esclude la figura – anch’essa, però, assai tormentata – del giovane parroco (tanto che il primo titolo pensato da Bernanos fu La paroisse morte).

La storia ruota attorno al delitto di un piccolo vaccaro e ad alcuni personaggi inquieti e inquietanti. Tra tutti spicca il signor Ouine, solitario professore di lingue in pensione, ammalato da tempo, di cui subisce l’ambiguo fascino il ragazzo quattordicenne Philippe, in cerca della propria identità e della propria libertà. Ouine ha una capacità disgregatrice e ammaliante insieme, incarna il vuoto esistenziale di tutti gli abitanti del villaggio, l’assenza di ogni dimensione soprannaturale. Egli è un egoista che vive nell’isolamento e contemporaneamente manifesta una strana curiosità nei confronti della vita altrui, parla bene dell’infanzia e nel medesimo tempo è la testimonianza di chi la uccide con il suo comportamento. «Come quegli esseri viventi gelatinosi in fondo al mare, io fluttuo e assorbo» afferma a un certo punto; e più oltre si chiede: «Avrò forse due anime, come alcuni animali hanno due stomaci? O due coscienze?», ma alla fine, poco prima della morte, rivela il suo vero stato d’animo:« Anch’io sono vuoto. Mi vedo ora fino in fondo, nulla ferma la mia vista, nessun ostacolo. Non c’è nulla. Nulla». A proposito di Ouine, Beguin afferma che «è una specie di prete di Satana» e che mostra «l’intelligenza di un uomo diventato vecchio, l’irrimediabile solitudine di chi non sa amare, fino a non amare nemmeno sé stesso, l’abominevole tristezza di colui che ha soffocato ogni gioia sotto la demoniaca curiosità».

In questo romanzo ogni personaggio è un posseduto, parla con una voce che sta dentro di sé come un segreto che egli stesso fa fatica a comprendere. Ne è prova il linguaggio dei dialoghi, che non è quasi mai esplicito e diretto, ma involuto e sospeso, caratterizzato da improvvise accensioni e altrettanto improvvisi silenzi, in cui si susseguono iperboli, ellissi, allusioni e reticenze. Il risultato è che gli stessi dialoghi paiono piuttosto dei monologhi, nei quali chi parla è un altro, una voce profonda che sale dagli abissi dell’anima e interferisce con la dimensione cosciente. Ciò che interessa Bernanos è proprio questo: far emergere il mistero che si cela dentro i personaggi e che rivela una lotta interiore tra forze contrapposte, ossia tra ciò che tende a disgregare e ad annientare e ciò che invece mira a costruire e a unire. In questo romanzo sembra prevalere la pars destruens, contro cui però combatte – come già evidenziato in precedenza – il giovane prete del villaggio, il quale, con parole inconsuete e forti, denuncia in chiesa il male che assedia il villaggio di Fenouille dominato dall’odio, dall’egoismo, dalla degradazione e dalla follia: «Ci sono ancora molte parrocchie nel mondo» afferma il nuovo parroco. «Ma questa è morta. È morta forse da molto tempo? Non volevo crederlo. Finché sarò qui, mi dicevo… Ahimè! Un uomo solo non fa una parrocchia». E ancora: «Un delitto è cosa che riguarda solo la giustizia e i giornalisti, non è vero? Non importa. Basta un pizzico di lievito in più per fare inacidire tutta la pasta. Il male era già in voi, ma ha cominciato come a uscire dalla terra, dai muri». 

A proposito della follia presente nel libro, è opportuno precisare che non sempre nelle opere di Bernanos è negativa, poiché può essere anche positiva, quando è mossa da un’intensa componente spirituale che l’accomuna allo spirito d’infanzia evangelico, a uno slancio che va oltre la chiusura dell’Io in sé stesso, anche se ciò comporta sempre non poche difficoltà e incomprensioni nelle relazioni umane e soprattutto in ambito sociale. Interessante in questo romanzo è inoltre il fatto che la morte del piccolo vaccaro resta un mistero insoluto, in quanto non sono svelati né il movente, né il colpevole; i sospetti, infatti, cadono su tre personaggi: Ouine, Jambe-de-laine ed Eugène, ma nulla viene chiarito, perché sono le conseguenze di quanto accaduto ad avere il sopravvento. In questo senso le aspettative “poliziesche” del lettore vengono deluse: il romanzo è ben altro, è una sorta di discesa agli inferi, un incubo con complessi risvolti esistenziali e spirituali, nel quale ancora una volta gioca un ruolo determinante il paesaggio, che in Bernanos si delinea – come ha osservato Pierrette Renard – «spirituale», in quanto non è mai un «elemento decorativo», ma carico di simboli ed espressione di ciò che è nell’intimo dei personaggi.

Il signor Ouine è un’opera non certo di facile lettura, come del resto le altre dello scrittore francese, un’opera di drammi e di domande, ma anche di una tensione spirituale che cresce di pagina in pagina. Si potrebbe pensare a un romanzo completamente privo di speranza, ma non è così. O meglio: è proprio la mancanza di quest’ultima in quasi tutti i personaggi (Ouine soprattutto) che decreta l’immenso valore di essa, ritenuto fondamentale da Bernanos. «Il mondo non ha più il tempo di sperare: la vita interiore dell’uomo moderno ha ormai un ritmo troppo rapido perché vi si formi e maturi un sentimento così ardente e così tenero» – ebbe modo di scrivere. E aggiunse: «La tradizione della speranza è tra le mani dei poveri, così come le vecchie ricamatrici di Bruges conservano il segreto di un punto che le macchine non riusciranno mai a imitare».

Mauro Germani

A proposito di Georges Bernanos, su questo blog:

Sotto il sole di Satana

Citazioni dalle opere di Georges Bernanos