domenica 27 maggio 2018

André Pieyre de Mandiargues - Il museo nero



Andrè Pieyre de Mandiargues, Il museo nero, Bompiani, 1968

Con questo suo primo libro, Le musée noir, del 1946, André Pieyre de Mandiargues (1909-1991) consegna al lettore sette racconti visionari e inquietanti, contraddistinti  da una realtà metamorfica e onnicomprensiva, una sorta di grembo ancestrale in cui le differenze dei cosiddetti regni naturali sono annullate e tutto vive e respira e uccide senza soluzione di continuità.
Evidenti sono gli influssi del surrealismo, di cui Mandiargues fu un esponente appartato e originale, ma ciò che colpisce è la complessità della scrittura, raffinata e barocca, capace di creare sulla pagina mutazioni continue e progressive della narrazione, fino a confondere  sapientemente, e soprattutto in modo lieve, quasi impercettibile, la dimensione del reale e quella del sogno.
A questo proposito, qualcuno ha parlato di Borges, ma l’accostamento risulta fuorviante, in quanto  la scrittura di Mandiargues non ha nulla della sorprendente concisione borgesiana, inoltre è caratterizzata da un profondo erotismo, che nello scrittore argentino è completamente assente. Il connubio sogno-realtà sottende in Mandiargues qualcosa di ben più oscuro e ingovernabile, in cui dominano pulsioni primordiali che spesso si rivelano distruttive e autodistruttive. 
Eros e Thanatos qui muovono i personaggi, li spingono oltre la loro ragione in territori sconosciuti per abbandonarli poi in quella zona di pericolo in cui si compie il loro ineluttabile destino. Tutto concorre a questo fine, a questo appuntamento incomprensibile, che rende ogni personaggio in balìa di forze che non può controllare e che lo determinano: figure femminili o dal sesso ambiguo, animali seducenti o raccapriccianti, vegetali o addirittura costruzioni o luoghi che imprigionano i sensi e la mente. E in relazione a esseri animali o semi-umani, dalla natura conturbante o maledetta, si vedano – tra gli altri – il coniglio amato dalla protagonista e il gregge destinato al macello in Il sangue dell’agnello; l’uomo-caimano in Il passaggio Pommeraye; il Gatto Mammone in L’uomo del parco Monceau; cavalli, cani e pecore nere in Pecora nera; le gigantesse, insieme a scimmie e cocorite, in La tomba di Aubrey Beardsley.
L’erotismo in Mandiargues non è mai normale, ha manifestazioni strane e imprevedibili, coinvolge e trasforma, cattura e uccide, rivela una realtà altra e misteriosa. Il desiderio travalica la mente, spinge i personaggi laddove non c’è più protezione e regna il mostruoso: ciò che viene definito umano rivela così una doppia natura, una realtà sconcertante o paradossale, dove il sangue e la pulsione di morte non sono mai disgiunti dal piacere ricercato.
Ogni avvenimento trascorre sulla pagina con la strana leggerezza ed evanescenza dei sogni e talvolta pare proprio che lo scrittore si diverta a imprigionare il lettore con la magia della sua narrazione, la quale è apparentemente innocua perché il meraviglioso nasconde le tenebre, il nero. Proprio come succede ai personaggi dei racconti, il lettore viene sedotto e si ritrova al cospetto di immagini e di situazioni che lo incantano e che sfumano continuamente dalla cosiddetta normalità a una dimensione straordinaria e feroce, senza via di scampo.
Mauro Germani

sabato 26 maggio 2018

LA CITAZIONE (n. 11) - Maurice Blanchot



"La poesia non è data al poeta come una verità e una certezza a cui accostarsi: egli non sa se è poeta, ma non sa neanche che cosa è la poesia, e neppure se è; essa dipende da lui, dalla sua ricerca, dipendenza che tuttavia non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di se stesso e come inesistente."

Maurice Blanchot, Lo spazio letterario (1955)

lunedì 14 maggio 2018

Mauro Germani - Il guardiano



Ripropongo un mio vecchio racconto, apparso sulla rivista “Quinta generazione” nel 1986 (Anno XIV; luglio –agosto, n. 145 / 146).

IL GUARDIANO

Sono il guardiano di una zona abbandonata, un oscuro confine dove tutto sembra già avvenuto e già perso.

Con la mia vecchia lanterna – ad intervalli pressappoco regolari – ispeziono inutilmente ogni punto di questo territorio deserto che qualcuno forse deve avermi affidato. Compio azioni sempre uguali, obbedendo ad un rituale che ignoro, ma a cui stranamente non posso rinunciare. Sento che il mio dovere è restare in questa frontiera da cui non passa nessuno e che no so davvero che cosa separi e dove porti. La mia vita trascorre nel rispetto dell’inutile e assurdo compito che m’impongo ogni giorno. Da tempo non ricordo più niente di me, nemmeno il mio nome.

Conosco solo la nebbia che fin dalle prime ore dell’alba circonda questo posto solitario e dimenticato. Dalla mia casupola vedo solo profili di rocce grigie coperte di gelo. Le cime delle montagne sono quasi sempre nascoste dalla foschia e spesso le nubi sono talmente basse che cielo e terra si confondono in una massa opaca e uniforme.

Qui – quando non compio i miei soliti giri di controllo – scrivo.

Mi piace inventare storie impossibili, sogni in cui credere per qualche tempo, poesie che sembrano incantesimi. Le parole mi prendono con la loro magia, mi trascinano in una vertigine che credo sia la morte. Sì, quando scrivo muoio, ed il vero artista è il mio provvisorio fantasma. Forse proprio l’esercizio continuo della scrittura mi ha fatto perdere a poco a poco la memoria. Forse io stesso ho preferito l’oblio e mi sono ritirato qui inventandomi un dovere da assolvere. Forse, ancora, sono la vittima di un oscuro sortilegio a cui non posso sfuggire.

Comunque, mi sono abituato. Non so se sarei capace di vivere altrove. A volte mi sembra di sentire l’eco di lontane musiche, sogno favolose città illuminate a festa oltre la nebbia perenne, in valli immaginarie. Per qualche attimo mi prende la voglia di andarmene e avventurarmi verso l’ignoto, ma poi – fatalmente – rinuncio. Sono troppo stanco, troppo solo. “E se il mondo m’impedisse di continuare a scrivere? ”, mi chiedo. I miei rituali quotidiani necessitano di questo scenario inanimato e senza luci. La vita vera non è per me. Dovrei uccidermi, lo so. Se ancora non l’ho fatto è per una strana forma d’obbedienza o d’insolita cortesia (verso chi, poi?).

Così mi sono rassegnato ad aspettare il mio momento, che tuttavia spero non tardi molto. Nel frattempo – da infelice e anonimo custode – mi affido a questo nulla e scrivo.