martedì 26 agosto 2025

La lezione di Sant'Agostino


La lettura oggi di Sant’Agostino (354-430) non può che essere per noi una lezione benefica. Le sue riflessioni intorno al dubbio e alla verità, al male e alla grazia, hanno ancora la capacità di scuotere la nostra intelligenza e la nostra anima, in un periodo storico come quello attuale, in cui tutto sembra vacillare e il pensiero del futuro fa paura. 

Sappiamo come in Sant’Agostino la ricerca della verità sia sempre stata fondamentale e non priva di tormento, come attestano le Confessioni (400), opera in cui la componente biografica assume per la prima volta grande valore in ambito filosofico. Qui non solo pensiero e vita sono strettamente legati, ma evidenziano in modo netto il problema dell’interiorità dell’uomo, della sua inquietudine e al contempo il suo desiderio di appartenenza, di superamento della solitudine e del conflitto tra luce e tenebre. C’è in Sant’Agostino una costante e pervicace aspirazione alla verità, una parola questa che oggi suscita perplessità, o addirittura sfiducia, o senso di inutilità, di ricerca vana. Che cos’è propriamente la verità? Esiste realmente? E dov’è? Certo è che se facciamo riferimento a quanto accade nel mondo, vale a dire alla complessità degli eventi, comprese le guerre in corso, e delle relazioni tra chi detiene il potere, non si può non provare un senso di smarrimento e di impotenza. 

Ma la verità a cui si riferisce Sant’Agostino non è legata strettamente ai fatti, non è la maschera del qui e ora: essa è oltre la prigione dello scetticismo e del sospetto, non si lascia confondere dalla polemica, dai ricatti e dalle minacce. È una verità ontologica, intima e ulteriore che, pur essendo nell’interiorità dell’uomo, non è tutto l’uomo: «Se troverai mutevole la tua natura, trascendi te stesso» – afferma Sant’Agostino in De vera religione. E in modo assai originale ribalta la concezione del dubbio universale degli scettici, perché dichiara che paradossalmente è proprio il dubbio che attesta la verità. Quest’ultimo contiene infatti la verità, o almeno una sua traccia, in quanto chi dubita pensa di possedere un criterio di giudizio, cioè una verità: «Chi capisce d’essere in dubbio, vede una cosa sicura; quindi è certo del vero. Chiunque perciò dubita se vi sia la verità, ha in sé il vero per cui non dubita; e non v’è vero, che sia vero, senza la verità» (De vera religione). In pratica, non si dubiterebbe se non si avesse già in qualche modo la verità. Ecco allora che Sant’Agostino ci dice che noi siamo in relazione con quest’ultima, non siamo gettati nell’insignificanza, né vittime di una menzogna assoluta. 

C’è un luogo della verità che ci chiama e che da sempre è in noi, pur non coincidendo completamente con noi. È qualcosa che non ha a che fare con la reminiscenza platonica, né con la ragione, ma è una luce, anzi una illuminazione che ci spinge a vedere, che guida la nostra anima e permette la condizione della verità stessa, la quale non può che essere eterna e necessaria perché è Dio. E in tutta l’opera di Sant’Agostino noi possiamo cogliere la testimonianza della sua ricerca ininterrotta di Dio, il quale rappresenta la meta desiderata e ultima, il punto d’arrivo di un percorso spirituale e intellettuale che affronta con coraggio e caparbietà, ma anche con fiducia, ogni sfida del proprio tempo e ogni tipo di problema. Celebre è la frase rivolta a Dio:« Tu ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché riposi in Te», che troviamo nelle Confessioni

Non dobbiamo pensare tuttavia che questo significhi, per chi crede in Dio, una forma di passività, tutt’altro. È importante sottolineare che per Sant’Agostino la verità non è mai un possesso definitivo, assoluto, che si conquista una volta per sempre. Anche chi è cristiano non deve sottrarsi alla ricerca, perché la verità ha una doppia dimensione: è dentro l’uomo, ma al tempo stesso è trascendente, e non può essere totalmente compresa, perché essa fa parte di un mistero che è in fondo inesauribile. Il pensiero di Sant’Agostino si rivela in questo senso assai importante perché da un lato ci apre alla speranza, ci permette di uscire dallo scetticismo e/o dal nichilismo, e dall’altro ci fa capire i nostri limiti e ci esorta ad abbandonare ogni delirio di onnipotenza, per ascoltare invece la voce misteriosa di quel maestro interiore che non smette di chiamarci. Spesso il suo richiamo si confonde con quello di altre voci, un frastuono che stordisce, che ottenebra la mente e il cuore. Il maestro interiore sembra non avere più forza, essere diventato quasi muto o addirittura assente, sopraffatto dall’ombra. È allora che si apre in noi si apre una ferita e la nostra interiorità è scissa, travagliata da una profonda divisione che è capace di condizionare le nostre scelte. 

La riflessione di Sant’Agostino sul male è consapevole di questa tragica lacerazione, tanto che afferma la duplicità della volontà, che egli stesso ha sperimentato. Si tratta di un contrasto tra ciò che si vorrebbe volere e la debolezza della volontà, cioè l’incapacità di volere ciò che si vorrebbe per tendere alla profondità e verità del nostro essere. E qui Sant’Agostino distingue il libero arbitrio dalla libertà, in virtù della grazia. Sono passaggi fondamentali per comprendere appieno il suo pensiero. Se il libero arbitrio è la scelta tra diverse possibilità, la libertà è qualcosa di più, è la capacità di compiere fino in fondo la scelta del bene: per fare questo, però, occorre la grazia, la quale rende davvero libero e autentico il libero arbitrio; senza la grazia gli uomini, a causa del peccato originale, sarebbero solo «massa dannata». In tal modo Sant’Agostino entra in polemica con l’eresia di Pelagio, che di fatto negava la dottrina del peccato originale e rendeva inutile la redenzione di Cristo. 

Interessante notare, poi, che per Sant’Agostino, dopo una iniziale e giovanile adesione al manicheismo, il male è, di per sé, negazione, mancanza di bene, non essere, non dipende da Dio, ma dall’uomo, il quale  ha la responsabilità morale delle proprie azioni. In particolare, chi lo pratica compie un atto che va contro sé stesso: egli – più che scegliere il male – fallisce la scelta, sceglie male, cioè non accoglie quella verità che lo chiama e lo attende, optando così per una sorta di degradazione, una realtà inferiore e pericolosa per la propria anima. Tali riflessioni sul male e sulla scelta possono essere per noi oggi più che mai feconde, vere e proprie illuminazioni che ci fanno meditare sull'importanza del discernimento nella nostra vita, onde evitare derive fatali a causa del nostro egoismo e della nostra sete di potere.

Per concludere, da queste brevi considerazioni sull'opera di Sant’Agostino (ce ne sarebbero altre da aggiungere, come quelle relative alla dimensione del tempo e al rapporto tra fede e ragione), si può comprendere come il suo pensiero sia stato innovativo (soprattutto per l’interiorità concepita come principio filosofico) e abbia anticipato temi e problematiche assai rilevanti presenti nell’esistenzialismo cristiano (si vedano, per esempio, i concetti di verità, di libertà, di scissione interiore, di angoscia e di scelta).

Mauro Germani

domenica 10 agosto 2025

Georges Bernanos - Il signor Ouine


Georges Bernanos, Il signor Ouine, Logos, 1982 (I ed. italiana Mondadori, 1949)

A proposito di questo libro l’ultimo romanzo di Georges Bernanos (1988-1948), iniziato nel 1931, concluso nel 1940 e pubblicato prima nel 1943 a Rio de Janeiro in versione incompleta e poi a Parigi nel 1946 in quella integrale – Albert Béguin scrisse che per lo scrittore «nessuna tra le sue opere ha richiesto da lui, per ritrovar la sorgente nascosta, un accanito lavoro come Il signor Ouine». Si tratta infatti di un’opera complessa, dalla forma insolita, interrotta da spazi bianchi, puntini di sospensione e cambiamenti di prospettiva, come fosse sul ciglio di un precipizio, ossia costantemente attaccata dal nulla, sospinta in una sorta di buio delirio, in una dimensione in cui tutto si sfalda, tra immagini improvvise simili a quelle dei sogni, dialoghi febbricitanti sempre in sospeso e dissolvenze in nero. Perché il villaggio di Fenouille, nell’Artois, oltre a essere inzuppato di pioggia e immerso nel fango, rivela un profondo stato di perdizione, di vuoto e di mancanza di bene, se si esclude la figura – anch’essa, però, assai tormentata – del giovane parroco (tanto che il primo titolo pensato da Bernanos fu La paroisse morte).

La storia ruota attorno al delitto di un piccolo vaccaro e ad alcuni personaggi inquieti e inquietanti. Tra tutti spicca il signor Ouine, solitario professore di lingue in pensione, ammalato da tempo, di cui subisce l’ambiguo fascino il ragazzo quattordicenne Philippe, in cerca della propria identità e della propria libertà. Ouine ha una capacità disgregatrice e ammaliante insieme, incarna il vuoto esistenziale di tutti gli abitanti del villaggio, l’assenza di ogni dimensione soprannaturale. Egli è un egoista che vive nell’isolamento e contemporaneamente manifesta una strana curiosità nei confronti della vita altrui, parla bene dell’infanzia e nel medesimo tempo è la testimonianza di chi la uccide con il suo comportamento. «Come quegli esseri viventi gelatinosi in fondo al mare, io fluttuo e assorbo» afferma a un certo punto; e più oltre si chiede: «Avrò forse due anime, come alcuni animali hanno due stomaci? O due coscienze?», ma alla fine, poco prima della morte, rivela il suo vero stato d’animo:« Anch’io sono vuoto. Mi vedo ora fino in fondo, nulla ferma la mia vista, nessun ostacolo. Non c’è nulla. Nulla». A proposito di Ouine, Beguin afferma che «è una specie di prete di Satana» e che mostra «l’intelligenza di un uomo diventato vecchio, l’irrimediabile solitudine di chi non sa amare, fino a non amare nemmeno sé stesso, l’abominevole tristezza di colui che ha soffocato ogni gioia sotto la demoniaca curiosità».

In questo romanzo ogni personaggio è un posseduto, parla con una voce che sta dentro di sé come un segreto che egli stesso fa fatica a comprendere. Ne è prova il linguaggio dei dialoghi, che non è quasi mai esplicito e diretto, ma involuto e sospeso, caratterizzato da improvvise accensioni e altrettanto improvvisi silenzi, in cui si susseguono iperboli, ellissi, allusioni e reticenze. Il risultato è che gli stessi dialoghi paiono piuttosto dei monologhi, nei quali chi parla è un altro, una voce profonda che sale dagli abissi dell’anima e interferisce con la dimensione cosciente. Ciò che interessa Bernanos è proprio questo: far emergere il mistero che si cela dentro i personaggi e che rivela una lotta interiore tra forze contrapposte, ossia tra ciò che tende a disgregare e ad annientare e ciò che invece mira a costruire e a unire. In questo romanzo sembra prevalere la pars destruens, contro cui però combatte – come già evidenziato in precedenza – il giovane prete del villaggio, il quale, con parole inconsuete e forti, denuncia in chiesa il male che assedia il villaggio di Fenouille dominato dall’odio, dall’egoismo, dalla degradazione e dalla follia: «Ci sono ancora molte parrocchie nel mondo» afferma il nuovo parroco. «Ma questa è morta. È morta forse da molto tempo? Non volevo crederlo. Finché sarò qui, mi dicevo… Ahimè! Un uomo solo non fa una parrocchia». E ancora: «Un delitto è cosa che riguarda solo la giustizia e i giornalisti, non è vero? Non importa. Basta un pizzico di lievito in più per fare inacidire tutta la pasta. Il male era già in voi, ma ha cominciato come a uscire dalla terra, dai muri». 

A proposito della follia presente nel libro, è opportuno precisare che non sempre nelle opere di Bernanos è negativa, poiché può essere anche positiva, quando è mossa da un’intensa componente spirituale che l’accomuna allo spirito d’infanzia evangelico, a uno slancio che va oltre la chiusura dell’Io in sé stesso, anche se ciò comporta sempre non poche difficoltà e incomprensioni nelle relazioni umane e soprattutto in ambito sociale. Interessante in questo romanzo è inoltre il fatto che la morte del piccolo vaccaro resta un mistero insoluto, in quanto non sono svelati né il movente, né il colpevole; i sospetti, infatti, cadono su tre personaggi: Ouine, Jambe-de-laine ed Eugène, ma nulla viene chiarito, perché sono le conseguenze di quanto accaduto ad avere il sopravvento. In questo senso le aspettative “poliziesche” del lettore vengono deluse: il romanzo è ben altro, è una sorta di discesa agli inferi, un incubo con complessi risvolti esistenziali e spirituali, nel quale ancora una volta gioca un ruolo determinante il paesaggio, che in Bernanos si delinea – come ha osservato Pierrette Renard – «spirituale», in quanto non è mai un «elemento decorativo», ma carico di simboli ed espressione di ciò che è nell’intimo dei personaggi.

Il signor Ouine è un’opera non certo di facile lettura, come del resto le altre dello scrittore francese, un’opera di drammi e di domande, ma anche di una tensione spirituale che cresce di pagina in pagina. Si potrebbe pensare a un romanzo completamente privo di speranza, ma non è così. O meglio: è proprio la mancanza di quest’ultima in quasi tutti i personaggi (Ouine soprattutto) che decreta l’immenso valore di essa, ritenuto fondamentale da Bernanos. «Il mondo non ha più il tempo di sperare: la vita interiore dell’uomo moderno ha ormai un ritmo troppo rapido perché vi si formi e maturi un sentimento così ardente e così tenero» – ebbe modo di scrivere. E aggiunse: «La tradizione della speranza è tra le mani dei poveri, così come le vecchie ricamatrici di Bruges conservano il segreto di un punto che le macchine non riusciranno mai a imitare».

Mauro Germani

A proposito di Georges Bernanos, su questo blog:

Sotto il sole di Satana

Citazioni dalle opere di Georges Bernanos



lunedì 28 luglio 2025

Léon Bloy - Il disperato

Léon Bloy, Il disperato, Edizioni Paoline, I ed. 1959, II ed. riveduta e integrata 1977

Romanzo autobiografico e, al contempo, anomalo, multiforme, furioso e visionario, Il disperato (1887) di Léon Bloy (1846-1917) contiene i grandi e complessi temi che caratterizzano l’opera dello scrittore francese: il simbolismo della storia e delle lacrime (appreso dall’abbé Tardif de Moidrey), lo scontro con il mondo in nome di una fede lacerante, la decadenza religiosa della propria epoca, gli assalti del male e la vocazione al martirio, l’ansia escatologica, la povertà come segno e mistero cristico, la disperazione come grido e ricerca di santità. Il cristianesimo di Bloy è una sfida alla modernità, alla vita comoda e all’ipocrisia: è intriso di sangue e di sacrificio, è eroico nella sua sfida al male e alle tenebre, sempre sull’orlo della solitudine e dell’estremo abbandono, ma aspira tenacemente alla verità promessa, alla redenzione eterna. È un cristianesimo senza pace, perché la pace per Bloy non può essere di questo mondo, ed è inoltre intransigente, perché le Sacre Scritture non lo sono. Tuttavia, in mezzo alle invettive, agli eccessi, alle deformazioni della cronaca e della storia, è rinvenibile, nelle pagine dello scrittore, una spiritualità dolce, un misticismo che trapassa l’orrore della putredine, del peccato e del male. Perché lo sguardo di Bloy è comunque sempre oltre, pur segnato dalla sofferenza e dal dolore. Anzi, la tribolazione risulta necessaria per la via celeste, è propria di chi diviene ultimo tra gli ultimi, come Cristo, che è il vero agonizzante e il vero povero, colui che continua a morire sulla croce per noi. 

Il protagonista (presente anche nel secondo romanzo di Bloy La donna povera, in un ruolo non di primo piano, ma pur sempre alter ego dell'autore) è un personaggio oppresso dall’angoscia («Era uno di quegli esseri miracolosamente fatti per la sventura»), uno scrittore solitario in lotta con il mondo e con l’ambiente letterario che lo circonda, un’anima infelice, divisa tra amore e disperazione, assetata di assoluto, che sa essere feroce nei confronti di una società che disprezza profondamente. Assediato da un passato tumultuoso, trafitto da una conversione radicale, che lo spinge a un’espiazione continua, egli non può che essere un dilaniato, un duellante dello spirito, un combattente folle, un incompreso dai più. La sua esistenza è sempre sull’orlo dell’abisso, esposta a un destino avverso, ai margini di una società crudele e chiusa in sé stessa, dominata dal denaro, dalla falsità e dall’arrivismo. Il nome che porta, Caino Marchenoir, è il segno inequivocabile della propria disperazione («Marchenoir era nato disperato») e di una duplicità inquietante: Caino gli viene attribuito per sfida dal padre – piccolo borghese massonico, «adoratore di Rousseau e di Beniamino Franklin», che sarà sempre fortemente contrario all’inclinazione letteraria del figlio – , mentre la madre, spaventata, si affretta a farlo battezzare come Giuseppe-Maria; il nome malefico di Caino resterà nel registro dello stato civile e gli rimarrà pertanto addosso per tutta l'esistenza. Vivendo nella perpetua povertà, ma chiamato costantemente dal proprio martirologio e convinto che il Caso non esiste («la parola Caso era per lui un’intollerabile bestemmia, che si meravigliava di trovar sempre sulle bocche dei sedicenti cristiani»), s’imbatte in creature bisognose d’altro, cioè d’amore, donne perdute che misteriosamente si sentono attratte da lui e dalle quali anch’egli è attratto, nell’offerta di sé e del bene che nonostante tutto continua a gridare nel suo cuore. 

Tra queste occupa un posto di straordinario rilievo Veronica Cheminot, ex prostituta (che si riferisce chiaramente ad Anne-Marie Roulé con cui Bloy vivrà per qualche anno, prima di sposarsi con Jeanne Molbeck) del quartiere latino, conosciuta col nome espressivo di Ventosa, «splendida plebea che dieci anni almeno di prostituzione su venticinque non avevano potuto sciupare» e che «era stata vista vendersi in tutte le pescherie della lussuria, pendere a tutti gli uncini della grande tripperia del libertinaggio». Eppure questo «rifiuto di ragazza, seminata e raccolta nella spazzatura […] si era trasformata d’un tratto, per la miracolosa occasione del più profano amore, in un giglio dai petali di diamante e dal pistillo d’oro, brunito dalle più splendide lacrime che mai siano state versate». Ecco allora che Veronica diviene, sotto gli occhi di Marchenoir, un’altra persona, non solo pentita della miseria del suo passato, ma incarnazione di una spiritualità sconvolgente e di una purezza e di una semplicità assolute. La convivenza tra loro sarà sempre casta, anche se Marchenoir sarà tormentato dalle tentazioni della carne. Per questo, per umiliarsi sempre più e per espiare quanto accaduto nella sua vita precedente, Veronica sceglierà l’atto estremo, la folle mutilazione. Mentre Marchenoir si trova in ritiro alla Grande Certosa (di cui Bloy tesse un’accorata apologia, narrandone con passione la storia), la donna compie il «fatto orrendo», decidendo di sfigurarsi: si sbarazza prima dei propri capelli, poi si fa cavare tutti i denti, senza un anestetico efficace, da «un piccolo giudeo bisognoso, che viveva di venti mestieri più o meno sospetti» e che «per due franchi avrebbe pulito con la lingua un tavolo dell’obitorio». 

Pagine terribili sono dedicate all’esecuzione dell’atroce intervento, durante il quale Veronica prova un dolore tremendo e perde i sensi «Quando la mascella superiore fu completamente sguarnita, il carnefice dovette fermarsi. La sventurata aveva perduto conoscenza e si contorceva tra spasimi. Dovette rianimarla, ristagnare il sangue che sgorgava a fiotti, arrestare l’emorragia, calmare i nervi, cose tutte familiari a quell’onnisciente della bassa chirurgia». È questo un momento centrale del romanzo, che prosegue alternando la nuova tragica prova a cui Marchenoir è sottoposto a riflessioni sulla «Chiesa incarcerata», sull’arrendevolezza dei cattolici e sulla masnada di giornalisti e letterati parassiti del tempo, fino all’«ultima catastrofe»: la follia di Veronica e l’incidente di cui Marchenoir rimane vittima. Il destino di quest’ultimo si compirà nella solitudine assoluta, senza nemmeno il conforto dei sacramenti tanto desiderati. 

La sorte avversa, la passione, il dolore, l’angoscia del protagonista si configurano come le tappe di un calvario che non smette però di guardare all’assoluto, di sentire nell’anima qualcosa di ardente, una luce dentro la disperazione. Leggere questo romanzo sui generis, all’interno del quale non troviamo solo la narrazione di una vicenda, ma anche la riflessione storica, morale e teologica, secondo la veemenza e la visionarietà tipiche di Lèon Bloy, è in realtà un’avventura dello spirito, un impatto esistenziale da cui comunque (e per fortuna) non si esce immuni.

Mauro Germani

A proposito di Léon Bloy, su questo blog: 

Storie sgradevoli

La donna povera

Leon Bloy - Pensieri



mercoledì 23 luglio 2025

Recensione di Marco Tabellione a "Prima del sempre"


 

Ringrazio Marco Tabellione per questa sua  recensione al mio libro "Prima del sempre" (puntoacapo editrice, 2024), pubblicata sul numero 131 (giugno 2025) della rivista IL SEGNALE.
Per la lettura cliccare sui testi.

martedì 15 luglio 2025

Matteo Melis scrive di "Reticenze"


Sul sito "I gufi narranti", uno scritto di Matteo Melis, che ringrazio, relativo al mio libro di racconti Reticenze (Fallone editore, 2024): QUI

lunedì 26 maggio 2025

Pier Paolo Pasolini - La religione del mio tempo


La religione del mio tempo (1961) di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è una raccolta poetica che si compone di tre sezioni. La prima contiene il poemetto che dà il titolo al libro ed è anche la più ampia e complessa, in quanto costituisce il principale nucleo tematico di tutta l’opera. Colpisce in questa parte, intitolata La ricchezza e datata 1955-56, la capacità di Pasolini di attuare un continuo movimento in versi, in cui lo sguardo del poeta è al tempo stesso interiore ed esteriore, cioè uno sguardo in cammino tra realtà del passato e del presente. Chi legge viene avvolto, quasi rapito, da un succedersi di immagini e di eventi che scaturiscono dalle visioni dello stesso Pasolini, protagonista in prima persona delle varie composizioni, anche quando pare non esserci. Non è pertanto pienamente condivisibile l’opinione di chi ritiene questo libro «un esempio di poesia civile, dove più che il poeta, protagonista è la Storia del nostro Paese» (Gianni Borgna, Pasolini integrale, Castelvecchi, 2015, p. 32). Tale affermazione risulta in realtà imprecisa o incompleta, in quanto ciò che emerge è soprattutto la lotta dell’autore con la storia, il suo sdegno, la sua passione violata da ciò che di fatto era accaduto e stava accadendo nella nostra società. È un io in opposizione, quello di Pasolini, che non si riconosce in ciò che poi definirà «sviluppo senza progresso»: la voce e lo sguardo rimandano sempre all’io del poeta, al suo stupore e al suo dramma (da notare, tra l’altro, il titolo stesso del volume, dove compare l’aggettivo possessivo mio): è lui il regista di tutto ciò che accade sulla pagina; e a tal proposito – giustamente – si è accennato a un procedimento cinematografico operante nella sezione. 
In apertura del volume, ci vengono incontro gli affreschi di Piero della Francesca, che appaiono in una luce particolare, come «fiati di fiamma», volti e figure di un altro tempo che danno vita a versi liberi, mossi dalla potenza figurativa del ciclo pittorico delle Storie della Vera Croce, al cospetto dei visitatori e soprattutto di un operaio che si aggira intimorito nella chiesa di San Francesco ad Arezzo, «quasi, indegno, / ne avesse turbato la purezza...». Le «braccia d’indemoniati», le «scure schiene», il «caos di verdi soldati / e cavalli violetti» della scena delle Battaglie irrompono negli occhi dell’uomo dal «minuto cranio» e dalle «rase mascelle», fino all’immagine dell’Annunciazione dell’Angelo a Maria e del sogno di Costantino. Ne risulta un’atmosfera sospesa e insieme realistica, carnale, quando l’ora del tramonto, fuori dalla chiesa, riapre nel poeta le «ferite della nostalgia», che rivelano «luoghi, persi nel cuore / campestre dell’Italia, dove ha peso / ancora il male, / e peso il bene». C’è già in questi versi il richiamo a qualcosa di perduto o che è in via di sparizione, che sarà assai rilevante nel poemetto La religione del mio tempo, in cui saranno rievocate l’innocenza e la dolcezza del mito friulano, tra rimpianto per ciò che è stato e delusione attuale. Il dentro (la chiesa di San Francesco) e il fuori (la piazza con il chiasso dei ragazzi) sono in qualche modo uniti da due solitudini: quella dell’operaio e quella del poeta, che – nei testi successivi – prosegue il suo viaggio verso il paesaggio umbro per approdare poi finalmente a Roma. Pasolini poeta e intellettuale si confronta con la nuova dimensione romana, ricordando il suo impatto iniziale con la città, quando abitava in «una povera casa, perduta nella periferia» e insegnava in «una povera scuola perduta in altra periferia» («Ah, il vecchio autobus delle sette, fermo / al capolinea di Rebibbia, tra due / baracche, un piccolo grattacielo, solo / nel sapore del gelo o dell’afa...») e dentro di sé provava desideri, aspirazioni e soprattutto attrazione e passione nei confronti del sottoproletariato, protagonista nei romanzi Il sogno di una cosa (uscito nel 1962, ma scritto nel 1949-50 e di ambientazione friulana), Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). 
Tra i testi migliori della raccolta c’è indubbiamente Riapparizione poetica di Roma, di straordinaria potenza visionaria, a partire dall’incipit in cui «Dio» è un’interiezione di stupore e di mistero: la città si rivela all’autore in un’atmosfera allucinata, in mezzo a coltri fiammeggianti, dove il fuoco divampa fino a bruciare l’acqua, in un fumo che alla fine è «rudere d’incendio», «gigantesco sfacelo», furia dissanguata, la quale «dà più ansia al mistero» di Roma e dei suoi «invisibili rioni». Una poesia rapita, come un sogno barocco di forze e passioni nascoste dentro e intorno al ventre della città («richiami di freschi / bambini, tra le stalle, o stupendi / colpi di campana, di fattoria / in fattoria»), di ossimori ardenti, di vita dentro la morte o viceversa. 
Dopo questa visione, prosegue il peregrinare del poeta, come «un ossesso», nel «primo dopocena, quando il vento / sa di calde miserie familiari / perse nelle mille cucine, nelle / lunghe strade illuminate, / su cui più chiare spiano le stelle», nella consapevolezza della propria solitudine: «Ah, essere diverso – in un mondo che pure / è in colpa – significa non essere innocente...». Ecco allora, più tardi, i giovani che vanno verso le Terme di Caracalla, «con maschile / pudore e maschile impudicizia», fendendo la notte con le loro motociclette, insieme ad altri personaggi solitari, come il pastore migrato undicenne, il vecchio padre di famiglia, distrutto dall’alcol e disoccupato, e poi le prostitute, i magnaccia, i «rifiuti del mondo», che danno vita a «leggi nuove / dove non c’è più legge» e «a un nuovo / onore dove onore è il disonore...»: un’umanità miserabile che sembra sepolta in «labirinti, cantieri e sterri, / dietro mareggiate di grattacieli, / che coprono interi orizzonti» e che il poeta descrive con ossimori: spietata nella pietà, forte nella leggerezza, con addosso una speranza ch’è senza speranza. Un’umanità a cui si aggiunge Pasolini stesso, «solo fino all’osso», col «privilegio di pensare» e con i suoi sogni da intellettuale, «testimone e partecipe»: una speranza «ossessa» accomuna il poeta al sottoproletariato, ma se in quest’ultimo è «anarchica», nel poeta è «estetizzante». Assai importante questa affermazione/confessione dello stesso Pasolini, perché ciò accentuerà la sua solitudine che culminerà in un’abissale disillusione, come viene già espressa nella sequenza poetica successiva, in cui la visione del film Roma città aperta di Rossellini è motivo di una riflessione sul passato e sul presente. La Resistenza fu all’inizio per Pasolini uno stile, una luce, una speranza di Giustizia, dunque un ideale assoluto, che poi si precisò nella «coscienza / d’una umana divisione di ricchezza», come una nuova luce, destinata però a sparire poco dopo, perché il «dopoguerra epico» sognato non c’è stato e coloro che un tempo lo ebbero nel cuore e ora sono adulti appaiono agli occhi del poeta come «poveri uomini / a cui ogni martirio è stato inutile», tanto da affermare tragicamente che «quella luce, / per cui vivemmo, fu soltanto un sogno / ingiustificato, inoggettivo, fonte / ora di solitarie, vergognose lacrime», un pianto provocato anche dalla straziante memoria del fratello Guido, ucciso nel 1945. 
Segue, dopo il testo A un ragazzo (1956-57) dedicato a Bernardo Bertolucci, il poemetto in terzine, diviso in sei parti, La religione del mio tempo (1957-59), su cui vale la pena soffermarsi, perché è la composizione più significativa del libro. L’apertura riguarda due ragazzi che il poeta osserva dalla finestra di casa sua, dopo due giorni di febbre: è l’inizio di un succedersi di riflessioni e ricordi che danno origine a ulteriori movimenti e sequenze tra la realtà esterna e ciò che Pasolini prova dentro di sé. L’immagine dei giovani «disadorni, ignorati», che se ne vanno nel sole, riportano improvvisamente l’autore al suo passato, alle «misteriose / mattine di Bologna o di Casarsa, / doloranti e perfette come rose», che lo fanno sentire «come un bambino / che non geme per ciò che non ha avuto solo, / ma anche per ciò che non avrà...». Un senso di esclusione si unisce a un pianto dolce, in cui la madre, la natura, la storia, la Chiesa sono come un po’ di sole «che riscalda una vigna in abbandono», insieme alle figure di «giovinetti antichi», con «i petti pieni della primavera». I ricordi infantili, il mito friulano, così come il legame con la Chiesa cattolica, sono sogni perduti che procurano in Pasolini uno strano male, un dolore che è amaro e dolce insieme. Il profumo della religione («la mia religione era un profumo») era per lui unito alla Chiesa e al mistero contadino: «Eppure, Chiesa, ero venuto a te. / Pascal e i Canti del Popolo Greco / tenevo stretti in mano, ardente, come se / il mistero contadino, quieto / e sordo nell’estate del quarantatré, / tra il borgo, le viti e il greto / del Tagliamento, fosse al centro della terra e del cielo». Sono versi assai espliciti, che dicono della passione giovanile di Pasolini, destinata poi a finire, spazzata dalla Resistenza, quando nell’animo del poeta si fa sentire il dissidio tra una Chiesa ormai «morta nei secoli» e la figura di Cristo («io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue»); da tale dissidio scaturisce la colpa della Chiesa, la quale per Pasolini ha assecondato nel tempo il tremendo grigiore del conformismo borghese e il neocapitalismo avanzante. La sua invettiva contro la Chiesa è feroce, proprio perché egli non ne sopporta l’ipocrisia e il potere («Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana»). Il poeta ritorna poi ai due giovani dell’inizio, alla loro immagine che incarna le «avventure del sogno», tuttavia alla fine del poemetto deve riconoscere la mancanza di ideali del tempo presente, che rende l’uomo vile, ed è proprio questa «viltà che fa l’uomo irreligioso». Si delinea così il duplice dramma di Pasolini, rappresentato da un lato dall’infanzia arcaica perduta, con il suo profumo religioso, e dallaltro dalla crisi del mito del sottoproletariato, non più libero, ma corrotto e in qualche modo vile, in balìa anch'esso, come tutti, del sistema borghese. Una disillusione, quella del poeta, che è per lui una sconfitta personale e collettiva, senza scampo, anche se l’ultimo testo della sezione, intitolato Appendice alla «Religione»: Una luce (1959) si conclude con un’affermazione tremenda e dolce insieme, contraddistinta ancora una volta da un ossimoro: «non c’è mai / disperazione senza un po’ di speranza». Questo testo finale risulta davvero vibrante di commozione e tenerezza perché riguarda la figura della madre, in una confessione non immune da sensi di colpa e pervasa dal riconoscimento di un bene segreto, intimo: «so che una luce, nel caos, di religione, / una luce di bene, mi redime / il troppo amore nella disperazione...». Evidentemente il poeta, dopo lo sdegno e la rabbia precedenti, ha sentito il bisogno di trovare, nel buio della sua solitudine e della sua disperazione, una luce. E questa luce viene dalla madre: «La casa è piena delle sue magre / membra di bambina, della sua fatica»; «una pietà così antica, / così tremenda mi stringe il cuore, / rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita»; «Tutto intorno ferocemente muore, / mentre non muore il bene che è in lei». È un testo che prefigura la morte di entrambi, «in un silenzio stento e povero», ma che è testimonianza di un amore struggente verso la madre, la quale incarna per l’autore una purezza destinata a rimanere: «nella dolcezza del gelso e della vite / o del sambuco, in ogni alto o misero / segno di vita, in ogni primavera, sarai / tu; in ogni luogo dove un giorno risero, / e di nuovo ridono, impuri, i vivi, tu darai / la purezza». 
Questo è il Pasolini poeta che raggiunge i risultati più alti, come nelle raccolte La meglio gioventù del 1954, comprendente le Poesie a Casarsa, e Le ceneri di Gramsci del 1957, non quello dell’invettiva, della rabbia o del risentimento personale presenti soprattutto negli epigrammi della seconda sezione del libro. Pure i testi dell’ultima parte, intitolata Poesie incivili (aprile 1960), appaiono meno rilevanti, anche se merita una citazione la poesia Il glicine, che attesta ancora una volta la solitudine del poeta e la scissione insanabile tra il corpo e la storia, nonché la rabbia dellanima nella ferocia del mondo.
La religione del mio tempo è una raccolta assai composita, con esiti di diverso livello, che rivela una sorta di ambiguità o bipolarità tormentata presente nella scrittura di Pasolini (riscontrabile del resto anche nella narrativa), tra momenti lirici e assai intensi e altri più aspri e crudi, fino alladozione di un linguaggio variegato e sovente ibrido, come dimostrano le raccolte successive, in particolare Trasumanar e organizzar del 1971. 
In ogni caso, e per concludere, non sembra lecito considerare La religione del mio tempo un esempio di poesia in cui sarebbe protagonista solo la storia del nostro Paese, perché ciò non coglie i motivi più interni dei principali componimenti, che sono la testimonianza di una dimensione esistenziale, introspettiva e tragica dell'autore. Pasolini, in fondo, si è sempre sentito in opposizione alla storia, ferito e tradito da essa, deluso e sempre solo, in cerca di una comunità e di unappartenenza che non ha mai trovato.

Mauro Germani

A proposito di Pasolini, su questo blog:

Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini

L'usignolo della Chiesa Cattolica

Riapparizione poetica di Roma

lunedì 5 maggio 2025

Nel sangue delle sillabe - Sulla poesia di Gabriele Gabbia


Nella prima raccolta di Gabriele Gabbia, La terra franata dei nomi (L’arcolaio, 2011), il nominare poetico è contraddistinto dalla frana e dalla maceria. C’è nei versi una profonda lacerazione colta nel suo manifestarsi, in un movimento spezzato e scisso che segnala la tensione di un dire che reca in sé il senso di una perdita, di una pienezza mancata. Il poeta invoca ed evoca i nomi, ma si scontra sempre con qualcosa di inafferrabile dentro e fuori di sé. Ciò che l’esistenza scuote e grida appare sulla pagina come la traccia di una scomparsa, di un’assenza o di un lutto. Una frana ab origine è infatti avvenuta, esponendo la parola alla propria solitudine e alla propria resa al cospetto della vita. Nella lettura noi veniamo coinvolti da questo evento tragico che implica appunto una terra franata e un Io frammentato e multiplo, scomposto da un destino rovinoso, che trascina nel proprio abisso ogni nome. E se il nome è – o dovrebbe essere – ciò che è in grado di assegnare una precisa realtà alle cose e al mondo, la frana che subisce si configura come una disgregazione che mina l’esistenza e in specifico il fare poetico. Ecco allora che l’impulso creativo della scrittura, con la sua urgenza e con il suo bisogno di totalità, s’infrange contro le rovine del linguaggio. La terra franata dei nomi pare proprio denunciare questa consapevolezza, questa aspirazione mancata, ed è chiaro come al centro vi sia qui una sconfitta primordiale, che coinvolge anche il poeta stesso, nel suo duplice ruolo di vittima e carnefice all’interno della contesa estrema tra l’esistenza e la poesia. Vengono in mente le parole di Maurice Blanchot quando afferma che la poesia dipende da chi scrive, dalla sua ricerca, tuttavia questa dipendenza «non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di sé stesso e come inesistente». In questo senso l’identità del poeta pare il risultato di un doppio smarrimento: quello propriamente umano e quello relativo alla scrittura.

Nella seconda raccolta, L’arresto (L’arcolaio, 2020), possiamo cogliere un’ulteriore fase, l’ultima, quella in cui la parola poetica in qualche modo si pietrifica, non è più travolta da alcuna forza tellurica, ma appare gettata in una fissità quasi marmorea. I movimenti e le dissociazioni precedenti, con le loro voci spezzate e multiple, qui si arrestano, si concentrano in forme prosciugate. I versi diventano più assertivi, più severi e più limpidi, anche nella loro raggelante bellezza. Essi, estremamente stratificati – si tratti di ricordi, di riflessioni, di squarci descrittivi o di episodi quotidiani – consegnano al lettore la testimonianza di un destino, una vera e propria incisione della memoria come su una lapide. La frana assume ora le sembianze di un congedo ripetuto, che parla con l’ultima voce, quella che Gabbia intende lasciare alla pagina in modo definitivo. È l’esigenza di ritornare ai testi della precedente raccolta per assegnare loro un valore aggiunto, una forma in qualche modo incancellabile e immutabile, chiudendo così il cerchio del dettato poetico. E ciò non può che essere interpretato come un continuo ritorno, ossessivo e quasi maniacale, ai temi già affrontati (la perdita, il lutto, il nulla, la solitudine, i limiti della condizione umana) in una revisione tormentata e ripetuta dei versi, affinché la parola sia fissata sulla pagina una volta per sempre. La poesia di Gabbia, in questo senso, tende ad avvicinarsi al sacro, nella ricerca di un assoluto, che è di anima e di sangue, e del quale i versi recano i segni, come tagli o ferite non rimarginabili. Si tratta di una passione, di un sangue rappreso, che si è coagulato dentro le sillabe dei versi e che è testimonianza di una necessità ulteriore, una concentrazione maggiore e un’ostinazione verso una parola in qualche modo postuma, fermata. L’arresto è dunque il momento decisivo e ultimo, in cui l’autore cerca di imprigionare «questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza», per dirla con il Leopardi del Cantico del gallo silvestre. Ed è proprio nell’impatto con quanto di misterioso e di ossimorico c’è nell’esistere che risiede per Gabbia, in questa sua seconda silloge, il confronto con la dimensione del sacro, intendendo quest’ultima non solo come epifania e prossimità, ma anche come ritiro e lontananza, custodia di una parola perentoria e potente, che è e vuole essere segno di contraddizione, non certo un semplice flatus vocis destinato a dissolversi. Non si può non pensare, a questo punto, alla bellezza sconvolgente e ineguagliabile che troviamo nei libri poetici e sapienziali dell’Antico Testamento – nei Salmi, nel Qoelet, nel Cantico dei Cantici –, oppure nei libri profetici come quello di Isaia, ma soprattutto nella straordinaria intensità dei discorsi e delle parabole di Cristo nei Vangeli. Questo sguardo della poesia verso il sacro – indipendentemente dalle credenze personali di ciascun poeta – si può intendere come la volontà di incidere sulla pagina i segni dell’esistenza in una tensione incessante, un lavoro caparbio e continuo, che sa però di essere sempre esposto alla possibilità del fallimento e dell’afasia. Ed è così che l’inquietudine di chi scrive appare inevitabile, perché la sacralità cercata nei versi è per il poeta un orizzonte in cui luce e tenebre si confondono, anche se è bene precisare che è proprio questa condizione di attesa e di pericolo che caratterizza il fare poetico, la sua sfida estrema, ardua, ai limiti dell’indicibile. Da qui nasce per Gabbia la necessità della parola, la quale – pur contornata dal nulla che l’assedia – afferma tenacemente il proprio spessore e la propria ferita. Piaga o graffio, essa diviene significativamente nei versi la testimonianza di una religiosità in qualche modo franata, senza trascendenza, i cui simboli, attinti dal cristianesimo, sembrano esercitare una sorta di seduzione violenta (antropologica, linguistica, iconografica), che però non ha sbocco e resta pertanto tragicamente interrotta. Gli elementi cruenti rinvenibili nella poesia di Gabbia lo attestano inequivocabilmente nelle varie fasi: nel prima (ciò che è all’origine della frana), e nel dopo (ciò che la scrittura, come atto ultimo, ci consegna, nel sangue trattenuto delle sillabe). Ma – a ben vedere – è proprio in questo passaggio e in questo sangue che risiede, a nostro avviso, un mistero più grande, un’interrogazione che non smette di interpellarci.

Mauro Germani

L’immagine «Preghiera» e il ritratto scattato all’autore sono opere del fotografo Claudio Rizzini.

Gabriele Gabbia è nato il 14 luglio dell’anno 1981 a Brescia e ivi vive. 

Nel 2011 ha editata – nella collana «I germogli» diretta da Stelvio Di Spigno per l’edizioni L’arcolaio di Gian Franco Fabbri – la silloge di liriche La terra franata dei nomi, con prefazione di Mauro Germani (vincitrice – in ex aequo con Clery Celeste – della seconda edizione del Premio di Poesia «Solstizio» 2015 e premiata con “segnalazione” alla XXVI edizione del Premio Nazionale di Poesia «Lorenzo Montano»; premio, quest’ultimo, che s’è aggiudicato nel 2013 vincendo la XXVII edizione nella sezione “Una poesia inedita”). 

Sue poesie e | o interventi critici sono apparsi all’interno di riviste cartacee, antologie di premi, blog, website. 

Intorno al suo lavoro in versi hanno scritto: Sebastiano Aglieco, Amedeo Anelli, Alessandro Bellasio, Luciano Benini Sforza, Gianluca Bocchinfuso, Giorgio Bonacini, Roberto Carifi, Giacomo Cerrai, Diego Conticello, Maurizio Cucchi, Anna Maria Curci, Milo De Angelis, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Francesco Filia, Marco Furia, Mauro Germani, Stefano Guglielmin, Giuliano Ladolfi, Giorgio Linguaglossa, Piera Maculotti, Gian Ruggero Manzoni, Mario Marchisio, Lorenzo Mari, Fabio Michieli, Federico Migliorati, Luca Minola, Marco Molinari, Elisabetta Nicoli, Giancarlo Pontiggia, Alfredo Rienzi, Jonata Sabbioni, Nevio Spadoni, Maria Zanolli, Camilla Ziglia. 

L’arresto – L’arcolaio, 2020 (finalista ai premi Gozzano e Montano) – è la sua seconda raccolta di liriche.

lunedì 21 aprile 2025

Caro Papa Francesco


Caro Papa Francesco, 
quando ho appreso della tua morte, non ho potuto trattenere le lacrime. È stata una notizia che mi ha colto di sorpresa e che mi ha profondamente commosso. Tu sei venuto «quasi dalla fine del mondo» per portare a tutti la parola di Cristo, una parola che è oltre ogni fine e ogni confine, una parola che supera i muri degli uomini. Tu ci hai parlato, come Gesù, dei poveri, degli ultimi, di coloro considerati scarti dalla società («Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!»). Hai sempre difeso la pace in questo nostro mondo «a pezzi», dilaniato dalle guerre, e hai esortato – prima che sia troppo tardi – a prenderci cura del creato perché in esso c’è la mano invisibile del creatore. Ci hai fatto capire che nessuno si salva da solo, perché Cristo è per tutti. Lo hai fatto con umiltà e semplicità, ripetendolo fino all’ultimo, nonostante la malattia e la sofferenza. Non ti sei mai risparmiato e non ti sei arreso al male, allo sconforto in questi tempi così difficili, consegnandoci invece il valore sacro della speranza e della preghiera. Ora vogliamo dirti grazie per ciò che sei stato e continuerai a essere nella Chiesa e nella nostra memoria. Oggi, più di un Papa teologo, abbiamo bisogno di un Papa pastore. Tu – com’è giusto – hai saputo essere entrambi, ma ciò che prevaleva in te era l’anima del pastore, la tua capacità di ascolto e di accoglienza, come un padre attento e misericordioso che si preoccupa per la vita dei figli. Non disse forse Gesù: «Non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori»? Io credo che la tua figura e le tue parole ci saranno ancora, non solo nella storia, ma nel nostro cuore. 
Grazie, Papa Francesco.

domenica 13 aprile 2025

"Il Vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini


Ho sempre considerato Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) un capolavoro assoluto, uno dei film più importanti della storia del cinema, un’opera che, oltre a suscitare in me una profonda commozione, sembra proprio realizzata in stato di grazia, fortemente ispirata, in cui si fondono mirabilmente originalità linguistica, grande suggestione formale e potenza del sacro. Pasolini si dichiarava «non credente, almeno nella coscienza»: ed è particolarmente significativa questa precisazione, che distingue l’ambito intellettivo-razionale da quello più segreto, arcano, emozionale, lasciando così spazio a una realtà ulteriore. È comunque indubitabile la presenza del sacro in tutta la sua multiforme e complessa produzione artistica, come un’ossessione scandalosa, misteriosa, sconvolgente, nella quale storia e mito, realtà quotidiana e forza naturale, concretezza carnale e impulso mistico si compenetrano in modo spesso violento, rivoluzionario, al di là di ogni consuetudine acquisita (si vedano, al riguardo, soprattutto due film: Teorema, del 1968 – una sorta di parabola moderna in cui il sacro si manifesta nei personaggi dell’Ospite e della domestica Emilia, che a un certo punto appare a mezz’aria, sui tetti delle case, come una santa – , e Salò o le 120 giornate di Sodoma, del 1975, nel quale, all’opposto, assistiamo alla morte del sacro, e alla violenza terribile perpetrata dal potere). Questa bidimensionalità del sacro pare essere proprio la cifra stilistica dell’opera pasoliniana, laddove la classica opposizione tra immanenza e trascendenza viene in qualche modo rovesciata e superata. 
Il testo del Vangelo di Matteo, con la sua straordinaria forza dirompente, rappresenta per Pasolini un’occasione davvero unica per scuotere – con la figura di Cristo e con la sua parola altra, pura e affilata come una spada – le coscienze intorpidite della società dei primi anni Sessanta, nella quale è possibile riconoscere i prodromi del consumismo che dilagherà negli anni seguenti. Si tratta di un’operazione cinematografica non priva di rischi in considerazione dell’argomento innegabilmente assai complesso. Pasolini intende, infatti, realizzare un film sul Vangelo non convenzionale. Pur mantenendo un’assoluta fedeltà al testo, pone al centro un Cristo iconograficamente diverso rispetto alla tradizione, così come gli apostoli e la gente comune hanno un aspetto e una parlata popolari, quasi da neorealismo; inoltre i luoghi scelti per la rappresentazione diventano la Puglia, il Lazio, la Calabria e la Basilicata, in particolare i Sassi di Matera. E proprio questa scelta stilistica si rivela vincente. È il Pasolini poeta ad avere la meglio, perché la povertà del paesaggio, i volti di attori non professionisti, nonché di alcuni amici dello scrittore-regista (tra cui Mario Socrate, Enzo Siciliano, Alfonso Gatto, Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg) vengono immortalati grazie a una bellissima fotografia in bianco e nero, che alterna – con un sapiente montaggio di Nino Baragli – primissimi piani a campi lunghi. Inoltre risulta di particolare rilievo la colonna sonora composta, tra gli altri, da brani di Bach, di Mozart, di Prokofiev, che conferiscono alle immagini un’icasticità davvero sorprendente. Si noti, poi, l’uso della macchina da presa a mano (frequente anche in altri film di Pasolini) per meglio avvicinare la realtà in certi aspetti di essa violenti, brutali, oppure estatici, pervasi dal mistero del sacro. Ma è soprattutto la figura di Cristo, nell’interpretazione di Enrique Irazoqui, a dominare – com’è giusto – il film: un Cristo segnato da un’urgenza, una missione potente da portare a termine, un compito che non dà tregua e che è al di sopra di tutto. 
Ha fretta, il Cristo di Pasolini: spesso cammina veloce, seguito dai suoi discepoli, parla con autorità e severità, annunciando una verità superiore che sconvolge e proclamando un amore che non ha nulla da spartire con il cosiddetto quieto vivere. Potremmo dire che in lui è presente una violenza dolce e sacra, misericordiosa, che travalica la ragione umana: un ossimoro che chiede l’accoglienza della fede, quella dei semplici come i bambini, ai quali dona il suo sorriso, affermando di non allontanarli, perché proprio di loro è il regno dei cieli. Ammirevole è poi la scelta di mostrare i miracoli compiuti da Gesù senza alcuna enfasi, con grande naturalezza, con il solo utilizzo della musica a fatto avvenuto, quando chi è stato miracolato se ne va cambiato, rinnovato nel corpo e nell’anima. Ecco allora che la severità di Cristo è soprattutto contro gli ipocriti («Guai a voi scribi e farisei ipocriti, poiché siete come sepolcri imbiancati che all’esterno appaiono belli a vedersi, dentro invece sono pieni di ossa di morti e di ogni putredine»), i potenti, i mercanti nel tempio (e questa è anche l’accusa che Pasolini ha sempre rivolto a ogni forma di potere politico, sociale, antropologico), ma si scioglie nei confronti dei poveri, dei fanciulli, di chi crede ed è puro di cuore e non si preoccupa, non si chiude nel proprio egoismo e nel proprio narcisismo:« Guardate gli uccelli del cielo: essi non seminano, non  mietono, né raccolgono in granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre; e voi non valete  più di loro? […] Osservate i gigli del campo, come crescono: non lavorano, non tessono. Eppure vi dico che neanche Salomone in tutta la sua magnificenza vestiva come uno di essi. Se Dio veste così l’erba del campo che oggi c’è e domani viene gettata nel fuoco, quanto più vestirà voi, gente di poca fede?»Ecco, il tema della poca fede è assai ricorrente nel Vangelo, insieme all’esortazione ad abbandonarsi a Dio e a non temere la morte: «Non vi spaventate per quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima. Temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo. Non si vendono forse due passeri per un asse? Ebbene, uno solo di essi non cadrà senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti numerati. Non temete, dunque: voi valete ben più di molti passeri». E questo per Pasolini significava soprattutto il coraggio del pensiero e della parola, il rigore di chi non accetta meschini compromessi, proprio come Gesù che è fermo e risoluto verso Satana che lo tenta nel deserto: le sue parole sono così forti che non ammettono repliche, tanto che il diavolo appare come un poveraccio che indossa nobili vesti, ed è costretto ad andarsene sconfitto, in silenzio. 
Le sequenze finali della passione e della morte del Messia sono altamente drammatiche e di estrema solitudine (in particolare, dalla notte del Getsemani in poi). Come non ricordare le immagini del dolore straziante di Maria, interpretata non a caso dalla madre di Pier Paolo? Verso la figura di Cristo, Pasolini, infatti, ebbe sempre una forte attrazione, sia nel periodo della gioventù friulana, sia successivamente, come testimoniano diversi testi poetici. Di grande potenza sono i momenti atroci della crocifissione che culminano nella morte di Gesù, quando il cielo si oscura e la terra trema: è il buio del male e dell’assenza, del creato abbandonato a sé stesso,  della paura e del pentimento da parte di alcuni («Davvero costui era Figlio di Dio!»), fino all’annuncio della resurrezione, a cui seguirà l’apparizione ai discepoli e la promessa di essere con loro «tutti i giorni, sino alla fine del mondo». 
Per quanto concerne le interpretazioni critiche del film, non è condivisibile, a mio parere, l’opinione di coloro che non hanno ravvisato alcuna sacralità nel Cristo pasoliniano (tra questi, per esempio, Morando Morandini, il quale afferma che viene messa in luce più l’umanità che la divinità di Gesù). Mi sembra significativo rilevare, invece, la dedica dell’autore «alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII». Per di più il film (sicuramente il migliore ancora oggi tra quelli tratti dai Vangeli) si aggiudicò, insieme ad altri importanti riconoscimenti, il Premio OCIC (Office Catholique International du Cinéma). Per concludere  due affermazioni di Pasolini – tratte da Saggi sulla politica e la società (Mondadori, 1999) – che attestano la peculiarità e l’originalità del suo pensiero. La prima: «La Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano […] il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso». La seconda: «Tutto quello che Marx ha detto della religione è da prendere e da buttare via, è frutto di una colossale ignoranza».

Mauro Germani