mercoledì 30 settembre 2020

Mauro Germani - Altri aforismi

 

 

Abbandonarsi all’abbandono e non sentirsi più abbandonati: rendere grazie all’abbandono. Nonostante.

Ognuno di noi è una domanda di sangue, un segno, una storia, un segreto, che chiede di essere rivelato.

Tutto ciò che ho scritto e che scrivo è il tentativo di dire l’indicibile.

Miracolosamente, l’abitudine al dubbio mi ha portato a dubitare anche di esso.

Questa libertà della caduta, dell’essere ciechi e sordi… Come ho potuto tradire quella volta che un amore mai provato mi abbracciò nel vuoto, potentissimo e dolce, e tremai, inginocchiato nella preghiera? Ma una sera di lacrime mi attendeva, davanti ai Santi Evangeli...

Un prodigio o un miracolo ci fanno scoprire l’esistenza di una realtà più grande e più vera, quell’impossibilità che diviene possibile, che c’è, e ci sconvolge.

Il silenzio di Dio ci parla continuamente. È sempre qui, nel buio della sua luce.

Da bambino lo intuivo, poi l’ho dimenticato. Solo adesso ho capito che non v’è alcuna relazione tra ragione e preghiera. Più un’orazione è per la mente assurda, più è autentica, perché proviene dall’anima.

Oh, grandezza della Chiesa invisibile, della comunione di anime mosse dalla preghiera, dalle lacrime e dall’attesa!

Il male che preme, che sale dall’anima fino alla carne. Il male che è sangue versato dalla disperazione. Una condanna. Un abisso, che solo una Grazia superiore può colmare.

Il corpo è come il mondo. Entrambi sono destinati ad essere lasciati.

Li sento. Alcuni morti mi passano accanto. Invisibili e lievi, chiamano senza parole, forse cercano di dire il mistero della loro eterna fanciullezza.

Durante la notte, da sdraiati – cioè nella posizione dei morti – possiamo avere, ad occhi aperti, nel buio, visioni e sensazioni altrimenti improbabili. Poi, il mattino seguente, ricordiamo che dobbiamo dimenticare.

L’altro volto che siamo, l’altra anima che abbiamo, l’altra verità che sapremo: Videmus nunc per speculum in aenigmate: tunc autem facie ad faciem. Nunc cognosco ex parte: tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum. (San Paolo, I Corinzi, XIII, 12)

Ecco, l’assenza s’è incarnata, è divenuta per noi corpo e sangue – l’unico corpo e l’unico sangue. È il morto ed il risorto.

Tutto avviene tramite il dolore: nascita, vita e morte ne sono profondamente segnate. Senza di esso nessuna liberazione è possibile.

Da kronos a kairòs. Enigma del tempo. Cammino o salto verso quella spoliazione di sé, che è – paradossalmente – pienezza, promessa che attende e ci attende. Il passaggio è la nostra via crucis.

Ogni anima è macchiata dal sangue, è segnata dal tormento e dal dilemma: il nulla e il tutto di Dio, la fine e il futuro dell’origine.

giovedì 3 settembre 2020

Léon Bloy - La donna povera



Léon Bloy, La donna povera, Città Armoniosa, 1978

Questo romanzo di Léon Bloy (1846-1917), pubblicato nel 1897, è un grido e una preghiera. Con la straordinaria forza espressiva che lo contraddistingue, il grande scrittore cattolico ci consegna un’opera che fa trasalire, percorsa da fremiti violenti e soavi, ora di condanna e ora di profonda fede e spiritualità.

Ben oltre il naturalismo, che giudica fallimentare, Bloy rivendica «il diritto di narrare al di fuori dei limiti stabiliti dai teorici della finzione». E in effetti la sua scrittura si situa in uno spazio letterario altro, in cui i personaggi appaiono come incarnazioni di anime tout-court, senza psicologismi di sorta, e il narratore non risulta mai esterno, ma coinvolto nella storia con il furore e la passione di un profeta che non può tacere.

La vicenda di Clotilde, la donna povera del titolo, è esemplare. Creatura segnata dalla sventura e dalla grazia, luminosa anche e soprattutto nella sofferenza, non può non trasmettere al lettore una profonda commozione.

Già nella descrizione iniziale, è possibile percepire la natura eccezionale del personaggio: «i suoi magnifici capelli neri scintillanti, i grandi occhi di gitana prigioniera da cui sembrava si dilatassero le tenebre, ma dove si concentrava ogni rassegnazione, il pallore doloroso del suo volto infantile i cui lineamenti, modificati da un’angoscia vivissima, erano divenuti quasi severi e infine la morbida agilità dei suoi gesti e del suo camminare» conferiscono, fin da subito, alla figura di Clotilde «un’aria di grandezza», in opposizione a quanto di turpe la circonda, cioè alla forza travolgente e incessante del male.

A Clotilde è riservato un destino di dolore e di elezione, degno dell’eroica santità dei martiri, o degli ultimi, a cui è stato promesso il Regno Celeste.

Il tema della povertà – centrale in tutta l’opera di Léon Bloy  e che egli stesso dovette sperimentare drammaticamente sulla propria pelle – è qui fonte di lacrime e di preghiera, di solitudine e di abbandono a Dio, di umiltà e di coraggio. A proposito del suo mistero, Bloy scrive: «“Avrete sempre i poveri con voi”. Dal giorno in cui furono pronunciate queste parole abissali, nessuno è stato più in grado di dire che cos’è la povertà». E Clotilde, questa vittima sacrificale del mondo, questo agnello immolato e baciato dalla grazia, rifulge tra le tenebre di una società ipocrita e meschina, condannata al proprio nulla, alla propria tragica insensatezza.

Il feroce disprezzo di Bloy per la borghesia passa attraverso la denuncia della sua cupidigia, nonché della terribile falsità morale, ovvero quella maschera sociale che viene ostentata per coprire ogni segreta nefandezza. Così i ricchi – afferma Lèon Bloy – «questi miserabili intuiscono che la povertà è la faccia stessa di Cristo, la faccia oltraggiata che mette in fuga il principe di questo mondo e che dinanzi ad essa non è possibile straziare il cuore dei poveri al suono dei flauti o degli oboe. Sentono che la sua vicinanza è pericolosa, che le lampade fumigano al suo avvicinarsi, che le torce diventano ceri funebri e ogni gioia sparisce». Va detto poi che gli strali dello scrittore colpiscono anche quella parte del clero troppo comoda e amante del quieto vivere, quei ministri opachi o benestanti, che hanno ridotto in normale consuetudine, vale a dire in cenere, il fuoco della parola divina, e non sanno pertanto trasmettere alcunché a chi li incontra.

Attorno a Clotilde ruotano diversi personaggi, l’anima dei quali è sapientemente tratteggiata da Bloy. Oltre a coloro che sono la causa della sventura della donna, descritti con sarcasmo in tutta la loro miseria morale, vi sono quelli attratti dal suo misterioso fascino spirituale: personalità non comuni, artisti eccentrici e solitari, fuori da ogni conformismo ideologico e sociale, destinati anch’essi all’incomprensione e a una sorte avversa. Tra questi, vale la pena citarne due: Cain Marchenoir e Léopold: il primo, scrittore dilaniato dall’assoluto, innamorato del Medioevo («Il Medioevo era un’immensa chiesa come non se ne vedrà più fino a quando Dio non ritornerà sulla terra […] Era costantemente il Venerdì Santo e il sole non si mostrava»), segnato da una religiosità tragica e intransigente, tanto da essere chiamato il grande inquisitore di Francia; il secondo, praticante «l’arte dimenticata della miniatura» sposerà, invece, Clotilde, e condividerà con lei i patimenti e i dolori della loro drammatica vita.

L’impetuosità della scrittura di Bloy non risparmia – all’interno della narrazione – pagine di profonde riflessioni circa l’esistenza, i suoi abissi e i suoi enigmi, come isole sparse qua e là, circondate da un mare agitato che attende d’essere placato da una forza superiore. Perché alla fine questo romanzo dolce e violento, evangelico e visionario, incarna mirabilmente le ultime parole di lei, la donna povera: «Non c’è che una tristezza. È quella di non essere santi».

Mauro Germani


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