domenica 19 dicembre 2021

Mario Pomilio - Il Natale del 1833


 Mario Pomilio, Il Natale del 1883, Rusconi, 1983

In questo romanzo di Mario Pomilio – pubblicato nel 1983 e vincitore del Premio Strega nello stesso anno – verità ed invenzione, documenti reali e fonti immaginarie si intrecciano in una narrazione di notevole intensità, che è soprattutto una meditazione sul mistero della sofferenza e del male. Il protagonista è Alessandro Manzoni, che nel Natale del 1833 subisce il lutto della prima moglie Enrichetta e si trova a vivere un dramma personale che investe anche la propria fede, tra silenzi, ripensamenti, incertezze e domande con cui deve fare necessariamente i conti. E la lirica intitolata Il Natale del 1833, scritta sull’onda del dolore e rimasta incompiuta nonostante diversi tentativi di portarla a termine, è testimonianza del suo travaglio interiore. 

Nel racconto di Pomilio fa quasi da filo conduttore il carteggio immaginario tra Giulia Beccaria e Mary Clarke, nel quale la madre dello scrittore confessa i propri pensieri ed i propri sentimenti e, al contempo, si sforza di comprendere non solo ciò che avviene nell’animo del figlio, ma anche il misterioso disegno della volontà divina, che appare davvero indecifrabile. Il dolore di lei s’incontra con quello del figlio, cerca una corrispondenza, ma spesso si deve arrendere a qualcosa di indefinito, di sfuggente, pur nella consapevolezza della sofferenza comune. Manzoni, infatti, sembra chiuso nella propria solitudine e nel tormento della propria fede. Che cosa si agita in lui, al di là dell’aspetto esteriore, sempre così misurato e composto, tanto da essere scambiato da qualcuno per freddezza e aridità? Donna Giulia afferma di avere «una fede imperfetta, un timido riflesso» rispetto a quella del figlio. Se lei, in fondo, era preparata al destino di Enrichetta – «arresa» all’idea di un Dio «troppo ineffabilmente alto per lasciarsi sommuovere dalle nostre angustie e dai nostri voti» –  Alessandro, al contrario, non poteva rassegnarsi al silenzio dell’Onnipotente, ed ella rammenta le notti insonni del figlio, rivolto ai «cieli inamovibili di Dio», al suo pregare assorto in una stanza, davanti a un vecchio quadro con una Maternità. Proprio lì, secondo lei, si consumavano uno strazio e una contesa, l’implorazione di un segno, di una risposta. Proprio lì doveva esserci il segreto di un dolore immenso al cospetto di una fede che tenacemente chiedeva di resistere nella solitudine. 

E ciò che interessa a Pomilio è indagare la prova dell’afflizione, quando sembra venire meno ogni soccorso e si manifesta una «crisi di fede entro la fede», nel momento in cui qualcosa urge dall’anima e qualcosa lo contrasta, lo ferma. In Manzoni si può percepire, infatti, un dissidio tra la poesia e la propria esistenza, tra la parola che vorrebbe gridare ed i princìpi morali e religiosi radicati in lui. Ne sono la prova i progetti (immaginari e incompiuti) di un Giobbe nei quali Manzoni si dibatte tra  fedeltà biblica e moti del proprio animo, fino ad una immedesimazione nel personaggio, chiamato a «testimoniare della bontà di Dio pur sentendosene tradito, riconoscere l’assurdo delle sue decisioni e farsi intanto prova vivente che è giusta la sua giustizia».  È «il dramma – scrive Pomilio – d’una condanna alla fede. Giobbe sta prigioniero del cerchio senza potersene staccare»: Manzoni non osa «spingersi fino ai luoghi dai quali non si può tornare» e tuttavia insegue «Dio pei suoi sentieri impraticabili, timoroso di discostarsene ma assillandolo con la sua interrogazione». 

E in questa «tempesta di sentimenti», lo scrittore in seguito sarà colpito da nuovi lutti: la morte di Giulietta, la figlia primogenita, nove mesi dopo quella di Enrichetta; la scomparsa di Cristina, da poco sposa, il 27 maggio 1941 ed infine la morte della madre. La meditazione sul tema del dolore è pertanto destinata a continuare. Pochi mesi prima della scomparsa, Donna Giulia scrive: «Cos’altro, dico, rimane alle nostre povere menti se non, ahimè, di dover scegliere tra una di queste due eresie: che o è Dio a volere il dolore dell’uomo, o il dolore dell’uomo è lo scacco di Dio?». 

Ma che cosa pensa, infine, Alessandro Manzoni? Pomilio ci consegna una risposta dello scrittore in una lettera inviata all’amico Fauriel, nella quale afferma che «la storia delle vittime è di per sé la storia di Dio», in quanto ogni volta che un innocente soffre, il Signore rinnova in lui il proprio sacrificio. Manzoni afferma di rendersi conto ora di questa verità che prima non aveva saputo esprimere compiutamente. Si tratta – sostiene – di una consolazione basata su una solidarietà di compassione e d’amore: «la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio». 

Il romanzo di Pomilio – autore sicuramente da riscoprire (tra i suoi romanzi Il quinto evangelio del 1975 e Il cane sull’Etna del 1978) – si configura non solo come un’interrogazione circa il dolore del mondo nonostante Dio, ma anche come una testimonianza della solitudine dello scrittore alle prese con i propri conflitti interiori. Ed è importante aggiungere che si tratta di un’opera in cui la contaminazione tra storia ed invenzione non nasce da un gioco letterario, ma dalla necessità di esplorare il non detto, le zone d’ombra, le reticenze e le omissioni per penetrare quell’intimità segreta che è sempre alla base di ogni scrittura e di ogni esistenza.

Mauro Germani

sabato 4 dicembre 2021

Søren Kierkegaard: il culmine e il paradosso

Victor Eremita (Aut aut), Johannes de Silentio (Timore e tremore), Constantin  Costantius (La ripresa), Johanne Climacus (Briciole di filosofia), Vigilius Haufniensis (Il concetto dell’angoscia), Anti-Climacus (La malattia mortale): sono alcuni degli pseudonimi utilizzati da Søren Kierkegaard (1813-1855) per le sue opere principali, nelle quali egli crea una forma di comunicazione indiretta che dà vita ad una sorta di teatro interiore, dove vengono messe in scena varie possibilità di esistenza.  

È questa una scelta stilistica che è anche filosofica, perché se da un lato implica un’attenzione particolare allo stile, cioè alla scrittura, dall’altro riconosce il primato dell’esistenza in contrapposizione all’idealismo astratto, nella convinzione che l’essere non può venire dedotto dal pensiero. Si tratta di un punto fondamentale dell’opera di Kierkegaard, contraddistinta da una costante polemica antihegeliana: il pensiero oggettivo e assoluto non può comprendere l’esistenza, il suo movimento, la sua «passione infinita», il dibattersi del Singolo alle prese col proprio esistere e con la verità. E occorre aggiungere che quest’ultima, per il filosofo danese, non solo non risiede nel pensiero, ma nemmeno nel Singolo: è oltre, non è dentro il mondo o dentro l’uomo. Al contrario, essa è nella trascendenza che si basa sul divario tra finito ed infinito, tra uomo e Dio, in quel totalmente Altro che richiede un salto, una rottura nei confronti di ciò che è immanente. 

C’è qui tutta la drammaticità dell’esperienza religiosa, che travalica il senso comune, la ragione umana, ogni tipo di compromesso e di accomodamento rispetto alla mondanità: un senso ultimo, inconcepibile –fuori dalla dialettica conciliante e rassicurante – che trova la propria origine nella scelta, nella decisione definitiva e incontrovertibile. I famosi tre stadi esistenziali di Kierkegaard, estetico (di colui che vive nell'immediato, come il Don Giovanni di Mozart), etico (di colui che vince sul piano storico e sa realizzarsi nel tempo) e religioso (di colui che riesce a possedere l’eternità) attestano il travaglio interiore  dello stesso filosofo, che lo porterà poi al superamento dei primi due per arrivare all’ultimo, alla sua chiamata, a quella meta finale che è l’unica degna di un’esistenza autentica, segnata dal mistero di Dio, ma al tempo stesso condannata alla solitudine, all’isolamento, all’incomprensione altrui. Basti pensare al rapporto con Regine Olsen, alla rottura del fidanzamento, alle polemiche con la chiesa luterana danese e con gli intellettuali e gli scrittori del tempo. Kierkegaard tende a mitizzare la propria esperienza, sa di essere inattuale ed è convinto di compiere una missione che non può che suscitare scandalo, di essere chiamato. Il suo è un pensiero che va oltre il pensiero, come in un certo senso si può affermare per Nietzsche, anche se quest’ultimo perverrà ad esiti completamente opposti. 

L’opera di Kierkegaard che segna il passaggio alla sfera religiosa è Timore e tremore (1843). In essa fondamentale risulta la figura di Abramo, che risponde al comando di Dio e leva il coltello per sacrificare il figlio Isacco: il suo è un gesto che si compie nella solitudine e nel silenzio, lontano dallo sguardo del mondo, senza il clamore che spetta all’eroe tragico. Abramo ascolta la voce incomprensibile di Dio, ne ha timore e tremore, e sceglie la fede. Nulla può essere mediato: la sfera etica e religiosa, l’immanente e il trascendente non coincidono, e Abramo è costretto all’angoscia della scelta. Egli è il vero cavaliere della fede e la sua obbedienza estrema viene premiata: l’angelo, inviato da Dio, ferma la sua mano, e grande sarà per lui la ricompensa. Viene sancito in questo modo lo scacco dell’etica, che per Kierkegaard è determinato dalla presenza del peccato nell’esistenza dell’uomo: il raggiungimento dell’idealità morale diviene impossibile ed è simile ad uno scoglio contro cui si è destinati a naufragare. Solo assumendo su di sé la propria colpa con il conseguente pentimento, l’uomo può riconciliarsi con Dio e dunque intraprendere la via religiosa con tutto ciò che essa comporta. Il passaggio dall’etica alla fede è un salto che richiede l’accettazione del paradosso, di ciò che per la ragione umana è assurdo, ma che è la verità del cristianesimo: un Dio che si è incarnato, l’eterno che si rivela nel tempo. L’urto contro cui si scontra la ragione è il pensiero che non riesce più a pensarsi, che trema e cede dinanzi a ciò che lo supera. Ed è proprio in questo scandalo che si rivela il culmine dell’esistenza, l’unica via possibile autenticamente religiosa, che per Kierkegaard consiste nella consapevolezza dell’infinita differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, contrariamente a ciò che afferma il pensiero hegeliano, che riassorbe il cristianesimo nel suo sistema. Non v’è culmine senza paradosso, dunque, come non v’è fede senza l’uno e l’altro. 

Che cosa possiamo cogliere, allora, nel pensiero di Kierkegaard? Un’esortazione non solo a non attribuire una funzione unica e totalizzante alla ragione e al pensiero, ma a riconoscere l’esistenza di una verità altra, diversa, in grado di comprendere la centralità del soggetto con le sue contraddizioni, di colui, cioè, che è chiamato a decidere di sé qui e ora, in vista della propria possibile salvezza. Di più: l’appello a una religiosità non di facciata o di comodo, ma vissuta autenticamente, in una disposizione di ascolto interiore e di obbedienza, contro ogni privilegio mondano. 

Postilla. Un ampio discorso a parte meriterebbe una riflessione sull’eredità di Kierkegaard. È indubbio come il filosofo danese abbia segnato una svolta di grande importanza nella filosofia ed è altrettanto curioso notare come abbia esercitato un’influenza notevole anche in chi non si riconosceva in ciò che egli indicava come verità. L’analisi delle varie possibilità esistenziali concesse all’uomo, la differenza tra pensiero ed esistenza, il concetto di angoscia non come qualcosa di determinato ma avente come oggetto il nulla, la vertigine della libertà, la complessità inevitabile dell’aut-aut sono temi e problemi posti in luce da Kierkegaard per la prima volta in modo radicale e ripresi poi autonomamente da numerosi pensatori, scrittori, poeti, artisti e psicoterapeuti. In diversi ambiti possiamo ancora oggi trovare tracce e riferimenti alla sua opera. In campo filosofico, è certo come ne sia debitore l’intero esistenzialismo nelle sue varie forme, da quello cristiano di Gabriel Marcel (1889-1973) a quello ateo di Jean-Paul Sartre (1905-1980), ma non bisogna dimenticare il pensiero teologico di Karl Barth (1886-1968). Per quanto riguarda la letteratura, invece, i primi nomi che vengono alla mente sono quelli di Franz Kafka (1883-1924), di Fëdor Dostoevskij (1821-1881) e, in Italia, di Dino Buzzati (1906-1972).

Mauro Germani

 

mercoledì 17 novembre 2021

Giovanni Nuscis - Il grande tempo è ora

 

Giovanni Nuscis, Il grande tempo è ora, Arcipelago Itaca, 2021

Nelle Tesi di filosofia della storia (1940), Walter Benjamin indica nel tempo-ora il momento in cui si spezza il continuum storico, cioè quell’attimo propizio per riaccendere in qualche modo il passato, dando vita con un salto dialettico a ciò che era stato lasciato ai margini. Si tratta di una riappropriazione che è discontinuità rivoluzionaria, perché in grado di redimere il passato nell’apertura verso il futuro. Il tempo-ora è il punto zero da cui ripartire, la scommessa di una possibile liberazione degli umiliati e degli offesi, grazie ad una scelta irriducibile che si configura come nuova rimemorazione delle epoche passate. 

È quanto si può percepire – sin dal titolo – da questa corposa raccolta poetica di Giovanni Nuscis, che comprende testi scritti dal 2011 al 2018, nella quale viene auspicata, come per Benjamin, la potenzialità messianica dell’adesso, la sua illuminazione, che riscatta il passato in vista di una possibilità etica di salvezza o comunque di risanamento, di nuove prospettive di civiltà. Nei testi di Nuscis si può cogliere, in modo più o meno esplicito, un’urgenza etica in grado di scongiurare l’adattamento passivo al corso degli eventi. Le ferite della delusione e dell’abbandono, della solitudine e dello sconforto, spesso derivanti dal nostro egoismo e  dalle ingiustizie presenti nella società, non sono da considerarsi irreparabili perché lasciano comunque intravedere una sospensione, una possibilità, un non ancora, che potrebbe manifestarsi: ciò che non è stato, infatti, non è detto che non potrà mai essere. Ecco, dunque, il desiderio di uno scatto, che è anche uno scarto, l’esigenza di una rottura, di un cambiamento radicale, affinché il tempo – filo conduttore che unisce i vari componimenti – non  si chiuda definitivamente in sé stesso, ma diventi occasione e slancio per un salto di qualità. E a ben vedere, il tempo non è da concepire come un’entità astratta, perché coinvolge la nostra esistenza: ci chiama, ci sollecita, ci scuote, in una duplice dimensione, individuale e collettiva. 

C’è nella poesia di Nuscis, una visione antropologica ben precisa che nella successione dei testi si mette a fuoco in modo sempre più nitido. Accanto alla necessità di fare la storia e di vincere la tristezza di una quotidiana rassegnazione, vi è pure la consapevolezza dell’umana fragilità, che significa soprattutto sapere di non essere padroni assoluti della nostra vita, perché in fondo nulla ci appartiene, ma siamo noi ad appartenere a ciò che ci costituisce, ovvero alla nostra antica origine, alla stessa natura, all’universo ed al suo mistero: si vedano i versi di Non appartiene la terra o di Roccia madre, nonché la poesia Sapere che ci sei, rivolta alla «madre di tutte le madri», e caratterizzata da un afflato di tenerezza filiale, che trova il suo compimento in un amorevole abbraccio «oltre la fine», «nel salto/di vita in vita».

Proprio da questa coscienza antropologica nasce l’esigenza di un particolare modus vivendi, di un dovere etico, di un’integrità e di una responsabilità a cui non ci si può sottrarre: un’attenzione, una vigilanza continua nei confronti dell’arroganza del potere e dei suoi soprusi, che è non solo ferma condanna di ogni forma di ingiustizia («la giustizia è un sole/in un cielo infestato di nubi», dicono i versi iniziali di Attese), ma anche continua domanda interiore, volontà di discernimento, spinta ad agire salvaguardando sempre la dignità. Ed è questo lo sguardo di Nuscis sul mondo e su se stesso. Uno sguardo che spazia, senza forzature, dai ricordi personali (tra gli altri, la fanciullezza a Posatura e poi la vita in Sardegna, gli amici lontani ma pur sempre «uniti nel vuoto», il funerale della zia suora nella cattedrale di Oristano), riflessioni spesso amare sul presente («l’ennesima croce di gelo/nel buco nero della storia»), alla speranza verso un futuro diverso, tutto da costruire, in quanto «Ogni ora/ha un seme nascosto» e «Qualcosa a volte preme/per uscire, liberandoci»). Uno sguardo, ancora, che è ricerca di senso e di valori, oltre le barriere del tempo («Ciò che esplose/arde ancora») ed oltre le nostre solitudini, le nostre ansie, le nostre mancanze, i nostri vuoti (si legga, al riguardo Il giorno da non dimenticare, di sapore kafkiano), perché la svolta decisiva si trova al di là dei confini angusti dell’io: «Milioni di voci in una sola/vinceranno la tua inerzia», come decretano i versi di Qualcosa di buono

Il suo è un dettato che, pur non rinunciando, quando occorre, alla denuncia e all’indignazione, conserva una misura, un controllo formale, una limpidezza oggi piuttosto rari. Il rischio del contingente e del transitorio di tanta poesia civile è qui scongiurato, in quanto la dimensione sociale è sempre associata a quella propriamente esistenziale, ai dubbi, alle inquietudini, alle interrogazioni circa il nostro essere-nel-mondo. Come sottolinea giustamente Antonio Fiori nella postfazione, quella di Nuscis è una poesia che «ha un fuoco etico di lunga durata, capace di vedere le strade già percorse come le strade da intraprendere, tanto nella vita sociale che nella vita d’ognuno». E da questa capacità scaturisce la voce del tempo-ora, che è insieme ammonimento ed esortazione, denuncia e speranza.

Mauro Germani

venerdì 12 novembre 2021

Pensiero filosofico e via mistica

 

All’interno del pensiero cristiano è possibile individuare diversi presupposti teorici della cosiddetta via mistica. Se è vero che quest’ultima non può che sfuggire, nella sua essenza e nel suo manifestarsi, alle categorie filosofiche, in quanto le supera in una dimensione altra, che è al di là della ragione umana, è altrettanto inconfutabile che alcuni pensatori cristiani hanno elaborato le premesse concettuali di un approccio mistico al divino, cioè di un’ascesi contemplativa che, nei fatti, trascende poi ogni tipo di speculazione. 

Per comprendere questo processo teorico, destinato a riconoscere alla fine il proprio stesso annullamento nell’esperienza ineffabile della mistica, bisogna risalire al neoplatonismo, il quale – com’è noto – ebbe un influsso non tanto secondario sulla Patristica ed oltre. Interessante è considerare, ad esempio, come il pensiero di Plotino (203-269 d.C.) – nato, tra l’altro, con l’intento di contrastare il cristianesimo – venga poi in qualche modo riassorbito dallo stesso pensiero cristiano, dopo la fine della filosofia greca, segnata dalla chiusura dell’Accademia ateniese nel 529 d.C., della quale Proclo (410-485) fu l’ultimo grande esponente. 

L’Uno di Plotino – che a sua volta rimanda alla tesi platonica dell’unità ideale come principio unico della realtà – è da intendersi infatti come unità assoluta e indefinibile, tanto che «a parlare con precisione, non si deve dire di lui né questo né quello». Per Plotino, l’Uno non è l’essere e non è nemmeno il pensiero, perché antecedente a tutto: è piuttosto la causa, e non può essere colto mediante la ragione, ma solo in modo estatico, cioè attraverso un allontanamento della ragione da sé. Questa concezione ineffabile dell’Uno verrà in parte ripresa e rielaborata da Dionigi Pseudo-Areopagita, autore cristiano vissuto verso la fine del V secolo, che nella sua Theologia mystica ribadisce l’infinità trascendenza e superiorità di Dio: a Dio, che è causa,  «più convengono forse le negazioni che le affermazioni», perché Egli è in tutto e al contempo separato da tutto. Dionigi riprende poi in termini cristiani la concezione degli intermediari tra Dio e il mondo, cioè gli esseri angelici che costituiscono una complessa gerarchia. Anche in Agostino (354-430) possiamo trovare alcuni elementi neoplatonici, da lui rielaborati in modo nuovo ed originale: si pensi alla sua concezione del tempo come distensio animae, che rimanda in parte a Plotino, o a quanto scrive nel De vita beata (386) e nei Soliloquia (387), dove l’anima, per arrivare alla comprensione di Dio e della verità, deve liberarsi dal mondo della sensibilità, cioè oltrepassare i limiti della corporeità. 

È interessante notare come, molto tempo dopo, in Meister Eckhart (1260-1327), frate domenicano, e in Nicola Cusano (1401-1464), nominato cardinale nel 1448, vi siano riflessioni che rinviano al pensiero di Dionigi. Meister Eckhart afferma l’assoluta trascendenza di Dio rispetto all’essere e conseguentemente la nullità dell’uomo, il quale però può elevarsi grazie all’anima e a ciò che in essa «è increato ed increabile». Il suo è stato definito un misticismo speculativo, che utilizza la dialettica neoplatonica, ma al contempo si unisce ad un misticismo religioso, che mira all’unione con Dio. Dal canto suo, Nicola Cusano sostiene, nel De docta ignorantia (1440), che la verità di Dio non può essere espressa attraverso i concetti e che la si può avvicinare mediante la negazione di tutti i nostri modi di conoscenza. Dio può essere definito come coincidenza degli opposti, in quanto ciò che è finito ha il suo fondamento nell’assoluto: il mondo non è Dio, ma la sua esplicazione, mentre in Dio tutto è co-implicato. Particolarmente efficaci risultano le metafore del re ignoto e del volto di Dio, che troviamo nell’opera Idiota (1450): la prima indica che Dio è entità assoluta, sommo esemplare, ma inconoscibile in sé; la seconda rimanda all’espressione biblica  secondo cui il volto di Dio non lo possiamo vedere direttamente. 

Nonostante queste relazioni tra pensiero greco e cristianesimo, è importante sottolineare – all’interno della tensione fra «Atene e Gerusalemme», per dirla con il filosofo russo Lev Ŝestov (1866-1938) – la svolta fondamentale e rivoluzionaria operata dal messaggio cristiano, che introduce un radicale cambiamento rispetto a quanto espresso dalla cultura greca per quanto concerne la concezione della storia, della divinità, dell’uomo, del dolore e del male, inserendoli in una prospettiva di salvezza: si pensi, ad esempio, nella dottrina cristiana, alla cesura tra i tempi, che spezza la continuità circolare, o alla fede in un Dio creatore, trascendente e libero, che si fa uomo e muore in croce per la salvezza di ogni essere umano. Il cristianesimo non è una filosofia, ma è chiaro che la sua provocazione non ha smesso e non smette di suscitare problemi e dibattiti nell’ambito del pensiero. C’è in esso qualcosa di inesauribile che inquieta e al tempo stesso attrae. 

Come già menzionato all’inizio di questo intervento, le riflessioni dei filosofi a cui abbiamo accennato non si esauriscono in se stesse, perché in realtà rimandano a ciò che va oltre le loro medesime formulazioni. La speculazione incontra qui un limite, qualcosa per cui il pensiero e la parola sembrano arretrare per lasciare spazio ad altro ed accogliere ciò che non è più dicibile ma che può essere esperienza. È quanto hanno vissuto nella propria carne tutti i veri mistici, ai quali oggi pochissimi fanno riferimento.

Mauro Germani


venerdì 5 novembre 2021

Antonio Fiori - I poeti del sogno

 


Antonio Fiori, I poeti del sogno, InSchibboleth, 2020

C'è un sogno multiplo in questo sorprendente libro di Antonio Fiori: quello comune ai dodici poeti antologizzati, e quello di Fiori stesso che segretamente sogna ogni autore, rivelando di ciascuno i versi immaginati, la personalità, la biografia e la bibliografia. 

Ciò che accade a questi poeti, che spaziano dall’età augustea fino ai nostri recenti anni, è il suono di una lingua incomprensibile che improvvisamente irrompe nei loro sogni, qualcosa di cui sfugge il senso, che non si riesce a decifrare e a riprodurre, ma che lascia una traccia nell’anima: sono voci che paiono a volte interroganti, oppure s’interrompono e svaniscono insieme a chi le pronuncia, o ancora giungono esili come un sussurro, tutte comunque  impenetrabili nel mistero che le accompagna. Le loro parole sconosciute provengono da un altrove che in qualche modo si approssima e si manifesta, come se un linguaggio arcano prendesse forma dal fondo oscuro del nostro linguaggio. 

E ancora da un altrove ci parlano i versi dei poeti che Antonio Fiori fa vivere nelle pagine del libro, mediante un’operazione rischiosissima, ma che risulta perfettamente riuscita e che sicuramente sarebbe piaciuta a Borges o a Pessoa. Qui troviamo, infatti, quell’esattezza del sogno che è fondamentale in letteratura e che è assai difficile da realizzare. Nulla deve essere lasciato al caso in fatto di finzione. È necessario che quest’ultima abbia in sé la propria verità occulta per trasformarsi ed esistere, ovvero per trascendersi. Ed è ciò che Fiori riesce a compiere nella composizione delle poesie e dei profili biografici e critici dei dodici autori presenti nel volume. Per ciascuno di essi scopriamo, grazie alla precisione dell’immaginazione e alle capacità mimetiche dell’autore, parole, versi, immagini, sentimenti, che sono esistenza, e non espressioni di vuoti ectoplasmi. Perché qui l’invenzione non è un gioco fine a se stesso, ma ricerca nella vita altrui di ciò che non smette di interrogarci e di provocarci, in modo che la cosiddetta verità letteraria abbia una corrispondenza dentro di noi e sia così nostra

Leggendo le opere dei vari poeti immaginari, non si resta certo indifferenti, in quanto questi ultimi ci appaiono – nelle loro individualità così ben delineate e rappresentate – portatori di un segreto che ci interpella e ci coinvolge, tanto che noi stessi alla fine siamo indotti a domandarci quale sia il nostro senso, proprio come gli autori nei confronti degli enigmatici messaggi ricevuti in sogno. La Piccola antologia – come recita il sottotitolo – si apre con i Fragmenta di Lucio Faleno Magno, patrizio romano dedito soprattutto all’epigramma, e si chiude con i testi di Gherardo Finzio, di cui si dice aver esordito come poeta nei blog letterari, ed essere poi apprezzato «dalla miglior critica del momento», salvo poi essere colto da morte improvvisa a soli  trentasei anni. Tra questi due autori, che iniziano e concludono la breve raccolta, si avvicendano i versi (e le vite) degli altri poeti, tutti ormai scomparsi, a cui Antonio Fiori dà voce con la loro voce, dimostrando una straordinaria capacità d’immedesimazione ed un’insolita duttilità stilistica. Colpiscono, in particolare, le poesie e le biografie di Jules Tassard, che ha la sua iniziazione poetica mentre si trova nascosto nell’abbazia benedettina di Mont Saint-Michel; Irma Indovina, nei cui versi prevalgono «l’inadeguatezza, l’autoesclusione sociale, l’incontrollabilità del sentimento amoroso»; Carlo Gasparino, che tiene segreta per tutta la vita la sua passione per la poesia; e Marianna Concordia, le cui poesie testimoniano sia la fede religiosa, sia quella politica. Da sottolineare, inoltre, i bellissimi ed evocativi titoli delle opere dei vari poeti, nonché i nomi delle case editrici citate: nulla sembra improbabile, e ciò rende ancora più affascinante il libro. Quest’ultimo, a ben vedere (e per fortuna), è un’opera che potremmo definire anomala, in quanto si colloca al di là di un genere ben determinato, comprendendo la poesia (polifonica), l’invenzione biografica e perfino la notazione critica. Non è cosa da poco. 

Ci si potrebbe, infine, chiedere: dov’è Antonio Fiori in tutto questo? Dappertutto e in nessun luogo. Egli c’è e non c’è, pare celarsi nell’assenza, così come nei versi di ogni poeta rappresentato. Il suo è qui un enigma di realtà e di sogno, di voce e di silenzio.

Mauro Germani

venerdì 22 ottobre 2021

Cristiano Spila - Simulacri


    Cristiano Spila, Simulacri, Calibano Editore, 2020

I  quattro racconti che compongono questa raccolta di Cristiano Spila nascono dal confronto tra i simulacri e l’esistenza, tra le forme immutabili e cristallizzate del tempo ed il flusso enigmatico del divenire. In atmosfere sospese ed insieme cangianti, scosse dal pensiero che diventa visione e viceversa, l’autore coglie negli eventi narrati gli agguati imprevedibili del destino, come da una soglia oscura, quasi a spiarli, a sorprenderli nel loro manifestarsi. Tutto allora sembra oscillare tra l’essere e l’apparire: l’esistenza si sdoppia nel suo riflesso e quest’ultimo, a sua volta, la segna e la chiama.

Il primo racconto scaturisce da un sogno premonitore di rovina e di acqua putrescente, che visita Iciarco, discepolo di Talete, il quale sarà poi destinato a scoprire, in una Mileto «stordita e stanca, e umida di greve sonnolenza», la morte inaspettata del maestro. Egli sentirà dentro di sé di essere «condannato senza appello a non sapere più nulla». E davanti a lui ci saranno solo il corpo privo di vita di Talete, col suo «viso tumido e inerte», ed il volto gelido ed impassibile della statua di Afrodite, immobile nella luce, quella statua che già aveva sognato la notte prima grondante d’acqua, senza testa e con le estremità delle braccia monche. Forse – potremmo azzardare – Iciarco, al cospetto dell’imprevedibilità dell’esistenza e della consapevolezza della morte, nonché di quella luminosità altra del simulacro, intuisce improvvisamente ciò che Eraclito avrebbe poi introdotto per la prima volta, rispetto alla speculazione ionica precedente: l’importanza della ricerca interiore, rivelatrice di profondità infinite («Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione»), e che mostra la paradossale coincidenza tra ciò che è lontano e ciò che è intimo. 

Nel  racconto successivo, Il liuto, Astrolabio – il figlio della colpa di Eloisa e di Abelardo –  anela alla luce, e cerca nel suono del liuto conforto e pace. All’interno dell’abbazia cistercense di Hauterive si dedica alla musica, nella quale, secondo Agostino, «il ritmo e il numero stanno in un’operazione dell’anima, che è il bene modulandi», ma essi sono anche un mezzo per evocare il silenzio. E proprio dal silenzio dell’ultima nota pizzicata nella corda del liuto, egli avverte una segreta presenza, una voce oracolare che gli sussurra:« Io sono quel che tu ignori». È l’inizio di qualcosa di misterioso che lo attende una notte, quando l’eco dei suoni del liuto provoca apparizioni – due molossi bianchi nel buio, che prendono vita dalle statue di un tempietto – e distruzioni nel silenzio: una frana di  capitelli, di colonne, di marmi, di sassi e di ghiaie senza alcun rumore. Prodigi o sortilegi della musica e di un silenzio che per Astrolabio sono rovina, ma forse anche rinascita e appropriazione di una nuova vita. «Io sono ciò che tu hai lasciato», mormora alla fine la voce oracolare.

Nel terzo racconto, intitolato Agonia della neve, il protagonista è Swedenborg, che qui è sempre denominato «l’uomo che si credeva Swedenborg», assecondando l’ignoranza intima – come la definisce Borges in Altre inquisizioni – per la quale nessun uomo sa chi è veramente, teoria che fu proprio di Swedenborg  e di altri autori, come ad esempio Leon Bloy. Il testo narra di una visione notturna che si rivela anche un trapasso, uno sconfinamento nell’oltre, in cui il vecchio Swedenborg insegue nella neve una figura femminile («una dea, o una maga, un’obliquità») di ghiaccio e di nulla,  che lo trattiene in un abbraccio mortale: è «ancora una volta il tragico corpo a corpo con il tempo», fino ad una sospensione che può significare il suo stesso superamento.

Bevi con me il nepente…, al termine della raccolta, descrive un vecchio De Quincey, che ormai prova un’immensa fatica a scrivere, a causa del tremore alle mani. Anche qui un simulacro, la statua del monumento funerario di Caius Iulius Bathyllus, uno dei liberti di Ottaviano Augusto, ha il potere di attrarre l’attenzione e l’immaginazione del personaggio protagonista, ormai assuefatto al laudano, oppiomane senza speranza, colpito inesorabilmente dal trascorrere degli anni, tanto che non smette di fissare la figura del giovane. Egli vede in quel delicato giovinetto di marmo ciò che non è più e che tuttavia non smette di essere, perché in qualche modo lo chiama, invitandolo a bere il nepente, il farmaco miracoloso, da quella coppa che gli offre, come fosse il riflesso immortale di sé, quando era ancora giovane.

In conclusione, si può asserire che i temi del tempo e della morte, presenti in tutti i racconti intensi, rarefatti e notturni di Cristiano Spila (saggista che si è occupato, tra gli altri, di Gadda, D’Arrigo, Vigolo, Bassani, nonché traduttore di Poe, Melville, London) si rifrangono e si contemplano in echi possibili, in sospensioni narrative che lasciano spazio al mistero, «mescolando tono fantastico e rievocazione letteraria», come si legge nella nota in quarta di copertina.

Mauro Germani

lunedì 18 ottobre 2021

Citazioni dalle opere di Georges Bernanos

 

C’è una vertigine nella tristezza, una sporca vertigine. […] Fortunati quelli che riescono ad amare la tristezza senza offendere Dio, senza peccare contro la speranza. (La gioia)

Come mai non ci si accorge, più spesso, che la maschera del piacere, spoglia di ogni ipocrisia, è proprio quella dell’angoscia? (Diario di un curato di campagna)

Io vedo ogni delitto creare attorno a sé come una specie di turbine che attira invincibilmente verso il suo centro colpevoli e innocenti e del quale nessuno potrebbe predire la forza e la durata. Sì… un gesto insignificante scatena una potenza misteriosa che trascina nello stesso gorgo il criminale e i suoi giudici, fino a quando non ha esaurito la sua violenza, secondo leggi che non ci sono conosciute. (Un delitto)

La noia: una disperazione abortita, una forma turpe della disperazione, che è come la fermentazione di un cristianesimo decomposto. (Diario di un curato di campagna)

Ho visto morire un santo, io che vi parlo, e ciò non avviene per nulla come lo si immagina, non assomiglia a quanto si legge sui libri: è uno spettacolo che esige fermezza, perché si sente l’armatura dell’anima scricchiolare. Ho capito allora cos’è il peccato… Ci siamo tutti dentro nel peccato, gli uni per goderne, altri per soffrirne, ma, a conti fatti, è lo stesso pane che spezziamo tutti sul margine della fontana, è lo stesso disgusto che inghiottiamo trattenendo la saliva. (La gioia)

I poveri hanno il segreto della speranza. Mangiano ogni giorno nella mano di Dio. […] Solo i poveri sperano per tutti noi, come solo i santi amano ed espiano per tutti noi. (Un uomo solo)

Il Signore ha vissuto e vive sempre fra noi come un povero, e viene sempre il momento in cui egli decide di farci poveri come lui, in modo da essere accolti e onorati dai poveri, alla maniera dei poveri, per ritrovare così quel che un tempo egli ha tante volte conosciuto sulle strade di Galilea: l’ospitalità dei miserabili, la loro accoglienza. Egli ha voluto vivere fra i poveri. (Dialoghi delle Carmelitane)

Il peccato contro la speranza, il più mortale di tutti, è forse il meglio accolto, il più accarezzato. Ci vuole molto tempo per riconoscerlo, e la tristezza che lo precede, lo annuncia, è così dolce… È il più ricco degli elisir del demonio, la sua ambrosia. (Diario di un curato di campagna)

La peggiore disgrazia che possa capitare a un uomo è essere soddisfatto di sé. (Corrispondance)

Una volta usciti dall’infanzia, occorre soffrire molto a lungo per rientrarvi, così come proprio in fondo alla notte si ritrova un’altra aurora. (Dialoghi delle Carmelitane)

La preghiera: una strana sospensione del dolore e della gioia, o il lento dileguarsi dell’uno e dell’altra in un sentimento unico, indefinibile, in cui sembrano fondersi la tenerezza, la fiducia, una ricerca inquieta e tuttavia soave e ancora qualcosa che somiglia a una pietà sublime. (La gioia)

Certamente, l’uomo è dappertutto il nemico di se stesso, il proprio segreto e subdolo nemico. Il male gettato in qualsiasi luogo fruttifica quasi sicuramente; mentre al seme del bene, per non essere soffocato, occorre una sorte straordinaria, una prodigiosa fortuna. (Diario di un curato di campagna)

C’è sempre un’avventura che correte, vostro malgrado, che forse correrete domani. Il più sedentario degli uomini la correrà, ed è un’avventura più grande e meravigliosa di quelle che avete letto nei libri… Ma sì, la morte, la vostra morte, proprio la vostra. Un letto d’agonia non è che un letto d’agonia finché il moribondo conserva l’ultimo  contatto con i vivi: voglio dire quel cuore infaticabile che resisterà fino alla fine. Ma non appena il povero petto estenuato si è riempito di un solenne silenzio, il letto più ordinario mi appare come una miracolosa piccola imbarcazione che all’improvviso scivola via e se ne va… Così comincia la grande avventura. (Satan et nous, in Essais)

La paura della morte è un sentimento universale che riveste molte forme, di cui alcune sono sicuramente intraducibili dal linguaggio umano. Solamente un uomo le ha conosciute tutte: è il Cristo nella sua agonia. (I grandi cimiteri sotto la luna)

Se l’affermazione non fosse audacissima, direi che i poemi più belli non valgono, per un essere veramente commosso, il balbettio d’una maldestra confessione. (Diario di un curato di campagna)

Non capire nulla! Essere informato di tutto e non capire nulla: è questa la sorte degli imbecilli, preda della furia di bramosie rivali, scatenate dalla stampa o dalla radio. Tutta quanta l’esistenza di uno di questi sventurati probabilmente non basterebbe ad assimilare neppure la metà delle notizie contraddittorie che gli vengono proposte in una settimana. (La France contre les robots)

La mediocrità dei benpensanti… La civiltà moderna scommette sulla parte bassa dell’uomo. Noi scommettiamo sull’altra: essere eroici o non essere più. (Le chemin de la croix-des-âmes)

Che importano a Dio il prestigio, la dignità, la scienza, se tutto questo non è che un sudario di seta su un cadavere decomposto? (Diario di un curato di campagna)

Molti mi applaudono, ma interiormente sono seccati di ascoltare da un cattolico certe verità che avrebbero volentieri sfruttato contro la nostra fede. (Un uomo solo)

Non ho mai confuso il partito clericale con la Chiesa di Dio. La Chiesa ha la custodia del povero; il partito clericale è sempre stato nient’altro che il subdolo intermediario del cattivo ricco, l’agente più o meno consapevole di tutte le simonie. (Scandale de la vérité)

Si diceva un tempo – si dice ancora, ahimè! – che la verità si trova nel giusto mezzo. Tanto vale proclamare apertamente che il suo posto naturale è tra due menzogne, come il prosciutto tra le fette di pane del sandwich. Il miglior modo di raggiungere la verità è andare fino in fondo al vero, quali che siano i rischi. (Le chemin de la croix-des-âmes)

Il peccato entra raramente in noi con la forza, ma vi entra con l’inganno. Si insinua come l’aria. Non ha né forma né colore né sapore che gli siano propri, ma li assume tutti. Ci usa dal di dentro. (Sotto il sole di Satana)

Nessuno è gettato nell’abisso senza aver respinto, senza aver ritirato il proprio cuore dalla mano terribile e dolce, senza averne sentito la stretta. Non è abbandonato nessuno che prima non abbia commesso il sacrilegio essenziale: rinnegato Dio non nella sua giustizia, ma nel suo amore. (L’impostura)

Quelli là non hanno saputo riconoscere il più prezioso tra i doni dello Spirito Santo. Non capiscono mai nulla quelli là. Il nostro vero nome ce lo dà Iddio. Quello che portiamo lo abbiamo in prestito. (Sotto il sole di Satana)

La Vergine era l’innocenza. Ella non ha del peccato alcuna esperienza, quell’esperienza che non è mancata ai più grandi santi. Lo sguardo della Vergine è il solo sguardo realmente infantile, il solo vero sguardo da bambino che si sia mai levato sulla nostra vergogna e sulla nostra infelicità. Per pregarla bene, occorre sentire su di sé questo sguardo, che non è per nulla quello dell’indulgenza ma della tenera compassione, della sorpresa dolorosa, di non so quale sentimento inconcepibile, inesprimibile, che la fa più giovane del peccato, più giovane della razza da cui è nata e, per quanto madre per la grazia, madre delle grazie, la più giovane del genere umano. (Diario di un curato di campagna)

I testi qui proposti sono tratti da: G. Bernanos, La mia rivolta, Gribaudi, 1970; G. Bernanos, Pensieri parole profezie, Paoline, 1996.


domenica 3 ottobre 2021

Giovanni Testori - Interrogatorio a Maria

Giovanni Testori, Interrogatorio a Maria, Biblioteca Universale Rizzoli, 1979

Che emozione rileggere, dopo tanti anni, Interrogatorio a Maria di Giovanni Testori! In questo testo, pubblicato nel 1979, si fa nostra una voce che è domanda e poi preghiera, una voce che trema, che è antica e sempre nuova, qui e ora. Essa trova espressione nel teatro-oratorio, nel teatro-altare, nel teatro che è accoglienza e ascolto, «luogo d’una comunione» – per usare le parole dello stesso Testori – , spazio d’incontro in cui l’esistenza si rivela, si confessa e si comprende nell’offrirsi alla propria origine, alla propria ragione e sostanza.

Così, «in una sera che «brucia ed arde,/nell’ombra che troppo rapida/discende/e a morire si prepara/», in una sera che porta con sé «il dubbio, la certezza,/ il dolore, la pena, /la fatica»– come sono in fondo tutte le sere degli uomini – la figura dolce di Maria viene invocata dal Coro. E tra la folla che attende la sacra apparizione, Ella risponde alla chiamata e si fa presenza, si muove, sale verso la scena disadorna, «non giovane, non sposa; / vestita già degli anni, /di strazi e di dolori ricoperta», pronta ad accogliere tutti, perché di tutti è madre. Il dialogo di Maria con i membri del Coro ha al centro il mistero dell’Incarnazione: solo accettandolo interamente si può per Testori dare un senso alla nascita, alla vita ed alla morte. Qui il grido drammatico e disperato di tante sue opere si tramuta in domanda trepidante ed attesa, abbandono fiducioso e preghiera. E la figura di Maria, nella sua materna dolcezza, nel suo grembo d’amore e di sangue, è il sì incarnato, è l’obbedienza all’Essere increato, che a sua volta si dona nel Figlio: «Mio Figlio è un infinito stormo, /un furibondo volo, /un vento./ Soffia spinto dall’essere/ la sua stessa ragione,/ il suo stesso movimento/e feconda di sé la misera nostra creta/di cenere e sgomento».  E quel grembo, che è stato di Lui, proprio per questo è anche di tutti: «[…] fu l’assommarsi in me/ d’ogni altra madre che avesse detto sì/e accettato avesse ogni figlio deciso/da mio Figlio/ […] No, non le madri solamente,/ma le vite,/tutte le vite apparse,/le vite in quell’attimo apparenti,/quelle che appariranno dopo/e quelle che ancora appariranno nel futuro;/tutte le gioie,/tutte le speranze, tutti i dolori,/tutte le pene e le fatiche;/tutte le vite intere dei suoi figli/negli intero loro movimenti,/furono ugualmente necessarie/perché il Figlio alfine si facesse».

Ecco il qui e l’oltre di Testori: la carne di Maria ferita, perché vi entra il Corpo di tutti i corpi, schiantata a terra dall’amore, «piena di carne, sì,/ma altra;/la Sua e nostra;/la carne dentro ogni tempo», quella carne ripiena di «Spirito eterno,/eterno fiato» che diventa «sangue, vene,/grumo di muscoli, ossa,/feto».  Come ebbe modo di sottolineare Geno Pampaloni, «quello di Maria è qui un acconsentimento drammatico, lacerante e carnale, ove non c’è più traccia dei colori aerei e trasparenti del Beato Angelico, ma che ha il senso di una tremenda, seppur dolcissima, assunzione di responsabilità del dolore, della gloria, della storia, della Croce». Maria già sente, già vede «le spine, i chiodi,/i legni della croce» e  nel teatro spoglio nel quale è stata invocata ricorda e rivive il sacrificio del Figlio, i suoi «fiori d’agonia,/nostra carità, nostro martirio,/nostra strada, nostra speranza sola,/nostra via». Perché Egli non ha mai smesso di morire ed ancora «muore in ogni vita/che prima che nasca voi spegnete,/muore in ogni vita cui nata/di vivere non permettete», muore in tutte le ingiustizie e in tutti i tradimenti, «invade queste assi/col Suo cadavere lucido e straziato,/occupa l’altare,/scende dentro la piazza,/per le strade si perde e si ritrova,/entra nelle case,/nelle capanne chiuse del lavoro,/dorme con voi, con voi s’alza,/soffre, fatica, suda, pensa,/ansima, respira./Vi guarda». È questo il suo amore, questa la sua vicinanza, questo il suo essere con noi.

L’appello a Cristo da parte di Maria (e di Testori) risulta centrale. Egli, infatti, nonostante il dolore, «è dolce nel Suo immenso sacrificio» e di tutti, uno per uno «è arso dalla sete». Viene definito  «Amore dell’Essere Santissimo e increato», «Parola fatta carne», «Carne fattasi qui martirio», «Martirio fattosi in noi ludibrio», «Tempo d’eternità», «Eterno in nullità», «Scienza nella bontà», «Luce in carità», «Sapienza senza potenza», «Potenza senza violenza», «Dolcezza senza languore», «Folgore senza furore». La Sua promessa sarà mantenuta quando verrà a riprendersi la nostra cenere e «nel Suo grembo/che è vita fuori della vita/tutti ci riporterà,/là dove già fummo», così che «anche nel chiudersi cieco della storia» potrà esserci luce e certezza.

Ecco, dopo le parole di Maria tutto appare diverso. L’invocazione iniziale è stata esaudita. La sera adesso ha una dolcezza nuova e «di rose dolci bagna i tetti delle case», perché «è la sera di Dio/com’è di Dio ogni alba,/ogni mattina». In Lui anche la notte che sta per sopraggiungere diventerà rifugio dai dolori. Maria, con la Sua presenza, ha cambiato il cuore di tutti.

Sergio Pautasso nella nota in appendice al testo, scrive giustamente che qui troviamo «una lingua semplice e limpida che, quasi, pare toccata dalla grazia» e che la poesia di Testori «arriva alle vette della comunicazione individuale e globale attraverso la forma più semplice e più popolare che da secoli si conosca: la preghiera». Non si pensi, però, che con la trilogia di cui fa parte Interrogatorio a Maria ed iniziata con Conversazione con la morte (1978), per terminare poi con Factum est (1981) – scompaia nell’opera di Testori la componente drammatica: essa sarà sempre presente, anche in forma estrema (si pensi a In exitu, oppure a Gli angeli dello sterminio), in quanto strettamente legata alle contraddizioni dell’esistenza, alle passioni che sconvolgono l’animo umano e all’abisso del male nel mondo. Ed occorre aggiungere che anche la fede ritrovata di Testori non sarà mai astratta né puramente spirituale, ma segnata profondamente dalla carne e dunque sofferta. In un’intervista pubblicata nel volume Traduzione della prima lettera ai Corinti (Longanesi, 1991), egli confessa: «Ogni volta che prendo a scrivere qualcosa, per me, è l’ultima e definitiva; poi mi trovo a dover continuare a vivere come un vecchio sacco smagrito, pieno solo d’orrore e di peccati, e allora si rimette in moto, senza che io lo meriti, la Carità; ella (Lui) sa benissimo che quanto da questo nuovo momento uscirà sarà solo un’altra ingiuria… […] Da sempre devo, ogni volta, ricominciare: è la mia dannazione…».

Mauro Germani

 

lunedì 27 settembre 2021

Alexander Lernet-Holenia - Lo stendardo


Alexander Lernet-Holenia, Lo stendardo, Adelphi 2014


Ad una lettura superficiale, questo romanzo di Alexander Lernet-Holenia (1897-1976), pubblicato nel 1934, potrebbe sembrare una storia avventurosa e romantica  ambientata in un contesto storico ben preciso, quello della prima guerra mondiale. In realtà il libro è una narrazione che viene scossa da improvvisi lampi metafisici e da un incombente senso di fine e di disfatta. La componente avventurosa si rivela puramente esteriore, perché sottende altro: non solo il disfacimento dell’impero asburgico, ormai prossimo alla rovina, tra le varie etnie di soldati lungo il fronte balcanico, ma anche la vicenda del protagonista, l’alfiere Menis, che si trova a vivere un’esperienza destinata a segnarlo per sempre. Egli scoprirà segretamente le proprie passioni e al tempo stesso il filo nascosto che lega la vita alla morte. In questo romanzo del tramonto, infatti, i morti – con le loro figure, le loro uniformi e le loro voci – irrompono improvvisamente, in brevi ma significativi passaggi, che sono memoria e premonizione insieme: «la folla di coloro che erano venuti pur non potendo più venire, l’esercito invisibile dei caduti e dei dispersi, un esercito glorioso, rutilante di uniformi e sfavillante di decorazioni. […] Perché il vero esercito non è fatto dei vivi, bensì dei morti». 

È interessante notare come ciò che capita al protagonista sia in conflitto con ciò che sta preparando la Storia: la fine di un impero con i suoi ideali e la sua antica gloria. Menis è costretto a partecipare incredulo alla catastrofe imminente. Proprio nel momento in cui tutto precipita e l’esercito è allo sbando, tra ammutinamenti, rivolte e stragi, egli sente ancor di più dentro di sé l’attaccamento alla patria, come una chiamata a cui non può non rispondere. Ed è lo stendardo a rivelargli questa fedeltà e questa obbedienza. All’inizio gli appare come «uno straccio stinto che mandava qualche luccichio di ricami metallici ormai opachi», ma poi ne resta impressionato, quando apprende che avrà più di centocinquant’anni e rappresenta «la gloria insanguinata» di tutti coloro che avevano perduto tutto per difenderlo. Così, guardando la mano di chi lo porta, immagina «di vedere anche tutte le altre mani, calzate di spettrali guanti bianchi alla moschettiera, […] quelle dei morenti che se lo erano lasciato sfuggire e quelle che si erano protese per afferrarlo al volo, tutto un groviglio di mani che avevano tenuto alta una sola cosa: l’onore». 

Nel corso della narrazione la passione per lo stendardo si rivelerà per Menis ancora più forte rispetto a quella per Resa, bellissima donna per la quale non esisterà a compiere audaci imprese. Dopo avere avuto l’onore di diventare egli stesso alfiere  dello stendardo e dopo la sconfitta dell’impero, egli si renderà conto di avere vissuto, più che per la donna amata, per quell’antico e glorioso drappo con l’aquila bicipite. Non solo. Capirà che una guerra, anche se finisce, non finisce mai del tutto per chi l’ha combattuta, e che molte cose che gli erano accadute gli restavano in fondo oscure, tanto da pensare: «E perché mai, in momenti così eccezionali, l’invisibile non potrebbe essersi insinuato davvero, e con maggiore evidenza del solito, dentro il visibile, governandolo, e governando tutti noi che assistevamo alla fine dell’Impero?».

Tutto in questo romanzo avviene in un’atmosfera sospesa, come se fosse eccezionale, come se da un momento all’altro dovesse esserci una rivelazione. L’apparizione dello stendardo, gli incontri tra Menis e Resa, le cavalcate notturne, le battaglie, le fughe, la solitudine dopo la sconfitta, ci appaiono come momenti di un sogno enigmatico, di qualcosa di misterioso che avviene lungo un confine incerto. A ben vedere, anche gli altri personaggi recano in sé aspetti oscuri: basti pensare alla figura profetica di Hackenberg, a quella sfuggente di Charbinsky, o a quella tormentata di Anschütz, per citarne alcuni. Lernet-Holenia ci fa sentire ogni volta – con tocchi sapienti – l’ importanza del mistero in noi e attorno a noi. 

A proposito del vecchio Hackenberg, egli scrive che  aveva avuto «il compito di rendere visibile il nesso tra gli avvenimenti, mentre nell’ambito dell’invisibile il Reale si compiva». Le stesse parole potremmo usarle anche noi per lo scrittore austriaco.

Mauro Germani

 

giovedì 16 settembre 2021

Salvatore Satta - La veranda

Salvatore Satta, La veranda, Ilisso, 2002

La veranda è il primo romanzo di Salvatore Satta (1902-1975), scritto tra il 1927 ed il 1928, ma pubblicato solo nel 1981 da Adelphi, dopo la fortuna critica che venne riservata a Il giorno del giudizio (Adelphi, 1979). 

Da molti considerato l’equivalente italiano della Montagna incantata (1924) di Thomas Mann, il libro (che venne presentato nella sezione inediti al Premio Viareggio, senza incontrare il favore della giuria, nonostante l’apprezzamento di Marino Moretti, che si prodigò inutilmente per premiarlo) è ambientato in un sanatorio isolato tra le montagne alpine, dove si trova l’io narrante, un giovane avvocato, improvvisamente colpito dalla tisi. È in questo universo chiuso, dominato dall’incubo della malattia, in un’atmosfera sospesa tra speranza e attesa della fine, tra ricerca inutile dell’oblio ed angoscia insopprimibile, che Satta consegna al lettore personaggi-emblema di una separazione: quella dal tempo e dal mondo dei sani, circoscritta in un luogo allontanato, nel quale ogni sentimento diviene più acuto, ogni pensiero contemporaneamente più fragile e più potente, in una strana mescolanza di realtà ed allucinazione. Se la prima parte del romanzo è più corale, in quanto presenta in brevi capitoli le voci dei malati che si alternano nella veranda durante le ore di sdraio, come fossero di fantasmi che assediano il protagonista con le loro ossessioni, la seconda parte risulta più intima e rivela la condizione esistenziale del protagonista. È infatti proprio qui che egli, nella sua solitudine, cerca di comprendere meglio sé stesso, confortato dalla presenza di suor Paola, angelo di purezza in quella comunità dolente e talvolta degradata (uno dei ricoverati arriverà a suicidarsi, sopraffatto dalla solitudine e dalla cattiveria gratuita dei compagni). Così, a poco a poco, in lui si fa risentire con forza il richiamo della vita, rappresentato dal sentimento d’amore platonico che prova verso «la bionda signora del n. 12», a cui affida il suo sogno di riscatto, mediante sguardi, attese, speranze, in una dimensione spirituale che sa di assoluto e sembra trascendere la realtà contingente: «Il mio cuore batte su queste tranquille rovine. Odo dal profondo il palpito ignoto, e su per le vene, le fibre, un fluire incessante, come di linfa da lontane radici. Sono la pianta immortale del mio morto giardino». In questa situazione, al tempo stesso rarefatta e vitale, il protagonista pensa al mondo da cui è separato in modo nuovo, con una strana dolcezza, e può accostarsi con l’immaginazione ai lumi che si accendono «nelle case degli uomini, sulle mense raccolte».

Piuttosto significativo si rivela l’incontro con Melanzana, personaggio che vive da anni nel sanatorio come un sopravvissuto dimenticato dal destino ed attratto irrimediabilmente dal nulla e dalla fine: «Tutto ciò che ha sapore di morte va acquistando un’attrazione sempre più invincibile nel mio cuore. Quando so che qualcuno sta per andarsene, io mi fermo lì accanto delle notti, fino a che posso non chiudere gli occhi». Non a caso, contro di lui, ad un certo punto, si scaglia il protagonista, forse intuendo inconsciamente che quell’uomo rappresenta in fondo la sua anima oscura: «Come egli non capiva che nel mondo tutto soggiace a una legge, ignota quanto si vuole, misteriosa quanto si vuole, ma indubitabile, la legge per la quale nessun essere è stato ed è mai vanamente creato, per la quale ciascuno, consapevole o inconsapevole, serve ad un fine, e rientra per questo nell’ordine universo delle cose?». E quest’anima oscura fu certamente anche di Salvatore Satta, se pensiamo al suo pessimismo nei confronti degli uomini e della storia («L’umanità è il demonio che Dio non riesce a distruggere», ebbe modo di scrivere), unito però ad una religiosità che Remo Bodei ha definito «severa ed arcaica, spesso più vicina a quella dell’Antico Testamento che non a quella del Nuovo», e dominata dall’attesa del giudizio finale, perché «forse la vera e sola storia è il giorno del giudizio».

Il rapporto misterioso tra la vita e la morte è al centro di tutto il romanzo e spesso viene vissuto in maniera contraddittoria. È interessante notare come la vita assuma connotazioni diverse proprio in funzione della morte. Quando la signora del n. 12, dopo un pneumotorace, viene considerata prossima alla fine, il protagonista dapprima si dispera, poi non vuole più che ella non muoia, perché «la morte è pace, liberazione, infinito». Il  protagonista sente che la propria vita potrà avere senso e giustificazione grazie alla lontananza di lei, al suo riflesso sulla terra. L’imprevista sopravvivenza della donna, insieme all’incontro che ci sarà per la prima volta tra i due, rivelerà allora nelle parole pronunciate da lei l’assurdità dei sogni passati. Così, guarito ormai dalla tisi, il protagonista dovrà affrontare una nuova realtà dopo il congedo dal sanatorio: ad attenderlo, dopo due anni, la città di Milano, sulle cui case «s’è distesa una patina bigia, un misto di polvere, di fumo, di umido». I suoi nervi sembrano disabituati a reggere il contatto con il mondo e con gli uomini, tanto che si chiede se non ci sia più qualcosa nella vita che vibri davvero con la sua anima. Che ne sarà di lui, dopo l’incontro casuale con un amico?

Salvatore Satta non dà indicazioni, ma consegna al lettore lo strano e malinconico stupore del protagonista, che cammina solitario nella notte sotto la pioggia: «Sono solo, sono sveglio, sono vivo». E  un’automobile  che passa con furia lo inzacchera tutto di fango.

Mauro Germani

mercoledì 1 settembre 2021

Concetta D'Angeli - Le rovinose

 

Concetta D’Angeli, Le rovinose, Il ramo e la foglia, 2021

In quest’ultimo romanzo di Concetta D’Angeli – ambientato in Italia tra il 1976 ed il 1988, cioè nel periodo che comprende in parte i cosiddetti anni di piombo – la violenza della storia e quella segreta e privata appaiono l’una lo specchio dell’altra. Ed è in questa rifrazione, spesso enigmatica e dolorosa, che trovano espressione le vicende dei personaggi principali, sempre in bilico tra i loro sogni e la realtà, tra i loro desideri più o meno consapevoli ed i condizionamenti di un tempo instabile e contraddittorio, segnato da una profonda volontà di cambiamento per una società migliore e più giusta, ma anche da pericolose derive estremistiche e violente.

Al fondo del libro si può percepire un senso tragico che c’interroga, qualcosa che è più di un disagio collettivo, qualcosa che a poco a poco sconfina nella follia: una follia che forse è un po’ di tutti. Così le figure di Silvana, Clara e Lorenzo, pur diverse tra loro, appaiono legate alle contraddizioni del periodo storico a cui appartengono. La prima insegue tenacemente, come una forma di riscatto, un successo professionale che si rivelerà irto di difficoltà in una società dominata dal maschilismo. Clara, dotata di una bellezza prorompente – alla quale non sarà insensibile Silvana, che scoprirà così la propria omosessualità – è una creatura fragile e indifesa, che incarna illusione e dolore, ingenuità e disperazione, costantemente in fuga da se stessa e dilaniata da pulsioni autodistruttive. Lorenzo, invece, è tormentato dalla ricerca di una forma d’assoluto impossibile da raggiungere: prima sarà tentato dal rifiuto della propria classe sociale d’appartenenza, l’alta borghesia, e dalla lotta armata, poi indirizzerà il proprio delirio di onnipotenza nella costruzione dell’Opera, che prevede la totale dipendenza fisica e psicologica di Clara.

Anime inquiete di un’epoca inquieta, questi personaggi acquisiscono sempre più spessore con l’avanzare della lettura, fino a delinearsi nettamente come emblemi esistenziali di un periodo tanto travagliato e  complesso della nostra storia. Soprattutto il personaggio di Clara vive nella pagina così com’è, cioè s’impone a noi lettori senza alcun artificio o retorica, con l’evidenza del suo destino e della sua misteriosa rovina, recando in sé l’impronta incancellabile dei personaggi veri che non si possono dimenticare: si veda, ad esempio, la terza parte del romanzo, che riporta brani del diario di Clara, in un crescendo drammatico fra detto e non detto. Ma anche Silvana e Lorenzo non hanno nulla di falso o di costruito. Essi ci appaiono nella loro tragica verità, che si configura come una sconfitta generazionale. Silvana è segnata da ricordi ingombranti e da un’insoddisfazione senza rimedio, la quale è anch’essa rovinosa, in qualche modo speculare a quella di Clara. Concetta D’Angeli ce la consegna efficacemente in una doppia dimensione narrativa, che percorre ed innerva quasi tutto il romanzo, alternando il racconto dalla terza persona alla prima, cioè passando dalla narrazione esterna a quella del monologo interiore. Lorenzo, invece, nella sua drammaticità appare privo di scampo, come posseduto da forze incontrollabili, prigioniero di se stesso, dei suoi sentimenti confusi e delle sue insanabili contraddizioni: una figura indubbiamente di forte impatto, in cui la debolezza che nasconde si maschera spesso di una folle ferocia. Personaggi destinati ad una deriva che ha travolto parecchie persone alla ricerca di un senso che non hanno trovato, legittime aspirazioni deviate o troncate troppo spesso dalla violenza, in un’Italia gremita di gravissimi crimini politici e mafiosi, come testimonia l’accurata (ed agghiacciante) cronologia posta in appendice al volume.

Ciò che emerge a lettura ultimata del romanzo – che risulta sempre scorrevole e sorretto da un sapiente impianto narrativo, a tratti quasi cinematografico – è una domanda che sembra ineludibile: come riflettere oggi, a distanza di anni, sul senso di sconfitta incarnato dai personaggi ? E ancora: che cosa ci dicono le loro esistenze? Ciascun lettore potrà tentare di rispondere, ma è più probabile – com’è forse giusto – che le eventuali risposte non siano mai del tutto esaustive e che addirittura da esse nascano nuove inquietanti domande.

Mauro  Germani