22/01/2011
CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI
CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI
La follia dell’Occidente al tramonto: la trilogia finale di Luis Buñuel
Luis Buñuel (1900-1983) uno dei più grandi maestri del cinema del Novecento, ha lasciato una traccia profondissima nella cultura contemporanea. La sua eredità è ancora viva, anche perché la carica innovativa e trasgressiva del suo cinema è tuttora forte e incisiva. Dopo gli scoppiettanti inizi, all’insegna del Surrealismo e del motto èpater le bourgeois, e una filmografia ricca di capolavori, ha suggellato la sua opera con una splendida “trilogia finale”: Il fascino discreto della borghesia, (Le charme discret de la bourgeosie, 1972), Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté, 1974), Quell’oscuro oggetto del desiderio (Cet obscur objet du désir,1977).
Nel film del 1972, il cineasta iberico, oltre a far emergere “la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno [...] figlia e massima rappresentante della pulsione di morte” (Freud), smaschera il processo di civilizzazione esclusivamente formale incarnato dalla borghesia occidentale e dalle istituzioni che storicamente e socialmente la esprimono e la rappresentano: la Chiesa, l’Esercito e la Polizia: dietro la patina della buona educazione emergono le tendenze aggressive e le ansie autodistruttive, l’immoralità e la malafede dei potenti.
La sequenza ricorrente in cui i sei personaggi principali (tra cui spiccano gli interpreti Fernando Rey e Stephane Audran) camminano lungo una strada deserta in aperta campagna, con un’apprensione crescente, ma senza scopi né mète evidenti, esprime il senso profondo dell’opera che mette in scena, con un crescendo esilarante e irresistibile, ma nel contempo inquietante, i lapsus, gli equivoci e gli atti mancati della borghesia occidentale. In un’opera in cui, dietro la maschera alquanto ipocrita del garbo e della discrezione dei rituali della buona educazione, si svelano le pulsioni di morte e si materializzano i fantasmi dello scacco e del fallimento, la sequenza condensa un processo di significazione metaforica che sintetizza, in questa passeggiata nel nulla e verso il nulla, tutta la follia dell’Occidente al tramonto.
Nel secondo film della trilogia il continuo sovvertimento dei codici della narrazione classica e della cultura borghese è attuato mediante un sistematico rovesciamento dei valori e dei significati, un progressivo smascheramento delle credenze, dei pregiudizi, dei miti e dei simboli ipocriti delle istituzioni e dei gruppi sociali. Rispetto al film precedente, il procedimento ironico è spinto fino al rovesciamento completo dei comportamenti e dei valori: il pranzare e cenare che là costituiva paradossalmente un irrealizzabile rito di società e costringeva a saziare la fame in solitudine, qui è un atto sconveniente, da consumare in privato quasi di nascosto, mentre ci si ritrova a tavola seduti su dei water per defecare!!! E durante una carica della polizia che spara, i manifestanti gridano “Viva le catene” (“Abbasso la libertà” nella versione italiana): la libertà, uno dei massimi valori dell’Occidente, di cui tutti parlano, senza che mai se ne comprenda e se ne chiarisca la complessa molteplicità di significati, è forse un pallido fantasma (che, marxianamente, si aggira per l’Europa), un vessillo sventolato spesso da chi la intende come un privilegio, non come un processo di affrancamento dai condizionamenti di ogni genere, soprattutto culturali. E così la metafora finale dello struzzo non significa forse il non voler vedere, quanto piuttosto il non vedere ciò che si ha sotto gli occhi, la convenzionalità e l’assurdità delle convenzioni sociali borghesi.
L’ultimo film, che chiude la vicenda artistica del grande regista spagnolo, si pone come sintesi ideale dei motivi dei due film precedenti. Riprende innanzitutto il tema degli atti mancati, ricondotto, come già agli esordi, ai rituali del possesso sessuale (mentre ne Le charme riguardava prevalentemente quelli dell’alimentazione, metafora anch’essa della pulsione erotica primaria), nella costante tensione tra impotenza e misoginia, tra l’insaziabilità del desiderio e la sua perenne inappagabilità. Da un lato, l’angelica e, insieme, diabolica vergine Concéption/Conchita, amata e indefinitamente bramata dall’anziano e ricco borghese Mathieu Faber (Fernando Rey), gli si nega costantemente, rinviando sempre a “dopodomani”, e ad un sempre rinnovato “dopodomani”, l’amplesso agognato. Mathieu, d’altro canto, si arrende inesorabilmente di fronte alle difficoltà, ai dinieghi, alle promesse pur sempre disattese in una catena di incessanti dilazioni, di fughe di lei ed inseguimenti di lui, da Parigi a Madrid, a Siviglia e ancora Parigi, dove si chiude il cerchio, attraversato da una doppia linea narrativa: l’una, quella dell’ultimo viaggio in treno da Siviglia a Parigi (in cui infine è lei ad inseguire lui), prevalentemente impegnata sul versante del discorso (il racconto di Mathieu ai suoi compagni di scompartimento del treno); l’altra, sul versante della storia, contiene il flashback in cui è rievocata la contrastata storia di un amore folle e impossibile, che sancisce il fallimento dello scambio “borghese” ricchezza-potere/sesso-amore.
Con un’ultima geniale e surreale invenzione, il grande Luis sviluppa il motivo del fallimento borghese alla luce del tema del doppio, proiettato sulla figura femminile di Concéption/Conchita, interpretata da due attrici diverse, che incarnando le due anime della femminilità, ne rappresentano la misteriosa complessità e la sconcertante indecifrabilità, dal punto di vista dell’innamorato che racconta tutta la vicenda in prima persona. L’angelicata Carole Bouquet fa perdere la testa all’anziano borghese, amoreggia con lui ma non gli si concede, si presenta con lunghi mutandoni “di castità” annodati tanto fittamente da mettere a durissima prova la pazienza di Mathieu; poi, quando la storia si ripete, lei s’indigna alla proposta di lui di farlo “felice” in altro modo. La sensuale Angela Molina gli si promette ripetutamente in cambio di concreti vantaggi economici (la casa che lui le acquisterà e intesterà), ma lo umilia costantemente, o facendosi sorprendere a ballare nuda in un locale per turisti giapponesi, o addirittura concedendosi al ragazzo che ha continuato a frequentare e a portarsi in casa (dopo, per farsi perdonare, dirà di aver fatto soltanto finta).
Sullo sfondo della vicenda il terrorismo di matrice cattolica integralista (altro colpo di genio che porta alla luce l’inestricabile nesso tra fanatismo e dogmatismo) e atti di criminalità di vario genere minacciano costantemente la sicurezza e la vita stessa di una borghesia in preda ad un’incontrollabile pulsione autodistruttiva. Il film, e con esso tutta l’opera di Buñuel, non a caso, si chiude su una deflagrazione che incendia l’intero schermo, metafora esplicita del nichilismo occidentale.
Nel film del 1972, il cineasta iberico, oltre a far emergere “la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno [...] figlia e massima rappresentante della pulsione di morte” (Freud), smaschera il processo di civilizzazione esclusivamente formale incarnato dalla borghesia occidentale e dalle istituzioni che storicamente e socialmente la esprimono e la rappresentano: la Chiesa, l’Esercito e la Polizia: dietro la patina della buona educazione emergono le tendenze aggressive e le ansie autodistruttive, l’immoralità e la malafede dei potenti.
La sequenza ricorrente in cui i sei personaggi principali (tra cui spiccano gli interpreti Fernando Rey e Stephane Audran) camminano lungo una strada deserta in aperta campagna, con un’apprensione crescente, ma senza scopi né mète evidenti, esprime il senso profondo dell’opera che mette in scena, con un crescendo esilarante e irresistibile, ma nel contempo inquietante, i lapsus, gli equivoci e gli atti mancati della borghesia occidentale. In un’opera in cui, dietro la maschera alquanto ipocrita del garbo e della discrezione dei rituali della buona educazione, si svelano le pulsioni di morte e si materializzano i fantasmi dello scacco e del fallimento, la sequenza condensa un processo di significazione metaforica che sintetizza, in questa passeggiata nel nulla e verso il nulla, tutta la follia dell’Occidente al tramonto.
Nel secondo film della trilogia il continuo sovvertimento dei codici della narrazione classica e della cultura borghese è attuato mediante un sistematico rovesciamento dei valori e dei significati, un progressivo smascheramento delle credenze, dei pregiudizi, dei miti e dei simboli ipocriti delle istituzioni e dei gruppi sociali. Rispetto al film precedente, il procedimento ironico è spinto fino al rovesciamento completo dei comportamenti e dei valori: il pranzare e cenare che là costituiva paradossalmente un irrealizzabile rito di società e costringeva a saziare la fame in solitudine, qui è un atto sconveniente, da consumare in privato quasi di nascosto, mentre ci si ritrova a tavola seduti su dei water per defecare!!! E durante una carica della polizia che spara, i manifestanti gridano “Viva le catene” (“Abbasso la libertà” nella versione italiana): la libertà, uno dei massimi valori dell’Occidente, di cui tutti parlano, senza che mai se ne comprenda e se ne chiarisca la complessa molteplicità di significati, è forse un pallido fantasma (che, marxianamente, si aggira per l’Europa), un vessillo sventolato spesso da chi la intende come un privilegio, non come un processo di affrancamento dai condizionamenti di ogni genere, soprattutto culturali. E così la metafora finale dello struzzo non significa forse il non voler vedere, quanto piuttosto il non vedere ciò che si ha sotto gli occhi, la convenzionalità e l’assurdità delle convenzioni sociali borghesi.
L’ultimo film, che chiude la vicenda artistica del grande regista spagnolo, si pone come sintesi ideale dei motivi dei due film precedenti. Riprende innanzitutto il tema degli atti mancati, ricondotto, come già agli esordi, ai rituali del possesso sessuale (mentre ne Le charme riguardava prevalentemente quelli dell’alimentazione, metafora anch’essa della pulsione erotica primaria), nella costante tensione tra impotenza e misoginia, tra l’insaziabilità del desiderio e la sua perenne inappagabilità. Da un lato, l’angelica e, insieme, diabolica vergine Concéption/Conchita, amata e indefinitamente bramata dall’anziano e ricco borghese Mathieu Faber (Fernando Rey), gli si nega costantemente, rinviando sempre a “dopodomani”, e ad un sempre rinnovato “dopodomani”, l’amplesso agognato. Mathieu, d’altro canto, si arrende inesorabilmente di fronte alle difficoltà, ai dinieghi, alle promesse pur sempre disattese in una catena di incessanti dilazioni, di fughe di lei ed inseguimenti di lui, da Parigi a Madrid, a Siviglia e ancora Parigi, dove si chiude il cerchio, attraversato da una doppia linea narrativa: l’una, quella dell’ultimo viaggio in treno da Siviglia a Parigi (in cui infine è lei ad inseguire lui), prevalentemente impegnata sul versante del discorso (il racconto di Mathieu ai suoi compagni di scompartimento del treno); l’altra, sul versante della storia, contiene il flashback in cui è rievocata la contrastata storia di un amore folle e impossibile, che sancisce il fallimento dello scambio “borghese” ricchezza-potere/sesso-amore.
Con un’ultima geniale e surreale invenzione, il grande Luis sviluppa il motivo del fallimento borghese alla luce del tema del doppio, proiettato sulla figura femminile di Concéption/Conchita, interpretata da due attrici diverse, che incarnando le due anime della femminilità, ne rappresentano la misteriosa complessità e la sconcertante indecifrabilità, dal punto di vista dell’innamorato che racconta tutta la vicenda in prima persona. L’angelicata Carole Bouquet fa perdere la testa all’anziano borghese, amoreggia con lui ma non gli si concede, si presenta con lunghi mutandoni “di castità” annodati tanto fittamente da mettere a durissima prova la pazienza di Mathieu; poi, quando la storia si ripete, lei s’indigna alla proposta di lui di farlo “felice” in altro modo. La sensuale Angela Molina gli si promette ripetutamente in cambio di concreti vantaggi economici (la casa che lui le acquisterà e intesterà), ma lo umilia costantemente, o facendosi sorprendere a ballare nuda in un locale per turisti giapponesi, o addirittura concedendosi al ragazzo che ha continuato a frequentare e a portarsi in casa (dopo, per farsi perdonare, dirà di aver fatto soltanto finta).
Sullo sfondo della vicenda il terrorismo di matrice cattolica integralista (altro colpo di genio che porta alla luce l’inestricabile nesso tra fanatismo e dogmatismo) e atti di criminalità di vario genere minacciano costantemente la sicurezza e la vita stessa di una borghesia in preda ad un’incontrollabile pulsione autodistruttiva. Il film, e con esso tutta l’opera di Buñuel, non a caso, si chiude su una deflagrazione che incendia l’intero schermo, metafora esplicita del nichilismo occidentale.
Angelo Conforti