Georg Heym, Il ladro. Novelle, Giometti &
Antonello, 2020
Vi sono libri che disorientano, che
cancellano ogni strada e ogni punto di riferimento, che fanno buio. È il caso di questa raccolta di sette novelle di Georg
Heym (1887-1912), poeta e scrittore espressionista, la cui opera è
caratterizzata dalla relazione
perturbata e perturbante tra l’Io e il mondo, vale a dire tra una soggettività
lacerata ed emarginata e la realtà, tra le pulsioni segrete e ingovernabili
dell’uomo e l’ordine culturale e sociale in cui si trova inserito. È proprio all’interno di questo
contrasto, in cui l’individuo può sentirsi, di volta in volta, escluso e alienato, oppure esaltato profanatore del mondo, che si configurano le storie
di Heym, tutte animate da una specie di nera dissoluzione, vissuta come una
ribellione distruttiva, oppure un destino ineluttabile e funesto. E la
scrittura colpisce per le sue veemenze improvvise, contraddistinte soprattutto
dal pullulare di numerose similitudini (anche quattro o cinque all’interno di
una pagina, o addirittura concentrate in poche righe), che scaturiscono dal
testo come inflorescenze venefiche, oppure si palesano come vere e proprie
scosse telluriche, che minano l’andamento classico della narrazione. Ciò che
accade sulla pagina è, in fondo, ciò che l’Io affronta o subisce, in una sorta
di disperato e perdente vitalismo,
nella ricerca di un superamento delle angustie del reale, delle sue regole, del
suo ordine ostile e incomprensibile, che annienta ed esclude. La risposta violenta e folle di alcuni
personaggi di Heym nasce da questo disagio, dalla lotta estrema (e tragicamente vana) nei confronti di un’intollerabile condizione esistenziale e di un mondo
estraneo, che non si riconosce più, oppure di un’oppressione sociale (si veda
la novella Il cinque ottobre). Le
descrizioni allucinate degli ambienti e delle situazioni derivano da questo
sguardo feroce ed emarginato, da questa profonda solitudine che non trova
consolazione e sfocia sovente nella follia, nello sdoppiamento dell’Io, in una
sorta di mistica rovesciata, che cerca l’assoluto in atti estremi e aggressivi, come accade nelle novelle Il
pazzo e Il ladro. Nella prima la
vicenda del protagonista si svolge all’insegna di una violenza liberatoria,
come una riappropriazione degli istinti elementari a lungo soffocati, e si
conclude in una sorta di estasi infernale («E mentre il sangue zampillava dalla
ferita, gli parve di scendere finalmente sul fondo, sempre più giù, silenzioso
come una piuma. Dal basso saliva una musica eterna e il suo cuore morente si
aprì tremando in una beatitudine immensa»). Nella seconda novella, invece, – la
più ampia della raccolta – il personaggio principale è dominato da
un’ossessione religiosa, che nasce dalla convinzione dell’inutilità dell’opera
di Cristo e dalla volontà di intraprendere una specifica e delirante missione
contro ciò che viene ritenuto il male originario. La narrazione, tra le angosce
e i conflitti del protagonista, approda a un finale apocalittico, in cui nel
divampare del fuoco trionfa la «terrificante risata della morte». Questo particolare processo di
distruzione (e di autodistruzione) è presente anche nelle altre novelle. La dissezione (che rimanda un po’ al
primo Benn, quello di Morgue) è una
breve e agghiacciante descrizione del lavoro di alcuni medici su di un
cadavere, alternata alle espressioni vitali – di amore e di sogno – rimaste
misteriosamente attaccate alla carne del morto. Così come la morte è ancora protagonista nei racconti Gionata e La nave: nel primo si narra della solitudine e della degenza
ospedaliera del protagonista, destinato alla fine e a «un’oscurità orrenda»,
mentre nel secondo – in un’atmosfera che ricorda Edgar Allan Poe – leggiamo la
cronaca del viaggio di un piccolo battello, con sette uomini a bordo, che non
potrà sfuggire a una implacabile maledizione di malattia e di rovina. Il cupo smarrimento di queste novelle
di Georg Heym è senz’altro da collegare a quella perdita di senso che non è
solo emarginazione dell’Io, nel suo tormentato dissidio tra sconfitta e volontà di potenza, ma anche e soprattutto perdita di Dio, intesa
come suo allontanamento o scomparsa. Come a volte accade, tuttavia, proprio
nell’esasperazione del nulla, della morte e della fine, è possibile percepire
un’inconscia nostalgia religiosa, un
desiderio nascosto di un bene che pare irraggiungibile.
Mauro Germani