sabato 30 dicembre 2023

Domenico Notari - I borghi invisibili

 


Domenico Notari, I borghi invisibili, Officine Pindariche, 2023

Originalità e invidiabile freschezza narrativa contraddistinguono quest’ultimo libro di Domenico Notari: quattro leggende inventate dall’autore e poi drammatizzate nei paesi campani in cui sono ambientate: Palomonte, Serre, Roscigno Vecchia e San Cipriano Picentino. Località poco conosciute in provincia di Salerno (e una di queste, Roscigno Vecchia, ormai abbandonata) che, grazie a questi racconti, diventano protagoniste di sorprendenti e particolari vicende gotiche. Infatti, come afferma Giulio Leoni nella prefazione, quello di Notari  è «un gotico italiano, contaminato con alcune caratteristiche dei nostri popoli», cioè legato alla cultura e alla storia del nostro Paese. 

Ed è proprio per questo che non si può non appassionarsi alle storie dei vari protagonisti. A cominciare da quella di ‘O signurino, esperto nell’arte dell’orologeria e «vero genio della meccanica», artefice di un automa che, con uno sberleffo, dà vita a una rivolta popolare. Segue poi il racconto tenero e misterioso dell’eroica e fedele cagnolona Diana, «un vecchio molosso dal manto fulvo», del re Ferdinando IV di Borbone. La terza leggenda vede invece protagonista il cavalier Mazzeo, «un giovane alto, bruno, la corporatura robusta, il giustacuore sgualcito e impolverato», che viene attratto da un ammaliante canto femminile proveniente dalle acque di un lago profondissimo e senza nome. Conclude la raccolta la vicenda del “fanciullin cortese” che, proveniente da un passato lontano, assiste e protegge, in nome della poesia e della cultura, nonché di un’umana fratellanza, un giovane destinato  a diventare poi un illustre filosofo.  

Domenico Notari ci restituisce l’antica  memoria di questi borghi invisibili in modo vivace e accattivante, mediante un gioco sapientemente orchestrato tra storia e immaginazione, dove la fantasia diviene reale e il reale svela il suo lato nascosto e magico. Le descrizioni degli ambienti e dei personaggi creano atmosfere al tempo stesso concrete e misteriose, che ben preparano nel racconto il susseguirsi di sorprese e di colpi di scena. Ciò che risulta ammirevole è la capacità dell’autore di rendere naturale la narrazione, ossia senza alcuna forzatura, in modo che il fantastico e l’imprevedibile, il misterioso e il gotico, siano tutt’uno con gli eventi reali e storici, rappresentando così la loro verità segreta. E non è forse questa la peculiarità di ogni leggenda? Non è forse questo il fascino antico delle nostre storie popolari, dei nostri borghi in via di estinzione, eppure così ricchi di tradizioni e di misteri che chiedono di essere riscoperti, prima che sia troppo tardi? 

Grazie, dunque, a Domenico Notari che con creatività e intelligenza ci consegna queste «quattro leggende per quattro tradizioni ormai mute», come recita il sottotitolo, impreziosite, tra l’altro, dalle belle illustrazioni di Enzo Lauria. Queste ultime riproducono, infatti, i momenti salienti dei vari racconti, componendo così – come in un libro nel libro – un suggestivo graphic novel. Per tutti i motivi suddetti, I borghi invisibili è una pubblicazione che non solo ci regala, in questi tempi bui e confusi, il piacere della lettura, ma può anche essere definita “da collezione”, cioè da collocare in un posto speciale della nostra biblioteca.

Mauro Germani

mercoledì 27 dicembre 2023

Igino Ugo Tarchetti: totalità infranta e dualismo (su "Racconti fantastici" e "Fosca")




C’è sempre qualcosa di incompiuto, di non detto, di segreto nei Racconti fantastici di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), pubblicati postumi nel 1869. Anche quando le vicende narrate sono inserite in una cornice cronachistica, non perdono mai quell’insondabilità e quel mistero che le accompagna. 

Esponente non secondario della cosiddetta Scapigliatura, Tarchetti esprime con la sue opere più significative –  i Racconti fantastici, appunto,  e il romanzo Fosca (1869) – la ricerca inquieta e impossibile di una realtà totale dell’uomo, il quale appare sovente scisso, tormentato da un dualismo senza scampo. Ed è proprio in questa totalità infranta, smarrita, irrecuperabile che risiede il contrasto tra il reale e l’ideale e che genera i fantasmi e le invenzioni  di Tarchetti.  Nel perenne dissidio tra luce e ombra, tra ragione e follia, tra vita e morte, si può riconoscere lo scrittore stesso, nel tentativo sempre vano di «trovare il centro della propria anima», come si legge nelle prime pagine di Fosca.  

L’uso  prevalente della prima persona verbale  è infatti la prova, da parte di Tarchetti, della necessità di non prescindere dalla propria esperienza e dalle proprie ossessioni; gli io protagonisti  si possono così legittimamente interpretare come trasfigurazioni, più o meno fantastiche, di angosce e di aspirazioni irrisolte dentro trame sfuggenti e feroci al tempo stesso. Ciò che accade ai personaggi è in qualche modo già accaduto all’autore, il quale – uscendo da sé medesimo – narra il suo doppio oscuro, tenta costantemente il limite tra apparenza e realtà, invertendo spesso i due termini e anticipando così problematiche tipicamente novecentesche.  È interessante notare, poi,  come temi romantici e ideali si capovolgano talvolta nel loro contrario, ma senza una completa perdita di entrambi, perché le loro conseguenze non si dissolvono mai del tutto e sopravvivono nell’ambiguità di un vero che è sempre oltre, ossia aldilà della coscienza. 

Nei Racconti  fantastici risultano di particolare rilievo I fatali, La lettera U, Un osso di morto. Nel primo, due individui sono portatori di tremende sciagure, ma non si sa chi siano veramente e viene messa in dubbio la loro doppia identità. La lettera U è la straordinaria storia di un’ossessione senza scampo, che rivela in realtà quella per la scrittura: la lettera in questione assume caratteri demoniaci  e il protagonista ne ha un vero e proprio orrore, dovuto soprattutto a alla sua forma, a «quella linea che si curva e s’inforca – quelle due punte che vi guardano immobili – quelle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio…». Ecco che qui ritorna il tema del doppio, insieme a quello della mancanza e del vuoto. In Un osso di morto vi è invece il desiderio, da parte di uno spettro, di riappropriarsi  di una parte del proprio scheletro, così come nel racconto lungo Storia di una gamba l’ossessione per la perdita dell’arto inferiore s’intreccia in una storia in cui malinconia e amore, pietà e amicizia sfidano i loro stessi limiti e si aprono verso territori ignoti e pericolosi. 

Il pericolo, infatti, è sempre in agguato nelle storie di Tarchetti, nelle quali avvengono capovolgimenti continui e improvvisi, che la semplice ragione non riesce a controllare. È il caso del romanzo Fosca dove assistiamo a un singolare gioco di specchi sul tema dell’amore, tra momenti idilliaci, menzogne, e inquietanti passioni morbose. Le due donne della vicenda, la luminosa Clara e la tenebrosa Fosca, s’impadroniscono, a loro modo, della vita di Giorgio, il protagonista, ma entrambe sono segnate da un’impossibilità: Clara ha un marito; Fosca, invece, è di una «bruttezza orrenda» ed è gravemente malata. La passione folle che quest’ultima prova per Giorgio sarà fatale per entrambi: il malessere della donna (la sua non è solo una malattia fisica, in quanto ella è anche divisa in se stessa, e appare spesso duplice), e il senso di morte si accompagnano ad un amore vampiresco che non potrà che travolgere l’esistenza del protagonista, il quale scoprirà di essere comunque attratto dalla donna. Qui il dualismo di Tarchetti è ancora più accentuato e non trova pace; di questo Fosca è la testimonianza più autentica e drammatica.

Mauro Germani

martedì 7 novembre 2023

Vocazione letteraria


Da anni aveva in mente di scrivere un romanzo, ma era continuamente disturbato da un altro che – chissà perché – interferiva con il primo, boicottandolo. In più c’era la sua vita. 
Nonostante tutto, non si diede per vinto e iniziò a scrivere. Pagine su pagine, che gli parevano sempre più sconclusionate e incomprensibili. Che fare? Interrompere la scrittura non gli era possibile perché posseduto da una forza invincibile. Forse – pensava –  avrebbe dovuto cercare un colpo di scena, qualcosa di inaspettato in grado di riscattare  tutta quella mole di carta che col tempo aveva accumulato senza risultato. 
Provò e riprovò. Innumerevoli furono i tentativi di attribuire un senso a quanto aveva prodotto. Nessuna idea gli sembrò valida. Nulla di davvero geniale gli balenò in mente. Un giorno, esausto e avvilito, decise di porre fine alla sua assurda impresa, dando alle fiamme tutto quel lavoro di anni. E mentre il fuoco divorava ogni parola fino alla cenere, comprese improvvisamente (e con gioia) che proprio quello era il finale necessario alla sua opera. Il suo capolavoro assoluto.

domenica 29 ottobre 2023

CORSO DI LETTERATURA ITALIANA


UNIVERSITA' DELLA TERZA ETA' DI BRESSO

"LO SPIRITO INQUIETO DEL PRIMO NOVECENTO"

Sede del corso e Segreteria UTE: Via San Giacomo, 10/12 Bresso (MI) - Tel. 0297107775


lunedì 16 ottobre 2023

Piero Lotito - Lo zio Aronne somigliava a Jean Gabin

 

Piero Lotito, Lo zio Aronne somigliava a Jean Gabin, Edizioni Ares, 2022

Che cosa sono i ricordi se non un altro tempo che misteriosamente ritorna con quei volti, quelle voci, quei gesti, quelle emozioni e quei sentimenti che sono stati parte di noi? Che cosa sono, se non vita dentro la vita, luci e ombre dell’anima nostra e tracce di una storia passata eppure ancora in qualche modo presente? 

Leggendo Lo zio Aronne somigliava a Jean Gabin di Piero Lotito, incontriamo un mosaico di ricordi nitidissimi relativi all’Italia degli anni Cinquanta, quando l’autore era un bambino e viveva con la sua famiglia a Sant’Agata di Puglia. I 468 frammenti narrativi, che compongono il libro – ciascuno scandito da un «mi ricordo» – risultano straordinariamente vividi, grazie a una scrittura puntuale e insieme scorrevole, attraversata talvolta da nostalgia o da una sottile ironia. Lotito rievoca non solo il proprio passato, ma ci consegna anche la descrizione di un mondo rurale ormai perduto, «inconsapevole specchio di tutto un costume e una cultura», come si legge in quarta di copertina. I ricordi, infatti, si intrecciano di pagina in pagina, fino a comporre un quadro assai vivace e concreto, in cui le vicende personali dell’autore sono strettamente legate all’Italia del tempo, uscita da poco dal secondo conflitto mondiale, e costituiscono pertanto una preziosa testimonianza di una memoria privata e collettiva insieme. 

Molte sono le figure che emergono dai ricordi personali di Lotito: i genitori e i fratelli, il maestro della scuola elementare, i parenti, gli amici. Ecco allora le mani svelte della madre «nel rigirare la pala per dar vento al grano o alle fave, nel dar da mangiare agli animali, nel preparare il pranzo al ritorno dei campi, nel raccogliere le spighe perdute tra le stoppie, nel distinguere le olive e le mandorle buone dalle marce, nell’infornare il pane…»; o il modo di raccontare del padre, «la sua capacità di dare struttura alla storia e di creare attesa e profondità», tanto che i suoi racconti furono per l’autore «le prime lezioni di letteratura». Ecco il maestro Raffaele, con i baffi neri, alto, sempre con la cravatta, dall’aspetto severo, ma non avaro di sorrisi: si percepisce quanto sia stato importante per i suoi preziosi insegnamenti di vita (tra tutti: «Al mondo esiste una sola razza: la razza umana»; e ancora: «Il culto dei defunti è sacro, è un segno di civiltà dei popoli»). Ecco lo  zio Aronne del titolo, o la zia Gerardina, che «lasciava sempre qualcosa nel piatto perché diceva che è buona creanza». Ed ecco i compagni e gli amici con i quali l’autore condivideva giochi poveri ma creativi, spesso offerti dalla stessa natura e arricchiti da un pizzico d’ingegno. O le ingenue fantasie a cui abbandonarsi: «Mi ricordo che Mario voleva seminare monetine per far nascere alberi carichi di monete. Io meditavo invece di mettere sotto terra alcuni pesciolini fritti per ottenere alberi con tanti pesci fritti appesi ai rami». O ancora le avventure degli eroi dei fumetti, come ad esempio Tex Willer e il suo amico Kit Carson. Non mancano, poi, i racconti drammatici della guerra recente, narrati dai protagonisti, o le tracce del passato scoperti dall’autore stesso, come quando a dieci anni trova per caso nella terra arata di fresco un cippo sepolcrale con il nome inglese del caduto, «una tomba in piena campagna», e poco tempo dopo non resta più niente, a causa della prima meccanizzazione, perché «alberi e viottoli, muri a secco, oggetti e manufatti che un tempo erano rispettati dall’azione leggera della trazione animale, avevano cominciato a soccombere e a sparire».  

C’è ovunque il mondo della campagna con i suoi tempi e i suoi riti, gli animali (in particolare i cavalli), le feste popolari e religiose, vissuto da Lotito prima dell’avvento degli anni Sessanta e dei cambiamenti che segneranno il nostro Paese. Il tutto restituito con grande efficacia a noi lettori, pur nella consapevolezza che c’è sempre qualcosa che va oltre la parola e che risulta indicibile e importante, qualcosa di preciso e indefinito «come il sogno stesso».

Mauro Germani

lunedì 2 ottobre 2023

I libri


Oggi ci sono libri che esistono e libri che non esistono. Salvo rare eccezioni, i primi sono destinati all’oblio. Nonostante le continue promozioni dei loro autori, le presentazioni, le letture pubbliche, i premi e i riconoscimenti ottenuti, nulla o poco più resterà di queste opere che mai come ora escono a frotte, una dopo l’altra, in una sorta di frenesia inarrestabile e stordente. Titoli, copertine, nomi degli autori sono quasi indistinguibili, si sovrappongono e si confondono in un caleidoscopio che tutto travolge e annienta. Dei nostri libri restano tombe di carta sparse qua e là: sono nei depositi, nelle vetrine online, in un angolo di qualche libreria, nelle case degli amici che hanno avuto la bontà di acquistarli o a cui li abbiamo regalati. 
C’è però un’altra categoria di libri: quella delle opere mai scritte e mai pubblicate, quella che segretamente attendiamo da sempre e che sogniamo a nostra insaputa. I veri capolavori sono qui. Qui c’è la biblioteca dei libri inesistenti, le poesie, i romanzi, i racconti che quasi mai riusciamo a scrivere. Solo qualche volta, d’improvviso, il miracolo accade. Ma tutto avviene nel silenzio, in segreto. Nessuna pubblicità, nessuna presentazione, nessun premio ricevuto. E dell’autore nemmeno si conosce il nome. Eppure ecco che qualcosa misteriosamente succede. I pochi fortunati lettori che casualmente verranno in possesso di quest’opera (trovata, chissà come, in qualche nascosto scaffale di una libreria o di una biblioteca) ne saranno talmente colpiti che essa li accompagnerà ovunque. E improvvisamente, in certi momenti speciali, quando nemmeno ci penseranno perché in tutt’altre faccende affaccendati, ne sentiranno, con un brivido, distintamente la voce.

Mauro Germani

lunedì 18 settembre 2023

Gabriela Fantato - Terra magra


 Gabriela Fantato, Terra magra, Il Convivio Editore, 2023

C’è un patto che custodiscono le poesie di quest’ultima raccolta di Gabriela Fantato: quello della voce (anzi, delle voci) e della memoria, della dedizione alla fragilità del nostro essere nel mondo e alla pietas nei confronti di ogni ferita e di ogni congedo. Con una scrittura limpida e mai ridondante, eppure ricca di risonanze, di palpiti interni, di folgorazioni del pensiero che fanno vibrare i testi nei loro preziosi corsivi come voci dentro la voce, Gabriela Fantato ci consegna un’opera che sa del nostro tempo «pieno di buchi», sospeso tra il mai e il sempre, e dove «la vita cerca / il confine e il centro». Ed è questa una ricerca ininterrotta, che si può cogliere di verso in verso, ora con affanno, ora con trepidazione, ora con la consapevolezza di un compito che non deve essere tradito. Se la terra è il nostro fondamento e appare magra o precipitata «sotto un cielo basso», è anche vero che invoca un’appartenenza, qualcosa di antico e sacro, un legame originario da tramandare per esserci davvero, qui, dove «tutto è partenza». 

Il tema della perdita («siamo creature – in perdita»), che ricorre in molti testi, non è soltanto quello del lutto, ma anche dell’infanzia, del tempo lontano che non è più ma che ha lasciato la sua traccia misteriosa dentro di noi: si veda la poesia intitolata Seconda elementare, in cui «ancora qualcuno cerca / il nome, il suo nome», cioè la propria enigmatica identità, oppure un’antica preghiera magari dimenticata «senza neppure dire – addio», ma alla fine, come qualcosa di indelebile e magico, «resta il ricordo  di quel / disegno intero, / un cerchio fatto con il gesso, in seconda elementare». Come a dire che la perdita non si esaurisce mai in sé stessa, perché «la memoria sale svelta, sale lassù / sino al soffitto. / Sale, corre veloce e inventa / un altro suono alle parole», come si afferma nella sezione Del sempre e del mai, dedicata al padre scomparso, nella quale troviamo altri bellissimi versi:« È questa l’onda, questo / – il respiro / che lega tutta una generazione, questa la nostra storia semplice, / scritta dentro le ossa», o ancora: «Eri la mia terra, / un ordine esatto dentro la natura». Qui la figura del padre è tutt’uno con il respiro della terra, «tra Goro e le tre foci del Po / dove il mare è farsi anguilla»», nella semplicità segnata «dalla devozione alla fatica» e dove restano le cose a lui appartenute: la matita, gli occhiali rigati, il sorriso fragile. È questo il legame con l’origine, la terra di un sempre che è stato nostro, «la casa dove / tornare ogni sera / e l’ultima che verrà». 

C’è dunque, per Gabriela Fantato, una continuità da ricercare costantemente, pur nella solitudine e nei tanti congedi dell’esistenza, che sovente diventano ritorni, o rivelano improvvisamente i legami segreti del tempo e del sangue, come tagli in un calendario segnato dall’assenza e dall’addio, «una legge muta che unisce i figli e ci fa / – padri e madri / nel nostro gran passare». Ne sono testimonianza le poesie dedicate ai figli, tra cui Nascita II, nella quale, grazie alla «meticolosa cura alla vita» viene affermata la possibilità d’imparare i nomi da dare alle cose. 

Nell’ultima sezione della raccolta, intitolata Qualunque cosa succeda, il senso di appartenenza più volte evocato e sentito come dedizione e compito, viene assediato dalla solitudine e dal tragico periodo del lockdown, dove tutto diventa «un perimetro minuscolo», «le strade adesso sono / una crepa tra oggi e la memoria» e «non si trova / la ferita aperta nella bocca, / il silenzio è intimato», mentre si aspetta «una carezza che ci salva». Emblematico il testo finale, dal quale emerge la forza della speranza e del sogno, capace di trasformare la vita in un volo che sconfigge la solitudine: «Vieni, sono qui, / nella fragilità dei giorni, / insieme saremo mille occhi, / un bosco dentro i passi / e i racconti / salvati dal crollo». È quell’esigenza di «un balzo», già evocato in precedenza, per affrontare la vita e dirla e sentirla in un altro modo, in una cantilena, in un linguaggio diverso, come una storia a cui credere ogni giorno, anche se siamo «frammenti  che solo i santi / sanno vedere». 

Dobbiamo essere grati a Gabriela Fantato per questo suo libro: una raccolta destinata a restare, una prova alta e sobria al tempo stesso, una testimonianza poetica (ed etica) di cui sentivamo il bisogno.

Mauro Germani

venerdì 15 settembre 2023

Manuel de Teffé - C'era una volta a Roma


 Manuel de Teffé, C’era una volta a Roma, Readaction, 2023

Il romanzo di Manuel De Teffé, C’era una volta a Roma, ci riporta agli inizi degli anni Sessanta,  quando il cinema italiano, dopo l’uscita nel 1964 di Per un pugno di dollari, non sarà più lo stesso. Il film, realizzato con un budget piuttosto basso, è firmato da Bob Robertson, ma è in realtà Sergio Leone, mentre il protagonista è Clint Eastwood, attore americano pressoché sconosciuto. Molti interpreti sono italiani, però i loro nomi sono celati dietro pseudonimi americaneggianti, come nel caso del coprotagonista Gian Maria Volonté, che usa lo pseudonimo di John Wells. Persino la colonna sonora è attribuita a un certo Dan Savio, dietro il quale si nasconde il vero autore, cioè il maestro Ennio Morricone. Sorprendendo tutti, il film in Italia incassa, in un anno di programmazione, quasi due miliardi di lire. 

Comincia così la straordinaria avventura del western all’italiana, che vedrà la produzione di oltre cinquecento film, naturalmente non tutti di qualità, anche se parecchi di essi, in anni recenti, sono stati giustamente rivalutati e apprezzati grazie al contributo di  Quentin Tarantino. Certo è che dopo Per un pugno di dollari, la rivoluzione cinematografica di Sergio Leone diviene per molti registi e sceneggiatori romani un modello da seguire. Vengono adottate le modalità espressive più appariscenti del suo cinema: inquadrature ricche di dettagli, primissimi e  primi piani, personaggi che lottano per la loro sopravvivenza e agiscono perlopiù motivati dalla vendetta o dalla sete di denaro, violenza esasperata, dialoghi brevi, sarcastici, a volte – nei casi migliori – addirittura aforistici. Artigiani del cinema si danno da fare, cercano nuove soluzioni per sorprendere il pubblico, elaborano situazioni e personaggi originali, agli antipodi del western americano tradizionale. Nascono i protagonisti di un filone popolare irripetibile, dominato dai vari Ringo, Django, Sartana, Sabata, con i loro abiti “vissuti” o stravaganti (poncho, mantelli neri, spolverini): essi spesso appaiono avvolti da un’aura mitica e quasi mistica, oppure sono eroi che vivono una solitudine estrema, cupa, ossessionati dal proprio tragico passato. 

Manuel de Teffé, figlio di Antonio de Teffé, in arte Anthony Steffen, uno dei maggiori protagonisti del western all’italiana (ne interpretò ben ventisette), rievoca il periodo in cui suo padre, fino ad allora attore teatrale, decide di dedicarsi al cinema western emergente, grazie alle sollecitazioni della fidanzata che diverrà poi sua moglie, Antonella. Con una narrazione assai avvincente, che va aldilà della semplice biografia – la quale viene trasfigurata per comporre un vero e proprio romanzo –  de Teffé ci consegna un’opera al tempo stesso godibile e stratificata. Elementi reali e d’invenzione si fondono in modo sorprendente e caratterizzano con efficacia il periodo storico della vicenda e i personaggi coinvolti. 

Si possono rinvenire nel libro almeno quattro fattori o nuclei narrativi, che interagiscono tra loro e che concorrono alla struttura del libro.

Il primo, cioè quello centrale, è costituito dalle figure di Antonio de Teffé  e della moglie. La loro è una storia d’amore appassionata e contraddistinta da un mix di intelligenza, ironia e cultura. I loro dialoghi e le loro lettere hanno un che di scoppiettante come nelle migliori commedie brillanti. Sarà proprio Antonella a convincere Antonio a dedicarsi al cinema western e a inventare lo pseudonimo di Anthony Steffen. Pur nelle loro differenze caratteriali, essi formano una coppia in qualche modo irresistibile, di rara e raffinata complicità. 

C’è poi il secondo elemento, quello collettivo, cioè propriamente storico, in cui agiscono i personaggi: è l’ambiente degli anni Sessanta, con gli entusiasmi e le contraddizioni di quel periodo: da una parte le proteste contro la guerra in Vietnam, le paure della guerra fredda e delle minacce nucleari, dall’altra le speranze dei giovani hippy e l’eccitazione dei cineasti romani per le produzioni western e il sogno del successo. È un piano che fa da sfondo a tutta la vicenda, ma che non deve essere considerato secondario, anzi: esso determina il clima particolare che le pagine del libro trasmettono al lettore.

Vi sono inoltre i personaggi che ruotano attorno ai due protagonisti: un guru di recitazione russa, che si basa sul metodo Stanislavskij, un regista ebreo di documentari, affetto da narcolessia, e un anziano imprenditore di grissini che vuole realizzare un film tratto dal suo manoscritto segreto: Niente dollari per Django. Sono personaggi ben calati nel loro ambiente e ben delineati: muovono la storia, con il loro linguaggio, le loro gag, il loro modo di essere, che si confronta con il mondo diverso e aristocratico del protagonista, il futuro Anthony Steffen del cinema western. 

Infine, a ben vedere, si può cogliere tra le pieghe del libro una dimensione più nascosta, misteriosa. Abbastanza frequenti sono, qua e là, i riferimenti a Dio, soprattutto nella relazione tra Antonio, che si dichiara non credente, e Antonella, che invece è assai devota. Non c’è, però, tra i due una contrapposizione schematica, e lo stesso ateismo di Antonio sembra talvolta cedere alla richiesta di un aiuto superiore, a una domanda spirituale. E leggendo attentamente il romanzo non si può non avvertire una sorta di soffio magico, che permea l'intera storia narrata. Ciò non riguarda solo l’avventura cinematografica del western all’italiana, con quanto di ingegno e di creatività ha saputo concentrare  tra gli anni Sessanta e Settanta (condizionando, tra l’altro, la stessa cinematografia western americana, che si è trovata inaspettatamente debitrice dei nostri film), ma anche i personaggi principali del romanzo: eroi, in qualche modo, predestinati, colti dall’autore agli inizi della loro eccezionale impresa. Un’avventura davvero senza precedenti, in cui Anthony Steffen sarà uno dei volti più popolari del nostro cinema western. Questo romanzo è indubbiamente anche un’occasione per ricordarlo e riscoprirlo come merita. 

Mauro Germani

giovedì 31 agosto 2023

Antonio Fiori - Vita di un altro


 Antonio Fiori, Vita di un altro, Inschibboleth, 2023

C’è sempre la vita di un altro nella nostra vita. Un altro che è la nostra ombra, il nostro doppio sconosciuto. O addirittura siamo noi, che viviamo dentro uno specchio, non essendo che immagini riflesse?

Chi ha letto I poeti del sogno (Inschibboleth, 2020) di Antonio Fiori troverà in questa sua nuova pubblicazione interrogativi o sollecitazioni ulteriori, giacché Vita di un altro, in cui s’intersecano prosa e poesia, appare un’opera ancor più stratificata e sfaccettata rispetto al libro precedente. Con una perizia linguistica che incanta per leggerezza e profondità insieme, ci viene incontro una scrittura  sorprendente nel suo abisso segreto, sapientemente sospesa tra finzione e candore, tra sottile ironia e mistero. Vengono alla mente, durante la lettura, grandi autori come Rimbaud («io è un altro»), Pirandello, con l’ambigua dialettica e scambio di ruoli tra persona e personaggio, e Borges, in cui il sogno della scrittura si specchia nella scrittura del sogno. Tuttavia Fiori va aldilà delle mere esibizioni letterarie, sceglie una distanza, se non addirittura un’assenza, in cui esercitare la propria sotterranea malia, come uno spettatore dei propri atti misteriosi, oppure un lettore che si stupisce di quanto egli stesso è chiamato a scrivere. 

La prima sezione del volume, Quaderno del sogno, riporta nuove poesie oniriche, che – come nel libro precedente – sono nate tutte dall’irrompere in sogno di una lingua sconosciuta: testi in cui appaiono malinconica meraviglia, coscienza del tempo, senso del peccato, pena di vivere, e desiderio d’amore, contraddistinti da un’ammirevole limpidezza di stile e da un’urgenza calibrata. 

Assai singolare risulta, poi, la seconda sezione intitolata Ritratti, nella quale sono presenti poesie attribuite a poeti viventi: un omaggio affettuoso e di stima di Fiori, in cui egli stesso si fa specchio dei versi altrui, con un’operazione che potrebbe definirsi medianica, ma certo non passiva. 

La parte centrale e più corposa è quella che dà il titolo al volume. Essa è formata da prose brevi e nitidissime che narrano, per contrasto, paradossi, imprevisti, folgorazioni improvvise, colpi di scena, enigmi e reticenze dentro le pieghe del quotidiano, nell’esistenza di un altro. E l’ambiguità, ancora una volta, fa da padrona, s’innerva in un particolare, oppure in situazioni che paiono marginali o trascurabili. Si ha sempre la sensazione di un gioco di specchi, di qualcosa che sfugge pur essendo di grande importanza, cosicché  i brani (godibilissimi, nell'attenzione che riservano al sottinteso o alle stranezze dell'esistenza)  possono essere letti sia come descrizioni di accadimenti e di pensieri altrui, sia come confessioni traslate: chi narra, infatti, non può che condividere una complicità sognata con il potenziale lettore. Si veda, a tal proposito, l’Epilogo che chiude il libro in modo inaspettato. 

Con Vita di un altro Antonio Fiori ci consegna un’opera multipla, in cui s’avverte una sorta di scrittura dell’infinito, un desiderio di andare oltre gli spazi consueti della letteratura, e soprattutto delle apparenze tra reale e immaginario. Perché il sogno e l’esistenza – che ad esso è strettamente unita – hanno sempre altre parole. E sono proprio queste ultime, nel loro mistero, che la poesia insegue.

Mauro Germani

venerdì 25 agosto 2023

Louis-Ferdinand Céline - Guerra


 Louis-Ferdinand Céline, Guerra, Adelphi 2023

Non c’è come la guerra, nella sua atroce follia, a dire dell’esistenza offesa e priva di tutto, del suo continuo delirio nel fondo della notte. Céline lo ha sempre saputo e lo ha scritto, come conferma questo testo, abbandonato dallo scrittore al momento della Liberazione nel suo appartamento di rue Girardon a Montmartre e recentemente recuperato insieme ad altri inediti. Egli, infatti, con la sua prosa terremotata e sarcastica, con il suo tono volutamente basso, testimonia la condanna che vivono i suoi personaggi, a cominciare da Ferdinand, qui ventenne, ferito a un braccio e con una grave lesione all’orecchio a causa di un’esplosione («Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa»). 

Come in Viaggio al termine della notte, tutto è fisico, anche ciò che non si direbbe. E questa fisicità insistita, che assume spesso toni grotteschi, raccapriccianti e visionari, rivela quella particolare attenzione che contraddistingue Céline: è la vita dal punto di vista della morte, vale a dire una forza che si dibatte in prossimità della fine e che spesso sorprende gli stessi personaggi. Si potrebbe definire una solitudine che è moltitudine, qualcosa che accomuna tutti, che s’attacca alla carne e non la lascia più. Anche la sessualità (presente in questo testo più che in altri, come un’ossessione) non fa che dibattersi tra la vita e la morte, ma è soprattutto quest’ultima a prevalere: è un piacere momentaneo, da disperati, perché segnato dalla fine incombente, e caratterizzato da aspetti ridicoli o mostruosi, a seconda dei casi, come fosse una malattia dentro la malattia della guerra (e leggendo ancora una volta Céline viene da pensare come la «sua» malattia sia lontana da quella intellettuale di Svevo o di Sartre, e come la «sua» carne viva, trovi in fondo maggiori consonanze con quella di Tozzi o di Testori…). 

Bisogna aggiungere che, rispetto a Viaggio al termine della notte, questo testo appare più grezzo e soprattutto più crudo. Non troviamo qui quella tenerezza improvvisa che sgorga dal celebre romanzo, quella nostalgia d’altro che s’impossessa inaspettatamente (ma sempre fisicamente) di Ferdinand e di altri personaggi. Qui il protagonista appare meno sfaccettato; Angèle, la moglie- prostituta di Bébert non è certo Molly, e lo stesso Bébert non è Robinson, anche se – come afferma nella nota il traduttore Ottavio Fatica – «ci troviamo davanti a un torso sgomentante per terribilità, a volte quasi inguardabile per violenza, per crudezza, che anche dietro al rictus più osceno serba un’ombra velata di pietà». Inoltre la scrittura, pur essendo indubbiamente riconoscibile e celiniana, non è così sincopata, sospesa, cadenzata, come in altre opere (Morte a credito, per esempio). 

Inequivocabile è, invece, la presenza costante della morte, a cui tutti i personaggi – consapevoli o no – corrono incontro, anche coloro che credono di scappare altrove. È un perdersi da qualche parte («Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto»), è vivere come si può, è essere artisti con quello che si ha a disposizione. Perché per Céline la vita è davvero enorme, ma si agita sempre nella morte.

Mauro Germani

giovedì 29 giugno 2023

giovedì 15 giugno 2023

La mia Chiesa - Pensieri sparsi

 


La mia Chiesa è qui e altrove, ha porte sempre spalancate, è penombra e luce. 

La mia Chiesa contiene il mondo, ma non è di questo mondo.

La mia Chiesa è voce sussurrata e voce che s’innalza, preghiera e canto.

La mia Chiesa è il grido della terra, ma anche silenzio, cuore in ascolto, meraviglia che non ha parole.

La mia Chiesa è la gioia degli infelici, il pianto redento degli sconfitti, il tremore sacro degli ultimi.

La mia Chiesa ha figli ovunque, conosce il nome di tutti e di ognuno la storia, i desideri, gli affanni. 

La mia Chiesa non esclude nessuno, sa quanto è facile sbagliare, perdersi nel buio, abbandonare e sentirsi abbandonati.

La mia Chiesa aspetta sempre i non credenti per guardarli negli occhi e mostrare, se vogliono, il  posto riservato a loro, perché Dio è per tutti.

La mia Chiesa abbraccia i peccatori ma combatte il peccato, non confonde i desideri con i diritti.

La mia Chiesa chiede il sacrificio, la libertà d’inginocchiarsi e di pregare.

La mia Chiesa è pellegrina, non è immobile, è ogni volta antica e nuova. 

La mia Chiesa non ha partiti, non è di destra, né di centro, né di sinistra.

La mia Chiesa è indifesa e forte, è sempre contro la guerra e si adopera per la pace in ogni occasione. 

La mia Chiesa non accetta compromessi, sta sempre con chi è ultimo, con chi non ha voce.

La mia Chiesa è la grande mensa dei poveri, il pane e il vino benedetti, la cena sempre apparecchiata.

La mia Chiesa è l'infanzia che dimentichiamo, lo stupore e l'innocenza che abbiamo perduto.

La mia Chiesa compie miracoli grandi e invisibili dentro i confessionali, nel balbettio di chi chiede perdono.

La mia Chiesa è una mano santa che benedice e che non teme di sporcarsi nel fango del mondo.

La mia Chiesa è con tutti i sofferenti, gli assetati di giustizia, gli esclusi, i migranti, i dimenticati.

La mia Chiesa sa donare una carezza agli ammalati, è una madre che soffre e che conforta col suo sorriso.

La mia Chiesa prega con ogni moribondo, lo accompagna dove è atteso da sempre.

La mia Chiesa è la promessa della resurrezione che verrà. 

giovedì 18 maggio 2023

Recensione di Enza Conti a "Tra tempo e tempo"

Sulla rivista "Il Convivio", n. 93, Aprile-Giugno 2023, p. 89, recensione di Enza Conti (che ringrazio) al mio libro Tra tempo e tempo (Readaction 2022)





 

venerdì 21 aprile 2023

Nota di Luisa Riva a "Il velo e i segni" (da "Tra tempo e tempo")


Sulla rivista "IL GALLO" di Genova, fondata nel 1946 da Nando Fabro, nel numero di aprile 2023, una nota di Luisa Riva (che ringrazio), in margine al testo Il velo e i segni, tratto dal mio libro Tra tempo e tempo (Readaction 2022)




giovedì 16 marzo 2023

Giovanni Testori - Conversazione con la morte

PER RICORDARE GIOVANNI TESTORI (12 maggio 1923- 16 marzo 1993)

Giovanni Testori, Conversazione con la morte, Rizzoli 1978

Conversazione con la morte di Giovanni Testori è il teatro che si spoglia, diventa una voce, un’anima incarnata. È una confessione pubblica, un ultimo atto, un dono estremo, una «scandalosa conversione», come la definì Giovanni Raboni. È la testimonianza di una fine e di un principio, perché qualcosa di grande è accaduto e qualcosa continua ad accadere, lì, in quella penombra, in quel «triste, umido, eppure così tenero sottoscala», dove prende vita il monologo del protagonista, un vecchio autore-attore quasi cieco e prossimo alla morte. 

Tutto avviene tra le rovine del teatro, perché c’è stato un crollo che ha travolto ogni scena, «l’orgoglio e la rapinosa felicità» di un tempo, il potere d’incantare il pubblico con gli artifizi di un’arte consumata. Il protagonista è ora solo; «il teatro, le sue assi, il sipario, / le quinte, le luci», tutto ciò che fu per lui, la sua fatica e la sua gloria, la sua perdizione e la sua vanità, «s’è ridotto a questi muri scrostati, / a questo gocciolare d’acqua dentro le tubature, / a questo odor di muschio e di salnitro, /« a questa nebbia…». Pare una sconfitta senza rimedio, una disperazione che non lascia scampo. Eppure, è proprio in questa nudità assoluta che trova espressione una nuova consapevolezza, una verità dimenticata, un’urgenza di una parola diversa, antica e sacra, da pronunziare con umiltà. 

E non a caso Testori volle leggere lui stesso il suo monologo, a partire dalla sera del 7 novembre 1978 al Teatro Pierlombardo di Milano, e poi in più di cento teatri e chiese di tutta Italia. Una scelta che evidenzia l’importanza del vissuto biografico dell’autore, che iniziò a scrivere il testo dopo la morte della madre, Lina Paracchi, avvenuta nel luglio del 1977, e che nel testo diviene tutt’uno con la morte della madre del protagonista. 

Ed eccola, allora, la morte «che è il filo ancora della vita», ma «non adesso; non qui; / di là, / oltre le porte, oltre le quinte, / oltre i muri, oltre i prati…»; la morte prima cagna e ora capretta tenera, bestia ammansita; la morte che, dopo la scomparsa di lei, la madre («anzi, mamma; / così, mamma…»), dona il coraggio di proferire parole abbandonate e dimenticate da tempo: anima, carità, pietà, Dio. Parole che chiedono d’essere accolte con semplicità e rispetto. Parole che oggi quasi si fa fatica a dire e a fare proprie. Parole non astratte, che trovano la loro verità in un’esperienza di vita. E che cos'è esperienza profonda, se non una conversione totale, nella sua irrefrenabile urgenza, nella sua umiltà e, insieme, luminosa grandezza, nella sua richiesta di perdono, nella sua fame e sete di carità?

In Conversazione con la morte il groviglio linguistico di Testori, la sua straordinaria capacità inventiva di una lingua materica, arcaica, contaminata da un impasto policromo di dialetti, latinismi, influssi francesi e spagnoli – tipico della Trilogia degli Scarozzanti – si scioglie. Qui c’è l’esigenza di una dizione diversa, alta pur nella semplicità, che richiede un altro ascolto, la totale partecipazione interiore del cosiddetto spettatore. E proprio la presenza di Testori, con la sua voce «lenta, nebbiosa, e a tratti affaticata», come si legge nella nota di Luigi Brioschi in appendice al volume, si può intendere come una negazione della recitazione stessa, aldilà di ciò che intendiamo per spettacolo, al fine di giungere a una comunicazione diversa, che cerca nella parola nuda, nella sua fragilità e nella sua misteriosa potenza, una nuova possibilità, un altro senso e un altro suono. 

L’esperienza radicale della morte segna per Testori uno scarto profondo e, al tempo stesso, una continuazione, lo sviluppo di quella drammatica richiesta di senso che ha sempre contraddistinto la sua opera. La sua conversione non sarà mai pacificata, anzi, lo condurrà a prove estreme, come quelle appartenenti alla cosiddetta Branciatrilogia prima (Confiteor, In exitu, Verbò) e seconda (Sfaust, SdisOrè, Regredior) e ai Tre Lai (Cleopatras, Erodias, Mater Strangoscias). Non possono non venire in mente, al riguardo, le parole di un altro scrittore cristiano scomodo, Leon Bloy (1846-1917): «I cristiani devono essere continuamente chini sugli abissi». Questo è proprio ciò che ha fatto Testori, il quale ebbe poi modo di dichiarare: «Ogni volta che prendo a scrivere qualcosa, per me, è l’ultima e definitiva; poi mi trovo a dover continuare a vivere come un vecchio sacco smagrito, pieno solo d’orrore e di peccati, e allora si rimette in moto, senza che io lo meriti, la Carità» (in Testori, Traduzione della prima lettera ai Corinti, Longanesi, 1991). 

Con Conversazione con la morte Testori sente il bisogno, anzi l’urgenza, di testimoniare, di implorare addirittura, prima che sia troppo tardi, per bocca del protagonista, la sacralità dell’esistenza, la sua dimensione che non è «cosa», né «illuminata demenza della Ragione» (ricordiamo, a questo proposito, Interrogatorio a Maria del 1979 e Factum est del 1981, che completeranno la seconda trilogia testoriana, e che accompagneranno gli articoli che scrisse per “Il Corriere della Sera” e per “Il Sabato”, raccolti poi nel volume La maestà della vita, Rizzoli, 1982). Le ultime parole del testo sono un’esortazione oggi più che mai non solo opportuna ma necessaria: «riunite la morte alla vita, / riunitele / o su voi scenderà solo e per sempre lei, / la morte fattasi oggetto, / la morte fattasi cosa…/ Riunitele, / ve lo chiedo dalla mia fine / e dal mio inizio: / riunitele».

Mauro Germani

 

venerdì 10 marzo 2023

Andrea Leone - Ludwig


 Questo mio testo, dopo la lettura di Ludwig di Andrea Leone (Fallone Editore, 2022)

Ludwig è l’atto inattuale, il sangue che converte.

Ludwig non è la coscienza del tempo, il declinare del giorno.

 

Ludwig è il delitto sacro, il compimento del verbo smisurato.

Ludwig non è un singhiozzo, non è l’io moribondo del poeta.

 

Ludwig è lo specchio che si specchia, il fulgore.

Ludwig non è il quando, il prima, il dopo.

 

Ludwig è il passato che non fu e l’incendio che è.

Ludwig non è una mente, non è un corpo, non è chi.

 

Ludwig è la lezione crudele,  l’inno che sale, la meraviglia implacabile.

Ludwig non è il suo volto, il suo nome, il suo sogno.

 

Ludwig è l’algebra, la scossa, il furore scarlatto.

Ludwig non è il pensiero, il concetto, l’aborto.

 

Ludwig è la poesia, il gemello senza nome e senza riposo.

Ludwig non è carta,  non è grammatura, non è pagina.

 

Ludwig è il compito che non sapremo, l’esatto comando, la fede che risplende.

Ludwig non è canzone, non è voce, non è lettura.

 

Ludwig è lo spavento apocalittico e divino, il salto, la coincidenza che deraglia.

Ludwig non è parola- moneta, non è commercio, non è comunità.

 

Ludwig è la catastrofe che illumina, il gesto grande e  immortale, il tonfo celeste.

Ludwig non è il pianto, la pena, la denuncia.

 

Ludwig è l’estasi matematica, l’ordigno, la gloria, la fine di ogni fine.

Ludwig non è nessun libro, nessun autore, nessun poeta.

 

Ludwig ha scritto Ludwig.

mercoledì 22 febbraio 2023

Luca Lanfredi - Ogni volta il bene è nuovo

 


Luca Lanfredi, Ogni volta il bene è nuovo, Lamantica Edizioni 2022

C’è come un se sottinteso in questo ultimo libro di  poesie di Luca Lanfredi, dove ciò che è ipotetico assume una dimensione ambigua, doppia, di realtà e di irrealtà insieme. Un se che irrompe nel quotidiano e nella parola, tra pensiero, volontà e immaginazione, per colmare una perdita e pronunciare una richiesta d’appello ai bordi dell’impossibile («Si può parlare adesso e non sei qui»). Un se che vive in un desiderio di tregua, di cammino nuovo insieme a chi non c’è più, nel movimento dell’esistenza, la quale è comunque altro e di più rispetto alla scrittura («da un lato chi scrive, dall’altro / la vita che, in ogni caso, è / un rigo nero nel tempo»). Un se che è un’ipotesi di vita ulteriore, un ritorno di frasi, di respiri, di atti in una prospettiva di memoria, che cerca una comprensione, un’appartenenza, una condivisione («Abbandonare qualcuno, / poi ritrovare qualcuno»). 

Ed è proprio il desiderio di ritrovare, di rivivere per vivere, che affiora dai versi di Luca Lanfredi. Perché la coscienza  di ciò che è perduto risale dai giorni, dai gesti, dagli incontri, come un rimpianto, o un rimorso mai sopito («Provare un senso di colpa / verso i morti. Come una carta / da pacco che si lacera, / come uno scoppio, o un istante / che implora»), o come un’esigenza di rinnovamento («Lambirsi, conoscere, trovare un / nuovo volto al breve movimento / che segue la partenza»).

In questa oscillazione temporale, in questa discrasia dell’esistenza troviamo allora la vibrante essenza della poesia di Lanfredi, con il suo trascolorare di piccoli eventi, di frasi appena sussurrate, di indizi che raccontano un ossimoro, un’assenza sempre presente, oppure una presenza sempre assente. La realtà accaduta trasforma la realtà che accade, e viceversa, ma non per un gioco poetico, per un illusionismo di carta, ma per un impulso esistenziale, «oltre la gentilezza della pena».

Rispetto alle prove poetiche precedenti, si ravvisa qui la volontà, da parte dell’autore, di cercare una via, oltre la solitudine o lo smarrimento, nella consapevolezza che – come afferma una voce –  «“Passo dopo passo avremo allora / un luogo che ci insegue / e ognuno uno sguardo capiente / per includere il proprio destino”». E c’è soprattutto il riconoscimento sommesso di un debito nei confronti di chi è scomparso (il libro è dedicato al padre), insieme alla comprensione del valore del silenzio («Tacere è come l’arte del sorriso») e alla convinzione che la vera poesia non è mai esibita, ma è nascosta nel segreto dell’ esistenza («E vorrei poterti dire: chi non scrive / è un poeta»).

L’andamento dei testi è dato da una serie di dissolvenze incrociate, di rapide sequenze di ambienti, di paesaggi, di voci, come in un film il cui montaggio ribalta continuamente i piani temporali e i punti di vista. Ecco allora piccoli ma improvvisi movimenti, lacerti di dialoghi, congedi che paiono ritorni, domande che sembrano risposte, intenzioni immaginate o ritrovate, ricordi come promesse («Dovresti avere nel sogno un cammino / come un cuore di vento che moltiplica»), fino alla poesia che conclude la raccolta in modo nitido e sorprendente, con la memoria che riporta la figura del padre che, affacciato alla finestra,  dona «il pane / sorridente / verso la buona fame degli uccelli».

E forse questa gratuità che vuole saziare un bisogno innocente può gettare una luce, a ritroso, su tutti i testi precedenti. Il se sottinteso a cui si accennava all’inizio si può allora comprendere come l’ipotesi di una disciplina, un’eredità da custodire e da rigenerare, pur nella «realtà del vuoto», perché ogni volta il bene è nuovo.

Mauro Germani