Ho
sempre considerato Il Vangelo secondo Matteo di
Pier Paolo Pasolini (1964) un capolavoro assoluto, uno dei film più
importanti della storia del cinema,
un’opera che, oltre a suscitare in me una profonda commozione, sembra
proprio realizzata in stato
di grazia,
fortemente ispirata, in cui si fondono mirabilmente originalità
linguistica, grande suggestione formale e potenza del sacro. Pasolini
si dichiarava «non
credente, almeno nella coscienza»: ed è particolarmente
significativa questa precisazione, che distingue l’ambito
intellettivo-razionale da quello più segreto, arcano, emozionale,
lasciando così spazio a una realtà ulteriore. È comunque indubitabile
la presenza del sacro in tutta la sua multiforme e complessa
produzione artistica, come un’ossessione scandalosa,
misteriosa, sconvolgente, nella quale storia e mito, realtà
quotidiana e forza naturale, concretezza carnale e impulso mistico si
compenetrano in modo spesso violento, rivoluzionario, al di là di
ogni consuetudine acquisita (si
vedano,
al riguardo, soprattutto
due
film: Teorema,
del 1968
– una sorta di parabola moderna in cui il sacro si manifesta nei personaggi dell’Ospite e della domestica Emilia,
che a un certo punto appare a mezz’aria, sui tetti delle case, come
una santa – , e Salò
o le 120 giornate di Sodoma,
del 1975, nel quale, all’opposto, assistiamo alla morte del sacro,
e alla violenza terribile perpetrata dal potere). Questa bidimensionalità
del sacro
pare essere proprio la cifra stilistica dell’opera pasoliniana,
laddove la classica opposizione tra immanenza e trascendenza viene in
qualche modo rovesciata e superata.
Il testo del Vangelo di Matteo,
con la sua straordinaria forza dirompente, rappresenta per Pasolini
un’occasione davvero unica per scuotere – con la figura di Cristo
e con la sua parola altra,
pura e affilata come una spada – le coscienze intorpidite della società dei primi anni Sessanta, nella quale è possibile riconoscere i prodromi del consumismo che dilagherà negli anni seguenti. Si tratta di un’operazione
cinematografica non priva di rischi in considerazione dell’argomento innegabilmente assai complesso. Pasolini intende, infatti, realizzare un film sul Vangelo non convenzionale. Pur mantenendo un’assoluta fedeltà al
testo, pone al centro un Cristo iconograficamente diverso rispetto alla tradizione, così come gli apostoli e la gente comune
hanno un aspetto e una parlata popolari, quasi da neorealismo;
inoltre i luoghi scelti per la rappresentazione diventano la Puglia,
il Lazio, la Calabria e la Basilicata, in
particolare i Sassi di Matera. E proprio questa
scelta stilistica si rivela vincente. È il Pasolini poeta ad avere
la meglio, perché la povertà del paesaggio, i volti di attori non
professionisti, nonché di alcuni amici dello scrittore-regista (tra
cui Mario Socrate, Enzo Siciliano, Alfonso Gatto, Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg) vengono immortalati grazie a una bellissima
fotografia in bianco e nero, che alterna – con un sapiente
montaggio di Nino Baragli – primissimi piani a campi lunghi. Inoltre risulta di particolare rilievo la colonna sonora composta, tra gli altri, da brani di Bach, di
Mozart, di Prokofiev, che conferiscono alle immagini un’icasticità
davvero sorprendente. Si noti, poi, l’uso della macchina da presa a
mano (frequente anche in altri film di Pasolini) per meglio
avvicinare la realtà in certi aspetti di essa violenti, brutali, oppure estatici, pervasi dal mistero del sacro. Ma è soprattutto la figura di Cristo, nell’interpretazione
di Enrique Irazoqui, a dominare – com’è giusto – il film: un
Cristo segnato da un’urgenza, una missione potente da portare a
termine, un compito che non dà tregua e che è al di sopra di tutto.
Ha fretta, il Cristo di Pasolini: spesso cammina veloce, seguito dai
suoi discepoli, parla con autorità e severità, annunciando una
verità superiore che sconvolge e proclamando un amore che non ha
nulla da spartire con il cosiddetto quieto vivere. Potremmo dire che
in lui è presente una violenza dolce e sacra, misericordiosa, che
travalica la ragione umana: un ossimoro che chiede l’accoglienza
della fede, quella dei semplici come i bambini, ai quali dona il suo
sorriso, affermando di non allontanarli, perché proprio di loro è
il regno dei cieli. Ammirevole è poi la scelta di mostrare i
miracoli compiuti da Gesù senza alcuna enfasi, con grande
naturalezza, con il solo utilizzo della musica a fatto avvenuto,
quando chi è stato miracolato se ne va cambiato, rinnovato nel corpo
e nell’anima. Ecco allora che la severità di Cristo è soprattutto
contro gli ipocriti («Guai
a voi scribi e farisei ipocriti, poiché siete come sepolcri
imbiancati che all’esterno appaiono belli a vedersi, dentro invece
sono pieni di ossa di morti e di ogni putredine»), i potenti, i mercanti nel tempio (e
questa è anche l’accusa che Pasolini ha sempre rivolto a ogni forma di
potere politico, sociale, antropologico), ma si scioglie
nei confronti dei poveri, dei fanciulli, di chi crede ed è puro di
cuore e
non si preoccupa, non si chiude nel proprio egoismo e nel proprio narcisismo:« Guardate gli uccelli del cielo: essi non seminano, non mietono, né raccolgono in granai, eppure il Padre vostro celeste li
nutre; e voi non valete più di loro? […] Osservate i gigli
del campo, come crescono: non lavorano, non tessono. Eppure vi dico che
neanche Salomone in tutta la sua magnificenza vestiva come uno di essi. Se Dio veste così l’erba del campo che oggi c’è e
domani viene gettata nel fuoco, quanto più vestirà voi, gente di poca fede?». Ecco,
il tema della poca fede è assai ricorrente nel Vangelo, insieme
all’esortazione ad abbandonarsi a Dio e a non temere la morte: «Non
vi spaventate per quelli che possono uccidere il corpo, ma non
possono uccidere l’anima. Temete piuttosto Colui che ha il potere
di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo. Non si vendono
forse due passeri per un asse? Ebbene, uno solo di essi non cadrà
senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo
sono tutti numerati. Non temete, dunque: voi valete ben più di molti
passeri».
E questo per Pasolini significava soprattutto il coraggio del pensiero e della
parola, il rigore di chi non accetta meschini compromessi, proprio
come Gesù che è fermo e risoluto verso Satana
che lo tenta nel deserto: le
sue parole sono così forti che non ammettono
repliche, tanto che il diavolo appare come un poveraccio che indossa nobili
vesti, ed è costretto ad andarsene sconfitto, in silenzio.
Le
sequenze finali della passione e della morte del Messia sono altamente
drammatiche e di estrema solitudine (in particolare, dalla notte del Getsemani in poi). Come non ricordare le immagini
del dolore straziante di Maria, interpretata non a caso dalla madre di Pier Paolo? Verso la figura di Cristo, Pasolini, infatti, ebbe sempre una forte attrazione, sia nel
periodo della gioventù friulana, sia successivamente, come
testimoniano diversi testi poetici. Di grande potenza sono i momenti
atroci della crocifissione che culminano nella
morte di Gesù, quando il cielo si oscura e la terra trema: è il buio del
male e dell’assenza, del creato abbandonato a sé stesso, della paura e del pentimento da parte di alcuni («Davvero costui era
Figlio di Dio!»), fino all’annuncio della resurrezione, a cui
seguirà l’apparizione ai discepoli e la promessa di essere con
loro «tutti i giorni, sino alla fine del mondo».
Per
quanto concerne le interpretazioni critiche del film, non è
condivisibile, a mio parere, l’opinione di coloro che non hanno
ravvisato alcuna sacralità nel Cristo pasoliniano (tra questi, per
esempio, Morando Morandini, il quale afferma che viene messa in luce
più l’umanità che la divinità di Gesù). Mi sembra significativo
rilevare, invece, la dedica dell’autore «alla cara, lieta,
familiare memoria di Giovanni XXIII». Per di più il film (sicuramente il migliore ancora oggi tra quelli tratti dai Vangeli) si aggiudicò, insieme ad altri importanti riconoscimenti, il Premio OCIC (Office
Catholique International du Cinéma). Per
concludere due affermazioni di Pasolini –
tratte da
Saggi sulla politica e la società
(Mondadori, 1999) – che attestano la peculiarità e l’originalità
del suo pensiero. La prima: «La Chiesa potrebbe essere la guida,
grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano […] il
nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso». La
seconda: «Tutto quello che Marx ha detto della religione è da
prendere e da buttare via, è frutto di una colossale ignoranza».
Mauro Germani