domenica 13 aprile 2025

"Il Vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini


Ho sempre considerato Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) un capolavoro assoluto, uno dei film più importanti della storia del cinema, un’opera che, oltre a suscitare in me una profonda commozione, sembra proprio realizzata in stato di grazia, fortemente ispirata, in cui si fondono mirabilmente originalità linguistica, grande suggestione formale e potenza del sacro. Pasolini si dichiarava «non credente, almeno nella coscienza»: ed è particolarmente significativa questa precisazione, che distingue l’ambito intellettivo-razionale da quello più segreto, arcano, emozionale, lasciando così spazio a una realtà ulteriore. È comunque indubitabile la presenza del sacro in tutta la sua multiforme e complessa produzione artistica, come un’ossessione scandalosa, misteriosa, sconvolgente, nella quale storia e mito, realtà quotidiana e forza naturale, concretezza carnale e impulso mistico si compenetrano in modo spesso violento, rivoluzionario, al di là di ogni consuetudine acquisita (si vedano, al riguardo, soprattutto due film: Teorema, del 1968 – una una sorta di parabola moderna in cui il sacro si manifesta nei personaggi dell’Ospite e della domestica Emilia, che a un certo punto appare a mezz’aria, sui tetti delle case, come una santa – , e Salò o le 120 giornate di Sodoma, del 1975, nel quale, all’opposto, assistiamo alla morte del sacro, e alla violenza terribile perpetrata dal potere). Questa bidimensionalità del sacro pare essere proprio la cifra stilistica dell’opera pasoliniana, laddove la classica opposizione tra immanenza e trascendenza viene in qualche modo rovesciata e superata. 
Il testo del Vangelo di Matteo, con la sua straordinaria forza dirompente, rappresenta per Pasolini un’occasione davvero unica per scuotere – con la figura di Cristo e con la sua parola altra, pura e affilata come una spada – le coscienze intorpidite della società dei primi anni Sessanta, nella quale è possibile riconoscere i prodromi del consumismo che dilagherà negli anni seguenti. Si tratta di un’operazione cinematografica non priva di rischi in considerazione dell’argomento innegabilmente assai complesso. Pasolini intende, infatti, realizzare un film sul Vangelo non convenzionale. Pur mantenendo un’assoluta fedeltà al testo, pone al centro un Cristo iconograficamente diverso rispetto alla tradizione, così come gli apostoli e la gente comune hanno un aspetto e una parlata popolari, quasi da neorealismo; inoltre i luoghi scelti per la rappresentazione diventano la Puglia, il Lazio, la Calabria e la Basilicata, in particolare i Sassi di Matera. E proprio questa scelta stilistica si rivela vincente. È il Pasolini poeta ad avere la meglio, perché la povertà del paesaggio, i volti di attori non professionisti, nonché di alcuni amici dello scrittore-regista (tra cui Mario Socrate, Enzo Siciliano, Alfonso Gatto, Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg) vengono immortalati grazie a una bellissima fotografia in bianco e nero, che alterna – con un sapiente montaggio di Nino Baragli – primissimi piani a campi lunghi. Inoltre risulta di particolare rilievo la colonna sonora composta, tra gli altri, da brani di Bach, di Mozart, di Prokofiev, che conferiscono alle immagini un’icasticità davvero sorprendente. Si noti, poi, l’uso della macchina da presa a mano (frequente anche in altri film di Pasolini) per meglio avvicinare la realtà in certi aspetti di essa violenti, brutali, oppure estatici, pervasi dal mistero del sacro. Ma è soprattutto la figura di Cristo, nell’interpretazione di Enrique Irazoqui, a dominare – com’è giusto – il film: un Cristo segnato da un’urgenza, una missione potente da portare a termine, un compito che non dà tregua e che è al di sopra di tutto. 
Ha fretta, il Cristo di Pasolini: spesso cammina veloce, seguito dai suoi discepoli, parla con autorità e severità, annunciando una verità superiore che sconvolge e proclamando un amore che non ha nulla da spartire con il cosiddetto quieto vivere. Potremmo dire che in lui è presente una violenza dolce e sacra, misericordiosa, che travalica la ragione umana: un ossimoro che chiede l’accoglienza della fede, quella dei semplici come i bambini, ai quali dona il suo sorriso, affermando di non allontanarli, perché proprio di loro è il regno dei cieli. Ammirevole è poi la scelta di mostrare i miracoli compiuti da Gesù senza alcuna enfasi, con grande naturalezza, con il solo utilizzo della musica a fatto avvenuto, quando chi è stato miracolato se ne va cambiato, rinnovato nel corpo e nell’anima. Ecco allora che la severità di Cristo è soprattutto contro gli ipocriti («Guai a voi scribi e farisei ipocriti, poiché siete come sepolcri imbiancati che all’esterno appaiono belli a vedersi, dentro invece sono pieni di ossa di morti e di ogni putredine»), i potenti, i mercanti nel tempio (e questa è anche l’accusa che Pasolini ha sempre rivolto a ogni forma di potere politico, sociale, antropologico), ma si scioglie nei confronti dei poveri, dei fanciulli, di chi crede ed è puro di cuore e non si preoccupa, non si chiude nel proprio egoismo e nel proprio narcisismo:« Guardate gli uccelli del cielo: essi non seminano, non  mietono, né raccolgono in granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre; e voi non valete  più di loro? […] Osservate i gigli del campo, come crescono: non lavorano, non tessono. Eppure vi dico che neanche Salomone in tutta la sua magnificenza vestiva come uno di essi. Se Dio veste così l’erba del campo che oggi c’è e domani viene gettata nel fuoco, quanto più vestirà voi, gente di poca fede?»Ecco, il tema della poca fede è assai ricorrente nel Vangelo, insieme all’esortazione di abbandonarsi a Dio e a non temere la morte: «Non vi spaventate per quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima. Temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo. Non si vendono forse due passeri per un asse? Ebbene, uno solo di essi non cadrà senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti numerati. Non temete, dunque: voi valete ben più di molti passeri». E questo per Pasolini significava soprattutto il coraggio del pensiero e della parola, il rigore di chi non accetta meschini compromessi, proprio come Gesù che è fermo e risoluto verso Satana che lo tenta nel deserto: le sue parole sono così forti che non ammettono repliche, tanto che il diavolo appare come un poveraccio che indossa nobili vesti, ed è costretto ad andarsene sconfitto, in silenzio. 
Le sequenze finali della passione e della morte del Messia sono altamente drammatiche e di estrema solitudine (in particolare, dalla notte del Getsemani in poi). Come non ricordare le immagini del dolore straziante di Maria, interpretata non a caso dalla madre di Pier Paolo? Verso la figura di Cristo, Pasolini, infatti, ebbe sempre una forte attrazione, sia nel periodo della gioventù friulana, sia successivamente, come testimoniano diversi testi poetici. Di grande potenza sono i momenti atroci della crocifissione che culminano nella morte di Gesù, quando il cielo si oscura e la terra trema: è il buio del male e dell’assenza, del creato abbandonato a sé stesso,  della paura e del pentimento da parte di alcuni («Davvero costui era Figlio di Dio!»), fino all’annuncio della resurrezione, a cui seguirà l’apparizione ai discepoli e la promessa di essere con loro «tutti i giorni, sino alla fine del mondo». 
Per quanto concerne le interpretazioni critiche del film, non è condivisibile, a mio parere, l’opinione di coloro che non hanno ravvisato alcuna sacralità nel Cristo pasoliniano (tra questi, per esempio, Morando Morandini, il quale afferma che viene messa in luce più l’umanità che la divinità di Gesù). Mi sembra significativo rilevare, invece, la dedica dell’autore «alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII». Per di più il film (sicuramente il migliore ancora oggi tra quelli tratti dai Vangeli) si aggiudicò, insieme ad altri importanti riconoscimenti, il Premio OCIC (Office Catholique International du Cinéma). Per concludere  due affermazioni di Pasolini – tratte da Saggi sulla politica e la società (Mondadori, 1999) – che attestano la peculiarità e l’originalità del suo pensiero. La prima: «La Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano […] il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso». La seconda: «Tutto quello che Marx ha detto della religione è da prendere e da buttare via, è frutto di una colossale ignoranza».

Mauro Germani




giovedì 27 marzo 2025

Recensione di Mario Bonanno a "Reticenze"


Su "Sololibri" è uscita questa bella recensione di Mario Bonanno, che ringrazio molto, al mio libro di racconti Reticenze (Fallone editore, 2024). 
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martedì 25 marzo 2025

Su "La rosa in più" alcuni testi tratti da "Prima del sempre"


Su "La rosa in più" alcuni miei testi poetici tratti da Prima del sempre (puntoacapo, 2024). Ringrazio di cuore Salvatore Sblando per la pubblicazione.

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Articolo su "Poetarum Silva" - L'insondabile mistero di Tarchetti: tra sogni, ossessioni e follia



"Poetarum Silva" ospita questo mio articolo su Igino Ugo Tarchetti (1839-1869). Ringrazio di cuore Giulia Bocchio per la pubblicazione. 
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lunedì 24 febbraio 2025

Rinaldo Caddeo - Le giornate e la notte di un pensionato


Rinaldo Caddeo, Le giornate e la notte di un pensionato, Babbomorto Editore, 2025

Con questa plaquette Rinaldo Caddeo conferma l’originalità della propria scrittura che cattura, ma non è catturabile. Ci troviamo davanti a una serie di frammenti incandescenti o incendiari (L’incendio è il titolo dell’ultimo libro di racconti di Caddeo, pubblicato nel 2021), in quanto è la fiamma della parola a essere in qualche modo protagonista, una fiamma che brucia la polvere della consuetudine fino alla rivelazione dell’inaspettato che cova sotto la cenere. E non a caso al fuoco è dedicata l’immagine di copertina, che raffigura della legna che arde, inoltre nei testi non pochi sono i riferimenti a questo elemento (tanto che viene talvolta da pensare al lógos eracliteo, il quale esprime il suo intimo essere attraverso la trasformazione), spesso in contrapposizione alla polvere: «Il fuoco fa la cenere, la cenere conserva il fuoco. La polvere nasce dalle cose, si allontana e alle cose ritorna»; «Attenti! Sotto la cenere cova già dell’altro fuoco. Sotto la polvere le cose del mondo crollano»; «La cenere, grazie ai vulcani, raggiunge la stratosfera e fa il giro del mondo. La polvere resta sotto».

Ma qual è l’origine di questa scrittura che ci sorprende, che apre abissi con una strana naturalezza, che ci turba senza enfasi alcuna? Da dove traggono forza o ispirazione le visioni che ci appaiono e scompaiono come lampi o fuochi improvvisi, tra una dissolvenza e l’altra? E chi è davvero l’autore di ciò che leggiamo? Esiste, oppure è solo nel titolo? Quale tipo di opera è tra le nostre mani?

Sono domande che suscitano un mistero e possono provocare l’azzardo di alcune risposte, ma ben presto ci accorgiamo che in realtà dalle risposte scaturiscono altre domande. Ed è davvero singolare come le poche pagine di questa plaquette favoriscano tante riflessioni e tanti interrogativi, a dimostrazione di quanto la scrittura in questione sia fertile. Le ipotesi durante la lettura si rivelano pertanto molteplici, come nella migliore letteratura, tuttavia, tra le altre, le due seguenti ci paiono le più interessanti.

Forse al nostro cospetto c’è l’ultima registrazione di un autore che si è ritirato, un pensionato che sa di essere ai margini della vita propria e altrui, e lascia finalmente accadere l’improbabile, ciò che gli altri non colgono perché troppo occupati e indaffarati; qualcosa che solo il suo sguardo – dopo aver attraversato la sequela dei giorni – riesce a percepire, approdando a una notte rivelatrice, in un progressivo avvicinamento al sogno, all’imprevedibile, allo scarto improvviso rispetto a ogni codice conosciuto. O, invece, non c’è alcuna origine e nemmeno un centro, ma solo frantumi-fantasmi che appaiono sulla pagina, come una deriva del linguaggio, una notte linguistica, di cui lo stesso pensionato del titolo fa parte, puro nome tra nomi, spettro di carta, come l’autore stesso Caddeo, ombra di un’ombra, io fittizio, allontanato da sé medesimo nel processo della scrittura.

Il valore di questa plaquette risiede proprio negli interrogativi e nelle supposizioni che provoca. Essa, infatti, si può intendere come una grande domanda che coinvolge non solo noi, i pericoli e le paure che ci assediano, il nostro essere a metà tra salvezza e perdizione («Nel pieno della notte mi sono sdraiato sul fianco sinistro. Con l’orecchio destro ho sentito il concerto silenzioso della musica di cieli. Con l’orecchio sinistro il rombo lontano della guerra che si avvicina»), ma anche le polivalenze del linguaggio, il suo essere imprendibile, la sua capacità di catturarci allontanandosi, spalancando il vuoto tra le parole.

Rinaldo Caddeo è abilissimo a costruire pensieri e a elaborare circostanze o descrizioni sempre sfuggenti, che scottano, che bruciano anche quando sembra restare solo la cenere. La sua prosa apparentemente innocua e neutra ci assale senza preavviso, ci scuote, ci risveglia dal nostro colpevole torpore quotidiano e ci inquieta, perché avvertiamo che in essa c’è qualcosa che ci riguarda: il non detto, il non visto, il rimosso prendono forma in visioni fulminee e perturbanti, in cui qualcosa brucia, si disgrega e qualcosa d’altro appare, come all’interno di una botola o un baratro. Sono vertigini della parola e dell’esistenza. Sono domande che ci chiamano. 

Mauro Germani




giovedì 23 gennaio 2025

La negazione della forma compiuta - "Reticenze" di Mauro Germani


Sul sito "Poetarum Silva", Giulia Bocchio, che ringrazio, scrive una nota di lettura relativa al mio libro di racconti Reticenze (Fallone editore, 2024).  Accompagna la nota il racconto Lettere anonime, tratto dal libro. 
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