martedì 13 dicembre 2011

Gianfranco Fabbri su "Terra estrema"




Terra estrema, il nuovo libro di Mauro Germani, applica al percorso poetico dell’autore un giro di vite rimarchevole; tanto rimarchevole da poter definire questa svolta stilistica come una stagione nuova, i cui risultati maturi potranno vedersi appieno in un prossimo futuro. È l’aggettivazione la prima caratteristica che salta all’evidenza; una funzione cromatica, intensa, ritmica e molto spesso in fondo al verso, al fine di dare alla timbrica un passo inedito. Il poeta infatti desidera creare un cospicuo magazzino di oggetti, -materiali e immateriali- tanto numeroso da poter fornire al lettore i “ferri del mestiere”. Germani, sotto questo profilo, non si pone limiti; getta pennellate di notevole policromia; reitera, scialando, nomi e nomi con insistenza, facendosi in tal caso beffe di quei critici che sempre pongono le loro raccomandazioni di prudenza aggettivale. Nonostante i timori di incorrere in una critica di questo tipo, il nostro poeta è andato avanti con il suo progetto, riuscendo a inanellare passi memorabili, sul fronte della trepidazione coloristica che la tematica richiedeva.
Sempre a livello di stile, c’è da notare l’uso fitto dell’anafora, che promette l’effetto di un martellamento in capo di verso, utile ad entrare negli spazi concavi di un riparo, oppure, al contrario, opportuno a spiegare gli spigoli appuntiti di una affermazione polemica. Il dettato, a mano a mano che si procede in avanti nella lettura, segue o insegue la “nota solenne” (ma non querula) dell’intonazione profetica –sibillina e divinatoria-. Germani dà l’impressione di chiedere al proprio magazzino lessicale di muoversi, di agire, di uscire nei quartieri della Terra estrema, per conferire la bonifica di questa regione impervia. Un’indagine ha potuto appurare la frequenza delle ripetizioni; alle pagine 40-41-42-43 si può contare fino a sei volte la ripetizione della parola “universo” (e affini). Altrettanto fitta è apparsa la frequenza del sostantivo “corpo” , così come del resto si può dire del gruppo di termini “Flutto, fiato, gemito, respiro, tremore ecc…”). Una sola volta è stata pronunciata la parola “bellezza” (credo, per un senso di paura, ché al solo pronunciamento il lettore avrebbe potuto rischiare la cecità).
Ma passiamo alla tematica.
Germani introduce, anche se in modo graduale, la cifra della raccolta, ovvero l’ombrosità e la ritrosia del dire senza dire. Si ritorna alla dinamica della reticenza attraverso un uso sovrabbondante di frasi periferiche, le quali hanno lo scopo di stornare il linguaggio dal fulcro vero dell’opinione. Salta in superficie l’uso di una scrittura semi-automatica / semi-lucida, ottenuta in virtù della produzione di un “rumore” di base, utile anch’esso a produrre ambigua reticenza, anziché mirare direttamente alla “nuda” proprietà dell’idea.
Il corpo è certamente la navicella spaziale con cui viaggiare ai confini della stessa entità corporea (la Terra estrema). 
Il corpo viene osservato dal punto di vista della propria ombra.
Si ha quindi modo di toccare con mano l’orografia della montuosità, l’accoglienza delle concavità ove svernare la propria formazione di crescita.
I soggetti poetici contraggono fibrillazioni e aritmie, le quali passano dall’Io al Noi, al Loro, con un senso di fame che non transige. Il corpo viene rappresentato dagli organi fisiologici (gli occhi, le labbra, la pelle o quant’altro). Ma del corpo, della sua presa di coscienza biologica, non c’è eternità; esiste anzi la concreta possibilità che lo stesso corpo appaia come un mezzo per poter raggiungere l’ottundimento, l’estasi dell’eros così contiguo al senso fatale della morte.

Quale ignoto sangue,
quale corpo
ai confini del corpo?

(Ai più, dopo la lettura di un tale frammento, verrebbe forse da chiedersi: si parla qui del gemello mai nato?)

Ma l’uomo è segno di infinita segretezza; come un buco nero dello spazio che conservi -già nel suo più profondo infinito- la lesione primordiale.

… “nella notte cieca
che sprofonda,
nella piaga d’anima
aperta e nera,
più giù,
dove tutto si cerca
e sempre si perde”


Tale senso è ben presente anche nelle ultime due sezioni del libro: “Voci” e “Terra estrema”. Nella prima di queste due parti si alza una nota solenne, accorata, che dichiara il proprio nome (ora il cielo, ora la neve, ora altri personaggi di questa dimensione, situati a metà strada fra la Terra ordinaria e il perfetto oltretomba). Si giunge così ad un trasferimento dell’ Io poetico: dall’imperio verbale (il “non” che proibisce) al “Lui” - “Lei” (che insieme sono l’umanità) per una cacciata dal paradiso, terrestre e infernale.

È la temperie decisiva, con il suo varcare i confini del corpo, che assesta e consolida un regime definitivo, determinando l’anchilosamento della speranza.