Con
Il margine André Pieyre de
Mandiargues vinse il premio Goncourt nel 1967.
Si
tratta di un romanzo (tradotto da Antonio Porta e portato sugli schermi dal regista Walerian Borowczyk nel 1976) di dettagli, di astrazioni e di morte, caratterizzato da
una particolare scrittura fenomenologica,
che si apre a squarci onirici, ad abissi improvvisi. Le descrizioni minute
della realtà, infatti, sottendono sempre un vuoto pronto a spalancarsi da un
momento all’altro, come se il mondo intero fosse in procinto di sprofondare.
Questo
perché Sigismond, il protagonista, un francese di mezza età, che per alcuni
affari trascorre tre giorni a Barcellona, più precisamente nel Barrio Chino, il
quartiere della prostituzione, decide in
modo sorprendente di vivere ai margini
della realtà, dopo aver ricevuto una lettera – di cui si limita a leggere
solo un paio di righe – che gli annuncia la morte della moglie. La sua è una fuga dal mondo attraverso il mondo, un
andare incontro ai fatti casualmente, senza alcuna meta, come una specie di clochard dello spirito, senza nulla da
perdere o da conquistare.
Sigismond
vive così in questa bolla, nel vuoto
delle sue giornate, in un estraniamento prolungato, che Mandiargues descrive
minuziosamente, con l’intento (riuscito) di trasmettere al lettore
un’inquietudine crescente, un senso di angosciante precarietà. Lo sguardo del protagonista risulta
pertanto obliquo, fuori asse, fuori
norma. Egli si lascia andare per le strade di Barcellona, sovrapponendo alla
realtà immagini del proprio passato, ossessioni, ricordi, pensieri in cui
compare improvvisamente la moglie, come se fosse lì e gli suggerisse i propri
stati d’animo. Il tutto senza alcun dolore apparente e senza alcun riferimento
all’evento tragico comunicato dalla lettera. E in questa sorta di sospensione dell’esistenza, di messa tra
parentesi della coscienza, ciò che accade a Sigismond è simile ad un sogno, in
cui tutto sfuma ma al tempo stesso misteriosamente rivela.
Ecco
dunque l’aspetto onirico, sotterraneo
ai gesti e alle azioni del protagonista, che la scrittura di Mandiargues
abilmente nasconde e lascia affiorare di tanto in tanto. Descrivere nei
particolari le giornate di Sigismond equivale non solo a descrivere il loro
vuoto, ma anche a destabilizzare il lettore, a renderlo insicuro di ciò che sta leggendo. La domanda che ci si pone di
pagina in pagine è: che cosa sta accadendo
veramente? La sensazione che si prova è quella di leggere altro rispetto a ciò che veramente conta
e che potrebbe rivelarsi all’improvviso. Si legge, dunque, già dopo le prime
pagine e cioè dopo la lettera, col fiato sospeso, e si attende.
Qui
lo stile di Mandiargues non è sontuoso e barocco come nei racconti del Museo nero, ma apparentemente più neutro
e moderno, quasi protocollare. E
l’insidia sta proprio in questa semplicità di superficie, che cattura il
lettore, rendendolo sempre più inquieto e sospettoso.
Le
passeggiate a vuoto di Sigismond, i suoi incontri fortuiti, gli avvenimenti
minimi e intimi, a poco a poco diventano il piccolo universo nel quale
vorrebbe imprigionarsi, ma ciò non sarà possibile. L’ossessione erotica che
domina le pagine del libro - motivo ricorrente nelle opere di Mandiargues, come
preludio di conoscenza misteriosa e di morte -
è qui incarnata dalla figura di Juanita, giovane prostituta silenziosa,
di cui il protagonista subisce il fascino tenero e oscuro e a cui si accompagna
più volte, cercando di trattenere un po’ di vita in quel suo vagabondare tra
disperazione e indifferenza. Ma la ragazza è sfuggente come i sogni e in
realtà annuncia la morte. Il margine
vacilla, quel margine in cui Sigismond ha deciso di vivere tra camere
d’albergo, locali notturni, vie e piazze popolate da corpi in cammino come
fantasmi senza nome, si sta assottigliando.
E ciò che è penetrato inaspettatamente e violentemente nella sua
coscienza è destinato a prorompere, fino al compimento del gesto ultimo,
estremo.
Come
la scrittura, anche la carne è sempre altro per Mandiargues, e inevitabilmente
incontra la morte.
Mauro Germani