venerdì 8 febbraio 2019

André Pieyre de Mandiargues - Il margine


André Pieyre de Mandiargues, Il margine, Feltrinelli 1968

Con Il margine André Pieyre de Mandiargues vinse il premio Goncourt nel 1967.
Si tratta di un romanzo (tradotto da Antonio Porta e portato sugli schermi dal regista Walerian Borowczyk nel 1976) di dettagli, di astrazioni e di morte, caratterizzato da una particolare scrittura fenomenologica, che si apre a squarci onirici, ad abissi improvvisi. Le descrizioni minute della realtà, infatti, sottendono sempre un vuoto pronto a spalancarsi da un momento all’altro, come se il mondo intero fosse in procinto di sprofondare.
Questo perché Sigismond, il protagonista, un francese di mezza età, che per alcuni affari trascorre tre giorni a Barcellona, più precisamente nel Barrio Chino, il quartiere della prostituzione, decide  in modo sorprendente di vivere ai margini della realtà, dopo aver ricevuto una lettera – di cui si limita a leggere solo un paio di righe – che gli annuncia  la morte della moglie. La sua è una fuga dal mondo attraverso il mondo, un andare incontro ai fatti casualmente, senza alcuna meta, come una specie di clochard dello spirito, senza nulla da perdere o da conquistare.
Sigismond vive così in questa bolla, nel vuoto delle sue giornate, in un estraniamento prolungato, che Mandiargues descrive minuziosamente, con l’intento (riuscito) di trasmettere al lettore un’inquietudine crescente, un senso di angosciante precarietà. Lo sguardo del protagonista risulta pertanto obliquo, fuori asse, fuori norma. Egli si lascia andare per le strade di Barcellona, sovrapponendo alla realtà immagini del proprio passato, ossessioni, ricordi, pensieri in cui compare improvvisamente la moglie, come se fosse lì e gli suggerisse i propri stati d’animo. Il tutto senza alcun dolore apparente e senza alcun riferimento all’evento tragico comunicato dalla lettera. E in questa sorta di sospensione dell’esistenza, di messa tra parentesi della coscienza, ciò che accade a Sigismond è simile ad un sogno, in cui tutto sfuma ma al tempo stesso misteriosamente rivela.
Ecco dunque l’aspetto onirico, sotterraneo ai gesti e alle azioni del protagonista, che la scrittura di Mandiargues abilmente nasconde e lascia affiorare di tanto in tanto. Descrivere nei particolari le giornate di Sigismond equivale non solo a descrivere il loro vuoto, ma anche a destabilizzare il lettore, a renderlo insicuro di ciò che sta leggendo. La domanda che ci si pone di pagina in pagine è: che cosa sta accadendo veramente? La sensazione che si prova è quella di leggere altro rispetto a ciò che veramente conta e che potrebbe rivelarsi all’improvviso. Si legge, dunque, già dopo le prime pagine e cioè dopo la lettera, col fiato sospeso, e si attende.
Qui lo stile di Mandiargues non è sontuoso e barocco come nei racconti del Museo nero, ma apparentemente più neutro e moderno, quasi protocollare. E l’insidia sta proprio in questa semplicità di superficie, che cattura il lettore, rendendolo sempre più inquieto e sospettoso.
Le passeggiate a vuoto di Sigismond, i suoi incontri fortuiti, gli avvenimenti minimi e intimi, a poco a poco diventano il piccolo universo nel quale vorrebbe imprigionarsi, ma ciò non sarà possibile. L’ossessione erotica che domina le pagine del libro - motivo ricorrente nelle opere di Mandiargues, come preludio di conoscenza misteriosa e di morte -  è qui incarnata dalla figura di Juanita, giovane prostituta silenziosa, di cui il protagonista subisce il fascino tenero e oscuro e a cui si accompagna più volte, cercando di trattenere un po’ di vita in quel suo vagabondare tra disperazione e indifferenza. Ma la ragazza è sfuggente come i sogni e in realtà annuncia la morte. Il margine vacilla, quel margine in cui Sigismond ha deciso di vivere tra camere d’albergo, locali notturni, vie e piazze popolate da corpi in cammino come fantasmi senza nome, si sta assottigliando.  E ciò che è penetrato inaspettatamente e violentemente nella sua coscienza è destinato a prorompere, fino al compimento del gesto ultimo, estremo.
Come la scrittura, anche la carne è sempre altro per Mandiargues, e inevitabilmente incontra la morte.
Mauro Germani