L’attesa del tempo ultimo, dell’ultima ora. La parusia annunciata e promessa, il suo ritardo millenario dopo la croce e la resurrezione. Il regno messianico di pace e di giustizia, che ancora non si è compiuto. E poi la presenza del male nel mondo, il suo terribile mistero, davanti al quale la fede cristiana s’interroga (o dovrebbe interrogarsi) inquieta. Sono state queste, in sintesi, le ossessioni teologiche ed esistenziali di Sergio Quinzio (1927- 1996), insieme allo studio – attento, appassionato, sofferto, durato una vita intera – delle Sacre Scritture.
Il suo ultimo libro, Mysterium
iniquitatis (Adelphi, 1995) le riassume mirabilmente, prendendo avvio
dalla profezia di Malachia, secondo cui l’ultimo pontefice si chiamerà Pietro
II. A ciò Quinzio aveva già fatto riferimento in un suo precedente libro, La
croce e il nulla (Adelphi, 1984), nel quale, in un breve scritto,
aveva immaginato due encicliche, la prima, Resurrectio mortuorum, e
la seconda, Mysterium iniquitatis, «che sancisce la fine del
cristianesimo come suo ultimo possibile significato», prima del gesto finale di
Pietro II: la sua salita all’interno della cupola di San Pietro e la sua
successiva caduta «all’incrocio dei bracci della croce, nel luogo dei falsi
trionfi, là dov’è anche sepolto il pescatore di Galilea». E la conclusione non
poteva che essere nelle parole dell’Apocalisse: «Allora ci fu un grande
terremoto, di cui non si era mai visto l’uguale da quando gli uomini vivono
sopra la terra. La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città
delle nazioni. Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la
coppa del vino del furore della sua ira. E tutte le isole fuggirono, e i monti
non si trovarono più» (Ap 18, 16-20).
Mysterium iniquitatis, il libro del 1995,
riprende così lo scritto sopracitato del 1984, e dà quindi voce a Pietro II e
alle sue encicliche: un’operazione molto particolare, che si colloca tra
invenzione e riflessione, anche se naturalmente è il pensiero a essere
privilegiato. Secondo Quinzio, la Chiesa ha posto in secondo piano, o
addirittura eluso, lo scandalo della fede, mediante un progressivo
processo di secolarizzazione, che ha ridotto il cristianesimo a principi
etico-sociali, privi ormai dell’originario messaggio evangelico. La Chiesa,
infatti, pare abbia perso il coraggio della propria fede e «che se ne vergogni,
o addirittura che finga di credere ancora in ciò in cui, in realtà, non crede
più».
I temi trascurati e/o abbandonati sono,
per Quinzio, soprattutto due: la resurrezione dei morti e il mistero dell’iniquità.
Il primo riguarda «il cuore di quell’annuncio cristiano che noi troppo spesso
tendiamo a dimenticare» e che è, secondo le Sacre Scritture, inseparabile dalla
resurrezione di Cristo. E a sostegno di ciò, Pietro II, alias Sergio Quinzio,
cita – tra le altre – le parole di San Paolo: «Ora, se si predica che Cristo è
risuscitato dai morti, come possono dire alcuni di voi che non esiste
resurrezione dei morti? Se non esiste resurrezione dei morti, neanche Cristo è
risuscitato!». La resurrezione è poi da intendersi alla lettera, cioè
come resurrezione della carne, poiché
Cristo, una volta risorto, si è manifestato non come puro spirito, ma ha
parlato, camminato e mangiato con i suoi discepoli. «La resurrezione dei morti
– afferma Quinzio – è quanto di più difforme si possa immaginare
dall’esperienza comune e dalle ragionevoli aspettative umane», eppure «questa è
la promessa di Cristo», che ancora viene invocata nella preghiera per eccellenza,
il Padre Nostro («venga il tuo regno»), e confermata nel Credo («aspetto la
resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà»).
Ed è proprio qui, in questa promessa
escatologica, che si attua e si compie il telos della storia,
coincidente con la sua stessa fine e con l’inizio del regno messianico di
giustizia e verità. Ed è soprattutto qui, in questa speranza di nuovi cieli e
di nuova terra, che risiede – o dovrebbe risiedere – la fede cristiana, il suo
scandalo nei confronti della ragione e del mondo. Quinzio constata la reticenza
della Chiesa al riguardo, tanto che parla di apostasia: «L’apostasia della
Chiesa consiste nel porre se stessa come regno di Dio già in atto», cioè essa
stravolge la fede «più o meno consapevolmente in ciò che fede non è», riducendo
ad etica la salvezza escatologica, «anziché riconoscere e attendere l’umanamente
incredibile miracolo di Dio». Inoltre afferma – sempre per bocca dell’ultimo
papa – che «dichiarare che il peccato è già cancellato dal sangue di Cristo,
pur vedendolo crescere a dismisura intorno a noi, questa è la suprema menzogna».
Perché, allora, questo venir sempre
meno, da parte della Chiesa, al depositum fidei, questa debolezza
nei confronti della fede, che pare un fallimento o addirittura
ormai una impossibilità al cospetto dell’odierno dominio
anticristico della tecnica? E come interpretare il silenzio di Dio,
dopo più di duemila anni? Perché lo sconsolante ritardo rispetto all’antica
promessa di redenzione e il conseguente permanere del male nel mondo? Perché
ancora tanto dolore, tanta sofferenza, tanta ingiustizia? Perché la sete di
pace e di verità non è stata ancora placata?
Quinzio fa scrivere a Pietro II, alla
fine dell’ultima enciclica: «La Chiesa di Cristo, che è il suo corpo (cfr. Ef
1, 23), deve seguire la sorte di Gesù Cristo che ne è il capo (cfr. Ef 1, 22),
deve cioè seguirlo nella morte, e come lui essere crocifissa nel mondo. Deve
anch’essa morire nella storia per risuscitare poi come il suo Signore ed
entrare con Lui nella gloria del Padre».
Cercare una risposta alle precedenti
domande è stato l’impegno costante di Quinzio, è stata la sua tenacia,
nonostante la solitudine e la disperazione, nonostante le questioni irrisolte,
e tutta la debolezza del suo essere qui, nel mondo. E la sua bellissima
affermazione: «Vivere e morire sono fatti più veri di qualunque costruzione
intellettuale» denuncia quella «sofferenza per la parola scritta», evidenziata
da Massimo Cacciari a proposito del conflitto non risolto in Quinzio tra
l’urgenza di una parola viva e il tormento incessante della
sua ricerca (Massimo Cacciari, Apocalittica di Sergio Quinzio, in
AA.VV., Sergio Quinzio. Apocalittica e modernità,
Editrice CENS, 1998, p. 115).
L’attesa delusa davanti alla lontananza
di Dio e, al tempo stesso, la consapevolezza del male nella storia e nel mondo,
forse possono trovare, nel pensiero di Quinzio, una spiegazione plausibile solo
nella kenosys, cioè nella perdita di potenza da parte di Dio fin
dalla creazione e incarnata poi in Cristo, nella sua morte atroce per una
salvezza a tutt’oggi incompiuta. Un tentativo – questo – di dare una risposta
alla famosa domanda di Hans Jonas nel suo libro Il concetto di Dio dopo
Auschwitz: «Quale Dio ha permesso che ciò accadesse?». E la nostra libertà,
allora, non potrebbe rapportarsi, in qualche modo, all’impotenza divina?
Il cristianesimo tragico di
Sergio Quinzio ha mantenuto sempre vive queste domande, insieme a un
rapporto sofferto con la Chiesa, da cui non si è mai
allontanato, nonostante le sue critiche: «Sono nato cattolico e giungo alla
fine della mia vita cattolico. Si può morire di superbi sbadigli, senza neppure
accorgersene, ma la morte autentica è quella di chi si accorge di morire non
metaforicamente, e si chiede disperato, a imitazione del suo Signore: “Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?”»
Mauro Germani