Fotografia di Dino Ignani
In ricordo di Mario Benedetti (1955-2020), pubblico questa mia nota critica relativa al suo ultimo libro Tersa morte (Mondadori, 2013), edita in Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (La Vita Felice, 2014).
Ci conoscemmo nel 1989,
quando lui dirigeva, insieme a Stefano Dal Bianco e Fernando Marchiori, la
rivista “Scarto Minimo”. Mi
colpì subito nei suoi versi e nella sua persona un’autenticità silenziosa e
sofferta, che diceva della fragilità dell’esistenza, un’irrequietudine e una
sconfitta dentro e oltre la parola.
Nella
poesia di Mario Benedetti la parola appare indifesa, come ad ammettere una
sconfitta, una resa nei confronti di ciò che è accaduto e sta accadendo
nell’atto stesso della scrittura. Qualcosa si è perso, qualcosa si perde
continuamente. I versi si fermano lì, avvengono al culmine di una tensione
estrema e dicono che di più non possono, che sono così, ai bordi
dell’inesprimibile. E l’inesprimibile è proprio la vita, la stessa enigmatica
identità di chi scrive, di chi guarda a sé e a quelle parole come a una
perdita, a un addio. Ciò che rimane è la voce abbandonata di un’assenza, tutta
la povertà di una fine che va compiendosi nel dire.
È
questa la ferita mortale dei versi di Benedetti, quella solitudine fra
solitudini, quell’estraneità che parla in tutti, nel mondo, nelle cose, e fa
male. Quell’estraneità che è nel nostro sosia, colui che guarda, quando “la
vita ha deciso”.
La
nudità dell’esistenza tocca la pagina, il pudore dei versi, quei frammenti di
ciò che è stato. Così restano, carichi del loro silenzio e del loro dolore, gli
affetti familiari, le figure del padre, della madre e del fratello, nella
consapevolezza che “le parole non sono per chi non c’è più”, che la scomparsa
ora è qui, è chiara, è per sempre, anzi c’era già, solo che era nascosta nella
semplicità dei gesti più comuni, degli sguardi, delle voci, delle cose: “E ogni
vita / era questo: interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà
più o è già stato”.
Ecco
dunque emergere un’impossibilità, un’appartenenza lacerata e lacerante,
qualcosa che reca in sé il segno della fine, quell’incompiutezza o
inadeguatezza esistenziale che emerge dalla poesia di Benedetti: “Il mio nome
ha sbagliato a credere nella continuità / commossa, i suoi luoghi intimi
antichi, la mia storia. / Le parole hanno fatto il loro corso”.
L’umana gloria con le sue fatiche e
“l’umiltà / delle cose minute”, con i suoi affetti e le sue vicende marginali,
è destinata alla perdita, allo smarrimento, a una distanza che Benedetti sa nel suo dire inerme eppure così toccante.
Si veda l’attenzione ai particolari, ai dettagli che appaiono improvvisi sulla
pagina nella loro nuda verità, come ultimi fotogrammi prima della scomparsa
nella lontananza che li aspetta.
La
coscienza della morte, del lutto che è in noi e ci accompagna, diviene un
assedio silenzioso (“Sono questo, questa mortalità / che mi assedia / che si
concentra negli occhi, nelle mani”) che annulla il reale e il suo senso e
talvolta persino la morte stessa (“evapora il morire”), mentre rimane lo stupore
di essere ancora qui, nonostante tutto (“Si vive ancora, sì, si vive ancora”),
fra l’esistenza e la parola. Una parola che manca: “Ma io nella mia vita non ho
scritto nessuna poesia, / io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E
questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta”).
Mauro Germani