Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, Rizzoli, 2018
La lettera di Lord
Chandos, che Hofmannsthal scrisse nel 1902, rappresenta una
rinuncia, una resa della letteratura
davanti alle forze oscure ed incontrollabili che dominano l’esistenza. Il
protagonista, infatti, decide di abbandonare la scrittura perché avverte la sconfitta della parola rispetto a ciò
che quotidianamente lo assale, travolgendo i suoi pensieri e le sue emozioni.
L’esperienza
interiore si rivela così intraducibile
non solo mediante una parola razionale ed ordinatrice della realtà, ma anche attraverso
forme espressive più libere, inerenti cioè alla scrittura letteraria.
È
questa una problematica cruciale che non può essere ignorata qualora si intenda
affrontare sinceramente la funzione del linguaggio e della parola. Mitizzare
quest’ultima, attribuendole – soprattutto in poesia – capacità divinatorie o terapeutiche o salvifiche,
oppure avvolgendola in un’aura assoluta,
aldilà del bene e del male, e collocandola in una dimensione totalmente altra, non significa rendere un bel servizio alla stessa scrittura, che non
è (o non dovrebbe essere) astratta composizione, né semplice esercizio di stile
o di maniera.
La
parola nasce dall’esistenza e di
quest’ultima deve recare i segni, le ferite, le tensioni, gli abissi oscuri
che la contraddistinguono. Una fiducia eccessiva
nella scrittura comporta una considerazione della medesima pacificata, come se fosse semplicemente speculare al pensiero o
alla realtà o al nostro spirito, con
la conseguenza da parte di chi scrive di una ridotta volontà di ricerca, che
paradossalmente coincide spesso con la presunzione di dire, o di salvare, o di
rappresentare senza alcuna tensione esistenziale, senza alcuna lacerazione, il reale nelle sue
molteplici manifestazioni. Ma pensiero e linguaggio, corpo e parola, esperienza
vissuta e scrittura sono sempre in lotta, sempre in combattimento. E questo lo scrittore dovrebbe saperlo ed il
lettore dovrebbe avvertirlo.
Nella
sua lettera, Lord Chandos afferma: “La lingua in cui mi sarebbe dato non solo
scrivere, ma forse anche di pensare non è né il latino, né l’inglese, né
l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua, delle cui parole non una mi è nota,
una lingua in cui mi parlano le cose mute”. E questa atroce impossibilità lo induce al silenzio, confessando al destinatario della lettera, Francesco Bacone, di avere perduto completamente “la capacità di
pensare o di parlare in maniera coerente e logica su qualsiasi argomento”. Ogni
cosa si spezza, si frantuma e le singole parole gli fluttuano intorno:
“divenivano occhi che mi guardavano fissi e che io, a mia volta, mi sento
costretto a fissare: sono gorghi, che a guardarli mi danno le vertigini, che
girano vorticosamente senza posa, e una volta attraversati i quali si approda
nel vuoto”.
Come
scrive Claudio Magris nell’introduzione al volume, questo breve testo di
Hofmannsthal “costituisce un manifesto del deliquio della parola e del
naufragio dell’io nel convulso e indistinto fluire delle cose non più
nominabili né dominabili dal linguaggio; in tal senso il racconto è la geniale
denuncia di un’esemplare condizione novecentesca”.
Tale
condizione – aggiungiamo noi – non smette di interrogarci ancora oggi, nel
momento in cui ci accingiamo ad affrontare la scrittura, che – come ha
affermato Blanchot a proposito di Kafka e dell’enigma dell’opera - “non
potrebbe avere la propria origine che nella vera disperazione, quella che non
invita a niente e allontana da tutto, e per prima cosa, toglie la penna di mano
a chi scrive”.
Mauro Germani