Marco Triana, Nilhotel, Gilgamesh Edizioni 2017
In Nilhotel
di Marco Triana la scrittura è tutt’uno con il pensiero: la prima, infatti, pensa ed il secondo scrive in un processo osmotico, che sembra essere per il
protagonista l’unica forma di sopravvivenza possibile. Chi narra, infatti, in
questo “non romanzo”, in questo libro anomalo e fortunatamente controcorrente,
per la tensione costante di scrittura e pensiero, è soprattutto un io che non
smette mai di ragionare su stesso e sul proprio passato; un io, cioè, che
avverte un’urgenza insopprimibile di
interrogare l’esistenza e l’esistente,
ed anzi cerca di smantellarli, di
ridurli – con la riflessione e con la parola, appunto - allo scheletro terribile
e minato che pare sorreggerli; un io – ancora – che mediante un’operazione estrema mira a togliere ogni maschera possibile, ogni apparenza ed
ogni inganno alla ricerca della nudità del vivere, fino a percepirne l’intima tragedia, il suo nulla radicale.
Bruno,
la persona che ci parla nel suo ininterrotto monologo, tra passato e presente,
mentre si reca in treno da Grosseto a Firenze per partecipare ai funerali del
cugino Michele morto suicida, annota i suoi pensieri su un taccuino nero per
fermarli sulla carta in tutta la loro crudele e spesso paradossale verità.
Pensiero e parola, qui, procedono inarrestabili e inseparabili, dettati dalle
contraddizioni insanabili dell’esistenza, dal nostro disperato essere nel mondo, tra meschinità e recita, perché in fondo siamo quasi sempre in fuga da noi stessi e dal
nostro spavento.
La
morte del cugino dà l’avvio ad una catena di pensieri che, grazie allo scavo
implacabile e progressivo della ragione, mettono in discussione non solo la vita del
protagonista e delle persone da lui conosciute, ma abbattono anche tutte le
false certezze della nostra esistenza, i miti e le ipocrisie sociali, le
illusioni e le menzogne pseudo-culturali del nostro tempo e del nostro Paese
(“questo luna-park della Storia sorto
sulle ceneri della memoria”) in un sovvertimento continuo che non dà tregua all’intelligenza
del lettore.
La
voce del protagonista è scandita da osservazioni, intuizioni e considerazioni
che annientano, cioè mostrano il
vuoto e la miseria che sovente il consesso
umano nasconde nel teatro del mondo. E’ proprio ciò che accade dietro le quinte che interessa al
protagonista, scoprire il fuori scena della
sua ed altrui esistenza, a cominciare dal suicidio del cugino, il quale “aveva
messo in atto, nell’arco di un’intera esistenza durata più di mezzo secolo,
ogni stratagemma possibile per discendere
e in definitiva inaridirsi”. Il cugino,
prima bambino intelligente “presto abbandonato dal padre e trascurato dalla
madre”, poi adulto dedito all’annientamento di sé, lascia una lettera in cui
chiede che sia proprio Bruno, il protagonista, a pronunciare il discorso
funebre in suo onore. E a partire da questa enigmatica figura - che col suo ultimo gesto “ha voluto incolpare
i suoi cosiddetti cari, cosiddetti amici e cosiddetti parenti” perché “un
suicidio, qualunque suicidio, è sempre un atto d’accusa verso il mondo intero”
- iniziano le riflessioni che compongono
tutto il libro e che divengono per il protagonista l’occasione per rivedere la
propria esistenza e sottoporla ad un’analisi spietata. Emerge così il ricordo della relazione fallimentare ed
ormai conclusa con Isabella, donna simile ad “un guscio vuoto”, come molti
“pseudo-esseri” che “hanno coscientemente scelto di non essere, di non
partecipare all’essere e di non evolvere”, incapaci di un vero pensiero, con le
loro “risposte automatiche, sintomatiche e in definitiva perfettamente
prevedibili”, ed ora per il protagonista finalmente “simbolo d’odio”, “un odio
catartico, un odio che è uno sguardo lineare sul mondo, al tempo stesso una
spada e uno scudo”. E, a poco a poco, si
delinea nel libro il tema centrale dell’abbandono,
connaturato alla stessa nostra esistenza, che può di volta in volta assumere le
varie forme dell’essere abbandonato,
dell’abbandonare e dell’abbandonarsi: le prime due vissute dal
protagonista e l’ultima dal cugino
suicida. In realtà Bruno, l’io narrante, aspira alla purezza che però risulta impossibile, in quanto – come egli stesso
afferma - “non c’è scampo per chi cerca
in qualche modo la purezza, egli è
costretto a rinunciare in primis ai
sentimenti, se non vuole che questi vengano stravolti in sentimentalismo
dall’ottusità dilagante in cui il cercatore di purezza si sente annegare”. Così
l’abbandonare si rivela per lui
l’unico mezzo per preservare ciò che altrimenti andrebbe irrimediabilmente in rovina: è questo il paradosso
esistenziale che alla fine suggella il rapporto con Lucette, la quale ama,
comprende ed accetta il protagonista, ma allo stesso tempo è cosciente della
solitudine di ogni essere umano e della contraddizione
dell’amore, quella “contraddizione di una solitudine condivisa eppure
inestinguibile”, a cui ogni coppia è condannata. E l’immagine del Nilhotel,
alla fine del libro, si staglia come un simbolo inequivocabile del solipsismo del protagonista, della sua estraneità davanti alla miseria del
mondo.
Marco
Triana ci consegna un’opera complessa che non è puro esercizio come molte in
circolazione. La sua scrittura, indubbiamente debitrice di quella di Thomas
Bernhard, riesce tuttavia ad incarnare un pensiero proprio e in definitiva
autentico con una lucidità che non teme di spalancare l’abisso dell’esistenza.
Mauro Germani