venerdì 24 febbraio 2017

Marco Triana - Nilhotel



Marco Triana, Nilhotel, Gilgamesh Edizioni 2017

In  Nilhotel di Marco Triana la scrittura è tutt’uno con il pensiero: la prima, infatti, pensa ed il secondo scrive in un processo osmotico, che sembra essere per il protagonista l’unica forma di sopravvivenza possibile. Chi narra, infatti, in questo “non romanzo”, in questo libro anomalo e fortunatamente controcorrente, per la tensione costante di scrittura e pensiero, è soprattutto un io che non smette mai di ragionare su stesso e sul proprio passato; un io, cioè, che avverte  un’urgenza insopprimibile di interrogare l’esistenza e l’esistente, ed anzi cerca di smantellarli, di ridurli – con la riflessione e con la parola, appunto - allo scheletro terribile e minato che pare sorreggerli; un io – ancora – che  mediante  un’operazione estrema mira a togliere ogni maschera possibile, ogni apparenza ed ogni inganno alla ricerca della nudità del vivere, fino a percepirne l’intima tragedia, il suo nulla radicale.
Bruno, la persona che ci parla nel suo ininterrotto monologo, tra passato e presente, mentre si reca in treno da Grosseto a Firenze per partecipare ai funerali del cugino Michele morto suicida, annota i suoi pensieri su un taccuino nero per fermarli sulla carta in tutta la loro crudele e spesso paradossale verità. Pensiero e parola, qui, procedono inarrestabili e inseparabili, dettati dalle contraddizioni insanabili dell’esistenza, dal nostro disperato essere nel mondo, tra meschinità e recita, perché in fondo siamo quasi sempre in fuga da noi stessi e dal nostro spavento.
La morte del cugino dà l’avvio ad una catena di pensieri che, grazie allo scavo implacabile e progressivo della ragione, mettono  in discussione non solo la vita del protagonista e delle persone da lui conosciute, ma abbattono anche tutte le false certezze della nostra esistenza, i miti e le ipocrisie sociali, le illusioni e le menzogne pseudo-culturali del nostro tempo e del nostro Paese (“questo luna-park  della Storia sorto sulle ceneri della memoria”) in un sovvertimento continuo che non dà tregua all’intelligenza del lettore.
La voce del protagonista è scandita da osservazioni, intuizioni e considerazioni che annientano, cioè mostrano il vuoto e la miseria che sovente il consesso umano nasconde nel teatro del mondo. E’ proprio ciò che accade dietro le quinte che interessa al protagonista, scoprire il fuori scena della sua ed altrui esistenza, a cominciare dal suicidio del cugino, il quale “aveva messo in atto, nell’arco di un’intera esistenza durata più di mezzo secolo, ogni stratagemma possibile per discendere e in definitiva inaridirsi”. Il cugino, prima bambino intelligente “presto abbandonato dal padre e trascurato dalla madre”, poi adulto dedito all’annientamento di sé, lascia una lettera in cui chiede che sia proprio Bruno, il protagonista, a pronunciare il discorso funebre in suo onore. E a partire da questa enigmatica figura -  che col suo ultimo gesto “ha voluto incolpare i suoi cosiddetti cari, cosiddetti amici e cosiddetti parenti” perché “un suicidio, qualunque suicidio, è sempre un atto d’accusa verso il mondo intero” -  iniziano le riflessioni che compongono tutto il libro e che divengono per il protagonista l’occasione per rivedere la propria esistenza e sottoporla ad un’analisi spietata. Emerge così  il ricordo della relazione fallimentare ed ormai conclusa con Isabella, donna simile ad “un guscio vuoto”, come molti “pseudo-esseri” che “hanno coscientemente scelto di non essere, di non partecipare all’essere e di non evolvere”, incapaci di un vero pensiero, con le loro “risposte automatiche, sintomatiche e in definitiva perfettamente prevedibili”, ed ora per il protagonista finalmente “simbolo d’odio”, “un odio catartico, un odio che è uno sguardo lineare sul mondo, al tempo stesso una spada e uno scudo”.  E, a poco a poco, si delinea nel libro il tema centrale dell’abbandono, connaturato alla stessa nostra esistenza, che può di volta in volta assumere le varie forme dell’essere abbandonato, dell’abbandonare e dell’abbandonarsi: le prime due vissute dal protagonista  e l’ultima dal cugino suicida. In realtà Bruno, l’io narrante, aspira alla purezza che però risulta impossibile, in quanto – come egli stesso afferma -  “non c’è scampo per chi cerca in qualche modo la purezza, egli è costretto a rinunciare in primis ai sentimenti, se non vuole che questi vengano stravolti in sentimentalismo dall’ottusità dilagante in cui il cercatore di purezza si sente annegare”. Così l’abbandonare si rivela per lui l’unico mezzo per preservare ciò che altrimenti andrebbe irrimediabilmente in rovina: è questo il paradosso esistenziale che alla fine suggella il rapporto con Lucette, la quale ama, comprende ed accetta il protagonista, ma allo stesso tempo è cosciente della solitudine di ogni essere umano e della contraddizione dell’amore, quella “contraddizione di una solitudine condivisa eppure inestinguibile”, a cui ogni coppia è condannata. E l’immagine del Nilhotel, alla fine del libro, si staglia come un simbolo inequivocabile del solipsismo del protagonista, della sua estraneità davanti alla miseria del mondo.
Marco Triana ci consegna un’opera complessa che non è puro esercizio come molte in circolazione. La sua scrittura, indubbiamente debitrice di quella di Thomas Bernhard, riesce tuttavia ad incarnare un pensiero proprio e in definitiva autentico con una lucidità che non teme di spalancare l’abisso dell’esistenza.
Mauro Germani