Il rapporto tra arte e vita è al centro di questo romanzo di Thomas Bernhard, che è una sorta di doppio monologo, ovvero la testimonianza di due voci che si intrecciano tra loro: quella dominante di Reger, vecchio critico musicale, e di Atzbacher, scrittore e filosofo, il quale riporta i pensieri del primo, trascrivendo un verbale non solo senza destinatario, ma anche così fluido che la sua voce sembra divenire l’eco della prima.
Assistiamo pertanto, ancora una volta ad un gioco di voci, anzi di voci di voci, come sovente accade in Bernhard. E questo allo scopo – ci pare – di collocare la parola stessa in una dimensione ambigua o ambivalente, attraversata da contraddizioni senza scampo, tra vanità e tenacia, destino di annullamento e volontà di affermarsi nella disperazione dell’esistenza.
Il
vecchio Reger, che è poi il personaggio centrale della storia, ha la
sconcertante abitudine di recarsi, al mattino, da più di trent’anni,
un giorno sì ed un giorno no, al Kunsthistorisches Museum e sedersi
su una panca davanti all’Uomo dalla barba bianca
di Tintoretto, per via – come egli stesso sostiene – della
temperatura ideale che regna nella Sala Bordone che ospita il
dipinto. Egli ha tutte le caratteristiche tipiche dei personaggi di
Bernhard: misantropo, disperato, ragionatore instancabile,
anticattolico, cultore della propria arte,
vittima di una logorrea drammatica e ripetitiva fino al grottesco e
al paradosso, perennemente in opposizione al mondo. Le sue parole ed
i suoi pensieri sono riportati dallo scrittore-filosofo, a cui Reger
ha dato un appuntamento al Museum, ma che giunge volutamente un’ora
prima dell’ora stabilita per spiare e capire meglio il vecchio
critico. Chi spia è
dunque colui che scrive, è l’altra voce che altrimenti non
esisterebbe, tuttavia chi è spiato vive
solo nello sguardo e nelle parole di chi parla o scrive. Due
esistenze precarie – potremmo dire – dentro un gioco di
rifrazioni che
sottende il nulla. Ed a questa dimensione non sfuggono nemmeno la
cultura e l’arte, come emerge dai discorsi di Reger. Chi sono,
infatti, gli Antichi Maestri? Sono i cosiddetti grandi,
coloro che con il loro ingegno e la loro creatività in svariati
campi, dalla pittura alla musica, dalla letteratura alla filosofia,
hanno realizzato opere considerate capolavori immortali. Eppure,
secondo Reger, i loro lavori, pur nella loro eccellenza, non salvano
nessuno, non sono affatto
perfetti e quasi
tutti, a ben studiarli nei particolari, possono apparire addirittura
ridicoli, proprio come
gli esseri umani. Il vecchio critico, rimasto ormai vedovo, non ha
trovato alcuna consolazione dopo la perdita dell’amatissima moglie
: “ […] nonostante tutti gli spiriti magni e gli Antichi Maestri
che ci siamo scelti come compagni di strada, essi non
potranno mai sostituire un essere umano,
così Reger, alla fine sono soprattutto questi cosiddetti
spiriti magni e questi cosiddetti Antichi Maestri che ci abbandonano,
e ci accorgiamo che gli spiriti magni e gli Antichi Maestri si fanno
addirittura beffe di noi nella maniera più infame...”. Tra
l’arte e l’esistenza, dunque, resta una frattura insanabile,
perché quest’ultima è contrassegnata da una verità dolorosa e/o
insensata, che è ben oltre la dimensione, in fin dei conti
illusoria, di ogni
espressione artistica ed ogni pensiero.
Tutto
il romanzo di Bernhard è il succedersi senza posa ed estremo
delle parole e delle ossessioni di Reger, in una disperazione di
fondo che – nella sua rappresentazione reiterata e maniacale – è
caratterizzata da una particolare dimensione ai limiti del grottesco
e dell’assurdo, che può anche “divertire”, come una sorta di
humor nero (da cui il sottotitolo Commedia).
A questo proposito vale la pena di citare, tra le altre, alcune
affermazioni di Reger, riguardanti Heidegger (“in Heidegger mi ha
sempre disgustato tutto”), il “crimine della procreazione”
(“Fare un figlio oppure, come si suol dire con tanta ipocrisia,
dargli la vita, non significa altro che portare nel mondo e mettere
al mondo una infelicità palese, e di fronte a questa infelicità
palese tutti i genitori rimangono sgomenti”), l’infanzia (“se
non usciamo abbastanza presto dal buco dell’infanzia, da questo
buco nero, insomma, non ne usciamo più”), la sua idiosincrasia
verso il sole (“detesto il sole più di ogni altra cosa al mondo”),
l’importanza della pulizia dei gabinetti (“I viennesi e gli
austriaci in genere non hanno affatto la cultura della toilette, in
tutto il mondo lei non troverà dei gabinetti luridi e puzzolenti
come a Vienna”). C’è poi la denuncia del degrado della società,
della corruzione politica, della letteratura del proprio paese e
delle letture pubbliche (“Lo scrittore che sale sul podio pubblico
per leggere a voce alta la propria merda opportunista, se anche la
cerimonia si svolgesse nella Paulskirche di Francoforte, non è altro
che un miserabile guitto”), dello stato austriaco, della Chiesa
cattolica, fino ad inglobare la condanna del mondo intero: “Il
mondo e l’umanità si trovano ormai in uno stato infernale, uno
stato che, nella loro storia, il mondo e l’umanità non avevano mai
raggiunto”.
Antichi
Maestri, uscito nel 1985, è
l’opera nella quale Bernhard, quattro anni prima della sua morte,
rivela in modo esplicito e definitivo,
attraverso il proprio inconfondibile stile, il suo pensiero nei
confronti dell’arte, della cultura e dell’esistenza.
Mauro
Germani
Altri articoli su Thomas Bernhard presenti su questo blog: