Luca Lanfredi, Il coraggio necessario, Lamantica Edizioni, 2019
In
continuità con la raccolta precedente, Il
tempo che si forma (L’arcolaio, 2015), Luca Lanfredi ci consegna una poesia
sommessa, incrinata dal vuoto, e al
tempo stesso segnata dall’esistenza, dove la parola appare senza enfasi alcuna,
tra luce ed ombra, in momenti appena accennati, in “scatti brevi”, in movenze
incerte tra passato e presente, “da una crepa di voce”. La pagina sorprende
istanti e pensieri che attendono o
che sono attesi, come se il loro
manifestarsi fosse l’approssimarsi di qualcosa di ineluttabile o la conseguenza
d’altro, un affiorare lento alla
coscienza di una condizione esistenziale, di un disincanto: “la luce che ancora si frappone tra la distanza / e il
guado che l’annienta”.
C’è
spesso un prima e un dopo nei versi di Lanfredi: qualcosa che
è accaduto una volta per sempre e che segna una sorta di confine più o meno
sottile o marcato tra ciò che è lontano ed ormai sembra indicibile, in cui “ci
si era solamente esercitati / a essere giovani, a dissetarsi, a / assolversi”,
e ciò che si constata nel presente, perché “si entra nel tempo dei vuoti,
adesso”. Un tempo prima del tempo,
dunque, e un tempo vero, qui ed ora, sospeso ed esitante, dilaniato,
o quasi cancellato da una fine - ma
che comunque chiama: “Scorro le immagini al contrario, / iniziando da quelle
più scure. / Dovrei darmi da fare, mi dici”: è lo stallo di chi non sa trovare
un “vivere assoluto”, iniziare il suo
giorno. O come chi cerca altrove se stesso e dice a tutti e a nessuno: “Né qui
né lì”, perché la vita è cambiata, “è vita d’altra cosa”, e la propria
inettitudine, la propria mancanza diventano una fuga impossibile, una fuga da fermo.
È
inoltre possibile cogliere nei versi un tu
ed un noi: presenze sfumate, appena
accennate nelle loro scarne espressioni e nei loro semplici gesti, in un pudore
che è scrittura sottratta eppure incisiva nella sua frammentarietà, ad indicare
uno spazio da colmare nei tentativi della vita, negli affetti che vogliono
esistere, a dispetto di un destino sradicato e nella segreta speranza di “aprire
alla terra le parole”, come dice il titolo di una sezione del libro.
Lanfredi,
con la sua poesia, accosta ed allontana, mette a fuoco e dissolve.
La
sua è una voce che risuona da una distanza ed arriva fin dove qualcosa è
successo, ma nella pronuncia si frange, declina, s’inabissa. In movimenti
lenti, quasi impercettibili, i versi si aprono e si chiudono, lasciando tracce
che sono, di volta in volta, rivelazioni d’esistenza, trasalimenti, ipotesi di
realtà, domande o misteriose verità capovolte, come in una pellicola in cui i
soggetti escono improvvisamente fuori campo, eppure qualcosa resta della loro
presenza: un’ombra, una voce, un gesto. Ed è proprio attorno a ciò che resta
che ruotano i versi di Luca Lanfredi: essi sono le conseguenze di una sparizione, e la parola – per il
poeta, ma in fondo per tutti noi – diventa un fantasma inafferrabile.
La
sezione intitolata La città vecchia è
attraversata da domande e da un’assenza percepita come distanza fra sé e sé:
“Non ho mai detto di me: ho solo scritto”, in uno sdoppiamento tra vita e
scrittura, o in un ritardo tra parola e tempo: “Come mai? Come mai / è sempre
tanto tardi?”. La città, che “dicono” vecchia, conserva il passato ed è simile
ad un linguaggio murato nel presente, ad una contraddizione insolubile di
salvezza e di perdizione: “Chi vive non è mai salvo. / Chi vive non è perduto”.
Questo a significare l’enigma dell’esistenza, dove il prima, il dopo e l’ancora sfumano nei versi i contorni del
reale, del tempo e della stessa città, che forse è anche uno spazio letterario, al pari della poesia che
“parla dei morti / come di quelli che non lo sono / più”, perché chiamati o addirittura divenuti essi
stessi parola sfuggente e misteriosa.
E
a questo punto – per meglio comprendere l’approccio alla poesia di Lanfredi –
possono risultare illuminanti le parole di Maurice Blanchot, quando afferma che
la scrittura poetica “non è data al poeta come una verità e una certezza a cui
accostarsi; egli non sa se è poeta, ma non sa neanche che cosa è la poesia, e
neppure se è; essa dipende da lui, dalla sua ricerca, dipendenza che tuttavia
non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di se stesso e
come inesistente”.
La
riflessione di Blanchot bene si accosta al modo d’essere e al sentimento poetico di Luca Lanfredi,
alla sua poesia solitaria, così lontana – per nostra fortuna – da quella
spettacolarizzata e vanamente e narcisisticamente promossa sui social network
da tanti, troppi autori
contemporanei. Perché Lanfredi sa che la poesia ha bisogno di silenzio, di lavoro
lungo e paziente: essa è misteriosa, c’è e non c’è, va chiamata ed ascoltata e
non le si addicono i clamori, ed i poeti veri – poi – che sono pochissimi, non devono che assecondarla con la loro
esistenza marginale, proprio come fantasmi
d’Altro.
Così
questa mancanza, questa dimensione di non appartenenza o di sostanziale
ambiguità tra l’atto dello scrivere ed il poeta stesso, ha il corrispettivo in
Lanfredi in una più vasta condizione esistenziale, vale a dire in quella terra di mezzo abitata dai suoi versi,
nei quali chi parla, chi appare e scompare è nel tempo, è caduto nel tempo,
tra un passato in parte ignoto ed un presente assediato dal nulla.
Non
si sa se in questo scenario di privazione potrà succedere davvero qualcosa,
magari una “vita nuova” o un’infanzia fondante, rigeneratrice. Ciò che resta,
ora, è “l’essere ultimo di un durevole vuoto”, la volontà di capire ciò che
manca o che svanisce allo sguardo interrogante: “Che si abbia / il coraggio
necessario per vivere o morire / in quest’assenza”.
Mauro Germani