Ripropongo
un mio vecchio racconto, apparso sulla rivista “Quinta
generazione” nel 1986 (Anno XIV;
luglio –agosto, n. 145 / 146).
IL
GUARDIANO
Sono
il guardiano di una zona abbandonata, un oscuro confine dove tutto sembra già
avvenuto e già perso.
Con
la mia vecchia lanterna – ad intervalli pressappoco regolari – ispeziono
inutilmente ogni punto di questo territorio deserto che qualcuno forse deve
avermi affidato. Compio azioni sempre uguali, obbedendo ad un rituale che
ignoro, ma a cui stranamente non posso rinunciare. Sento che il mio dovere è
restare in questa frontiera da cui non passa nessuno e che no so davvero che
cosa separi e dove porti. La mia vita trascorre nel rispetto dell’inutile e
assurdo compito che m’impongo ogni giorno. Da tempo non ricordo più niente di
me, nemmeno il mio nome.
Conosco
solo la nebbia che fin dalle prime ore dell’alba circonda questo posto
solitario e dimenticato. Dalla mia casupola vedo solo profili di rocce grigie
coperte di gelo. Le cime delle montagne sono quasi sempre nascoste dalla
foschia e spesso le nubi sono talmente basse che cielo e terra si confondono in
una massa opaca e uniforme.
Qui
– quando non compio i miei soliti giri di controllo – scrivo.
Mi
piace inventare storie impossibili, sogni in cui credere per qualche tempo,
poesie che sembrano incantesimi. Le parole mi prendono con la loro magia, mi
trascinano in una vertigine che credo sia la morte. Sì, quando scrivo muoio, ed
il vero artista è il mio provvisorio fantasma. Forse proprio l’esercizio
continuo della scrittura mi ha fatto perdere a poco a poco la memoria. Forse io
stesso ho preferito l’oblio e mi sono ritirato qui inventandomi un dovere da
assolvere. Forse, ancora, sono la vittima di un oscuro sortilegio a cui non
posso sfuggire.
Comunque,
mi sono abituato. Non so se sarei capace di vivere altrove. A volte mi sembra
di sentire l’eco di lontane musiche, sogno favolose città illuminate a festa
oltre la nebbia perenne, in valli immaginarie. Per qualche attimo mi prende la
voglia di andarmene e avventurarmi verso l’ignoto, ma poi – fatalmente –
rinuncio. Sono troppo stanco, troppo solo. “E se il mondo m’impedisse di
continuare a scrivere? ”, mi chiedo. I miei rituali quotidiani necessitano di
questo scenario inanimato e senza luci. La vita vera non è per me. Dovrei
uccidermi, lo so. Se ancora non l’ho fatto è per una strana forma d’obbedienza
o d’insolita cortesia (verso chi, poi?).
Così
mi sono rassegnato ad aspettare il mio momento, che tuttavia spero non tardi
molto. Nel frattempo – da infelice e anonimo custode – mi affido a questo nulla
e scrivo.