domenica 24 settembre 2017

Testo della conferenza "La parola dell'inconscio: sogno, vertigine e follia nella scrittura poetica" - XIII Fidenza PsicoFestival

PsicoFestival  2017


 Mauro Germani

La parola dell’ inconscio: sogno, vertigine e follia nella scrittura poetica

C’è una poesia di Giorgio Vigolo, poeta certamente da riscoprire, nato a Roma nel 1894 e morto nella stessa città nel 1983, intitolata Scrivere una poesia ed inserita nella raccolta La luce ricorda (Mondadori, 1967), che ci consegna alcune immagini piuttosto efficaci relative al mistero della scrittura poetica e alla sua genesi.

“Scrivere una poesia,
sempre è un colpo di mano sull’ignoto,
un penetrare svegli
nel mistero del sogno,
un prendere possesso della notte.”

In questi versi iniziali ci colpiscono alcune parole chiave: ignoto, mistero, sogno, notte, che sono tutte in stretta relazione con l’atto dello scrivere. Chi scrive, infatti, cerca di avvicinare l’ignoto perché attratto o spinto proprio da ciò che non conosce pienamente, inoltre penetra da sveglio il mistero del sogno ed entra così nella sua notte. Nella seconda strofa la poesia continua così:

“Aggiramento, azione di sorpresa
sulla nostra città profonda:
forzare la sua porta,
entrare fra le case addormentate,
scoprire il loro segreto.”

Il poeta è chiamato da un territorio misterioso che è la sua “città profonda”. È evidente come quest’ultima sia una metafora dell’inconscio. La scrittura poetica compie un’azione di “aggiramento” attorno alla dimensione inconscia dell’esistenza, rappresentata qui dalla “città profonda”, e cerca di  forzarne la porta per poter poi entrare  fra “le case addormentate” e “scoprire il loro segreto”. Questa città nascosta, quasi inaccessibile, avvolta dal buio della notte, ha indubbiamente un fascino straordinario per il poeta, perché egli sente che in essa è presente la parte oscura della propria esistenza, una verità altra di estrema importanza. Il segreto della “città profonda” è in fondo il segreto del poeta stesso.
E più avanti, Giorgio Vigolo afferma che una poesia “è un furto sacro / in cui si rischia la dannazione / o il bacio divino”. È interessante notare qui il concetto di “rischio” e l’ambivalenza legata alla poesia. Essa è un “furto sacro” perché il poeta-ladro cerca di rubare ciò che è nascosto, nell’abisso di sé, e questa operazione non è semplice o innocua perché comporta un mutamento interiore che può essere sconvolgente.
La “città profonda” di Giorgio Vigolo non è certo rassicurante, non è chiara, non è illuminata, non è ben definita, ma ha il fascino dell’ignoto, è in qualche modo sempre sfuggente, sempre lontana, eppure è anche del poeta, è anche nostra. Essa ci appartiene nella sua estraneità e potremmo definirla l’ossimoro della nostra esistenza, in quanto in noi e oltre noi, proprio come l’inconscio.
Queste considerazioni nate dalla lettura dei versi di Vigolo ci inducono a riflettere ulteriormente sulla poesia.
Che cos’è, allora, la poesia? Credo non si possa tentare di rispondere a questa domanda senza fare riferimento all’esistenza, al nostro essere-nel-mondo. Interrogare la parola poetica significa inevitabilmente interrogare noi stessi, cercare di penetrare ciò che ci determina, avvicinare il nostro mistero in tutte quelle componenti con cui abbiamo a che fare quotidianamente, vale a dire le nostre esperienze, il nostro pensiero, i nostri sentimenti, le nostre emozioni.
Poesia ed esistenza sono strettamente unite. Operare fra loro una separazione significherebbe ridurre la scrittura poetica ad un semplice gioco, oppure ad un mero esercizio di stile, ad una neutralità che non ha alcuna risonanza interiore, prima in chi scrive, poi in chi legge. Una poesia allontanata dai dilemmi dell’esistenza, dalle esperienze fondamentali come il dolore, la solitudine, la morte, l’amore o il rapporto con l’Altro ( per fare solo qualche esempio ), si caratterizza come una poesia che, nel migliore dei casi, fa appello unicamente all’intelletto e a certe abilità linguistiche fini a se stesse, una poesia cerebrale -potremmo dire – che non provoca la nostra esistenza, non ci coinvolge e alla fine non suscita niente dentro di noi.
In realtà la poesia, nelle sue espressioni più autentiche, non può lasciare indifferenti, ma si rivolge ad ogni parte di noi, ci interpella, ci scuote, ci pone in una condizione di ascolto, che ci fa anche cambiare.
Durante la lettura noi mutiamo. Si modifica la nostra capacità di percepire la realtà, il nostro sguardo non è più lo stesso. Certe luci, certe ombre, certi particolari prima insignificanti possono diventare importantissimi. Certe nostre emozioni, certi nostri sentimenti o certi nostri pensieri ed immagini possono rivelarsi improvvisamente, emergere per un poco dalla loro notte e parlarci come mai era successo. E questo a volte può anche spaventare. La poesia può essere anche spavento, quando ci pone davanti a realtà estreme, quando la parola poetica nella sua massima tensione ci avvicina all’abisso della nostra esistenza, a quanto di oscuro e di terribile si cela in noi.
Non posso a questo punto non fare riferimento ad una poesia di Giovanni Pascoli, intitolata La vertigine. Pascoli, il poeta del “fanciullino”, è stato anche e soprattutto, il poeta dello sgomento cosmico, della vertigine, dell’horror vacui, dell’abbandono dell’uomo nel mondo, della paura della vita.
L’inizio è molto potente:

“Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell’eterno vento;
voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.”

In questa poesia, pubblicata in “Rassegna contemporanea” del gennaio 1908 e poi confluita nella raccolta Nuovi poemetti del 1909, la coscienza dello sradicamento dell’uomo si manifesta in un horror vacui che tutto inghiotte e cancella, in un precipitare angoscioso e vano dell’esistente. Qui non c’è il senso del “dolce naufragar” leopardiano, ma piuttosto l’orrore della caduta, della voragine che si spalanca sotto e intorno a noi e ci immerge “nell’eterno vento”.
La poesia si apre proprio con lo spavento che Pascoli prova nei confronti degli uomini e della vita stessa. E i pronomi “voi” ed “io” rivelano tutta la solitudine del poeta che vive una sorta di sdoppiamento, in quanto è al contempo osservatore ed osservato: il destino degli uomini sull’“aerea terra” è anche il suo.
Questa immagine del vuoto, della terra sospesa nel vuoto e degli uomini che possono precipitare da un momento all’altro nel baratro del cielo e questo spavento improvviso ci rivelano la precarietà misteriosa della nostra esistenza. La parola poetica di Pascoli vuole esprimere lo sgomento abissale di fronte alla mancanza di gravità, in quanto per lui non ci sono appigli a cui aggrapparsi in “questa informe oscurità volante” che è la terra e la nostra stabilità è dunque solo un’illusione.
E a questo proposito potremmo accennare anche ad altre poesie di Pascoli, come ad esempio Il bolide, nella quale troviamo l’immagine del “cupo cielo”, che tutto inghiotte e che viene attraversato improvvisamente da una meteora:

“Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno
di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso
mi parve quanto mi parea terreno.”

Il mistero in Pascoli è l’horror vacui, il senso di vertigine che si può avvertire dentro la nostra esistenza: precipitare nel vuoto o essere travolti dal cielo che invade la terra. Ed è interessante sottolineare come questo sgomento cosmico non sia costantemente presente nell’opera di Pascoli, ma si trovi solo in alcuni componimenti, come se il poeta stesso avesse timore a rivelarlo: è, in qualche modo, l’altro Pascoli, quello in realtà più vero, in cui le paure inconsce legate all’esistenza finalmente si rivelano: nell’inconscio di Pascoli c’è indubbiamente questo vuoto.
A questo punto credo che occorra dire con chiarezza che la poesia non protegge e non ha protezioni.
Come ha affermato Edmond Jabès ,“dove non c’è rischio non c’è scrittura”. Questa frase ci rimanda ai versi citati all’inizio di Vigolo (“si rischia la dannazione / o il bacio divino”) e vale per sostenere un senso forte della poesia, un legame stretto tra scrittura poetica e destino, altrimenti tutto viene ridotto ad un gioco inutile e privo di senso.
La poesia espone ed è esposta. Essa – come tutti noi – è gettata nel mondo, non ha riparo, e dice spesso, o tenta di dire, ciò che altrimenti è impossibile, in una tensione estrema: quella appunto tra parola ed esistenza. La poesia, ancora, è fragile e potente al tempo stesso. Nasce ai bordi dell’inesprimibile ed il poeta – come ho avuto modo di ripetere spesso - è colui che vive in sé la frontiera, il margine, l’inquietudine di un’alterità inafferrabile che sente nell’ombra. Sperimenta sempre un’assenza e nel contempo ne ricerca la voce, una voce che da sempre tace nel suo dire, che si sottrae nel suo essere qui, nella carne e nel dolore dell’esistenza. E proprio questa tensione mai placata definisce a poco a poco lo spazio della scrittura poetica, una zona che è per noi lontananza ed intimità, spaesamento e familiarità, costruzione e maceria.
L’espressione poetica può essere legata (e spesso lo è) non solo a varie forme di sofferenza interiore e di disagio psichico, ma anche al mistero e all'enigma inquietante della psicosi e della follia. I poeti hanno a che fare – come abbiamo già sottolineato – con la parte oscura, inconscia dell’esistenza e questa a volte può essere devastante.
Emblematici sono i casi di alcuni poeti che, pur nella loro specifica diversità, hanno invocato la poesia come forma estrema ed assoluta della loro verità interiore, spesso in contrapposizione a quella del mondo, raggiungendo risultati di grande valore. Poeti, quindi, abitati, posseduti dalle immagini della loro psiche, immagini travolgenti che hanno trovato espressione sulla pagina scritta.
Tra questi vi è Friedrich Hölderlin (1770-1843), del quale ha scritto pagine illuminanti Maurice Blanchot.
Secondo quest'ultimo, Hӧlderlin “è stato capace di elevare fino al senso supremo – che è quello della poesia – le esperienze della malattia”. E se “la schizofrenia come tale non è creatrice”, bisogna aggiungere che “nelle sole personalità creatrici, essa è la condizione affinché le profondità si aprano”. Queste affermazioni si collegano a quanto sostiene Karl Jaspers in Genio e follia , quando scrive: “Così come una perla nasce dal difetto d'una conchiglia, la schizofrenia può far nascere opere incomparabili. E come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale di un'opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita”.
Certo è che Hölderlin dal 1801 al 1805, cioè nel periodo in cui si manifesta la malattia, lotta per raggiungere la pienezza del poema, l'inno, e per elevare ciò che Heidegger definisce “lo scuotimento del caos” alla poesia, avvertendo il pericolo del compito poetico che egli deve affrontare. E secondo Blanchot, il sacrificio del poeta si compie andando incontro all'Aperto, cioè alla “scaturigine originaria in cui tutto quel che appare si perde ma anche si fonda”. Il poeta non può che passare attraverso lo smarrimento e l'infelicità della mancanza, divenendo così un' ombra in attesa della parola:

“Ma se è molto l'evento
nulla opera, perché il cuore ci manca e siamo ombre...”

Tuttavia questo smarrimento è necessario e la notte del poeta si rivela come l'annuncio del giorno nuovo che si leva:

“Ma ora è il giorno! L'attesi, l'ho veduto venire.
Quello che vidi, il Sacro, sia la mia parola.”

In tutta la produzione poetica di Hӧlderlin domina il sogno panteistico, la perfetta unione di spirito e natura, equivalente al ritorno al Tutto indistinto originario (sogno di cui è protagonista Empedocle nella tragedia in versi scritta dal 1797 al 1800 e rimasta incompiuta, ma presente anche nel romanzo Iperione), sogno che viene poi pagato dal poeta con la sua stessa esistenza, la sua solitudine  e la sua malattia.
 A proposito del rapporto tra scrittura e inconscio, vale la pena soffermarsi su Aurelia, opera del poeta e narratore Gerard de Nerval, il quale porrà tragicamente fine alla propria esistenza nel 1855. Si tratta di un testo in prosa, ma con notevoli valenze poetiche. Esso si può considerare una sorta di diario spirituale, in cui l’autore descrive vari momenti della propria follia. L’incipit è quanto mai esplicito: “Il sogno è una seconda vita”. Infatti alla base di tutto il racconto vi è “l’effondersi del sogno nella vita reale” e la sensazione precisa che spiriti dell’al di là possano prendere forma nell’esistenza quotidiana. La scrittura di Nerval è la trascrizione ininterrotta di immagini-sogno che egli vive come reali, in una evidente situazione psicotica. Le figure dell’inconscio s’impossessano della vita di Nerval, la trasfigurano, la stravolgono, in un processo continuo che l’autore riesce però a descrivere non solo con estrema chiarezza e lucidità, ma anche con leggerezza. Scrive Nerval:
“Ma qual era mai l’essenza di quello Spirito che era me ed era fuori di me? […] Non mi era forse nota la storia di quel cavaliere che per tutta una notte in una foresta dové combattere contro uno sconosciuto che era se stesso? Comunque io credo che l’immaginazione umana non abbia inventato nulla che non sia vero, in questo mondo o negli altri, né potevo dubitare di quanto avevo veduto così distintamente.”
Come ha sottolineato Eugenio Borgna “nel contesto delle immaginazioni deliranti e delle esperienze allucinatorie si delineano in Aurelia esperienze di perdita della libertà e dell’autonomia dell’io. I confini fra l’io e il mondo, fra l’interno e l’esterno, si confondono e si annullano in un’osmosi permanente; e l’io si perde nel mondo e il mondo dilaga nell’io.” In Nerval l’inconscio rompe gli argini, si presenta in immagini ora luminose ed ora di morte e di desolazione (il sole nero, ad esempio) che hanno il sopravvento sulla percezione cosiddetta normale della realtà.
Questo ci consente di introdurre un altro autore, Dino Campana (1885-1932).
L'inconciliabilità tra il mondo della poesia e quello cosiddetto reale, governato da regole e leggi che hanno proprio la funzione di arginare quanto di pericoloso c'è nel magma oscuro che è in noi, è sicuramente parte integrante della vicenda esistenziale di Dino Campana e della sua poesia orfica e visionaria. Ed è interessante sottolineare la consapevolezza che Campana stesso aveva della propria malattia e del proprio destino, quando si definiva: “Colui che del dolore ha fatto sangue” ed affermava: “Tutti mi hanno sputato addosso dall'età di 14 anni”, sottolineando con quest'ultima frase il contrasto tra lui e la società borghese in cui viveva.
In Campana, uomo “selvatico”, errabondo, violento, folle, la dedizione alla poesia è assoluta e significa accettazione del mistero della parola in relazione alla propria origine mitica, alla propria voce ancestrale. C'è in lui il dramma dell'eroe tragico, destinato alla malattia e all'emarginazione, ma c'è anche nella sua poesia la dolcezza di una musicalità avvolgente e magica, che ritma le ossessioni del suo mondo interiore, mediante un procedimento cinematografico che consente al poeta di sovvertire la consueta dimensione temporale dei fatti. Questo tipo di narrazione lo troviamo non solo nel testo La notte (il cui primo titolo era non a caso Cinematografia sentimentale) che apre i Canti orfici, ma anche ne La giornata di un nevrastenico.
Leggendo La notte entriamo in una dimensione in cui l'elemento dominante è il sogno, con le sue immagini e con le sue sovrapposizioni di passato e presente. Le figure femminili (la matrona e la giovane ancella) hanno connotazioni oniriche e sono legate al ricordo di esperienze della prima giovinezza; inoltre il testo inizia con la parola “ricordo” e la poesia è chiamata proprio “regina del ricordo”.
La trasfigurazione del ricordo diviene sogno antico che si rinnova e rivive nel presente della parola. La memoria svela un'altra dimensione e tutto il testo è un viaggio nell'inconscio, tra forze misteriose ed immagini che scaturiscono da pulsioni occulte destinate a rivelare sempre altro in un processo di conoscenza continuo.
È inoltre importante evidenziare come spesso in Campana l'io poetante sia un soggetto che non agisce di volontà propria, ma appare mosso da un destino misterioso che lo conduce laddove sembra essere atteso da sempre. Nella scrittura si verifica, pertanto, ciò che avviene nei sogni, nei quali colui che sogna non è padrone di governare ciò che gli accade. E questo è ciò che in qualche modo è successo a Campana nella sua esistenza così infelice e travagliata, di cui il brano La giornata di un nevrastenico è la testimonianza. Qui l'ottica del nevrastenico, che coglie a Bologna i movimenti a scatti delle persone come nelle pellicole cinematografiche del tempo, è dominata da un'atmosfera di incubo e da una condizione di solitudine estrema. Gli esseri umani sono visti come assurdi animali in queste immagini:

“Lungo la via di circonvallazione passavano pomposamente sfumate figure femminili, avvolte in pelliccie, i cappelli copiosamente romantici, avvicinandosi a piccole scosse automatiche, rialzando la gorgiera carnosa come volatili di bassa corte.”

“Delle ragazze tutte piccole, tutte scure, artifiziosamente avvolte nella sciarpa traversano saltellando le vie, rendendole più vuote ancora. E nell'incubo della nebbia, in quel cimitero, esse mi sembrano a un tratto tanti piccoli animali, tutte uguali, saltellanti, tutte nere, che vadano a covare in un lungo letargo un loro malefico sogno.”

“I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal bavero come bestie stupite.”

Prevale su tutto l'attesa dell'ombra, definita “la dolcezza dei seppelliti” e al termine del brano l'invocazione a Satana, che segue l'incontro con la prostituta, è la richiesta di una liberazione dal proprio male.

“O Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, o tu che dall'ombra mostri l'infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga miseria!”

Ai nomi dei poeti fin qui citati si potrebbero aggiungere poi quelli di Georg Trakl, di Nelly Sachs, di Antonin Artaud, di Paul Celan e di tanti altri che ebbero a che fare – ciascuno a suo modo - con la malattia psichica e con la poesia.
È indubbio che le possibilità dell'arte in genere e le possibilità della follia si incontrano spesso, restando indissolubilmente e misteriosamente legate tra loro, in quanto possibilità dell'esistenza stessa. La ricerca insita nella creazione artistica può spingersi fino ai limiti estremi della malattia, così come quest'ultima talvolta può trovare espressione nelle forme eccelse della poesia, della musica e della pittura. Il poeta è colui che si avvicina a questa dimensione altra, ma che al tempo stesso abita ciascuno di noi. Egli è in grado di creare un’altra parola che va oltre il sintomo della propria vicenda esistenziale, oltre la propria eventuale follia, perché noi ascoltandola la riconosciamo nostra.


Maurice Blanchot, La follia per eccellenza, in Karl Jaspers, Genio e follia, Raffaello Cortina, 2001
Eugenio Borgna, Come se finisse il mondo, Feltrinelli, 2006
Dino Campana, Canti orfici, Vallecchi, 1985
Gerard de Nerval, Aurelia, Moretti e Vitali, 2016
Friedrich Hӧlderlin, Le liriche, Adelphi, 1977
Edmond Jabès, Dal deserto al libro, Elitropia, 1983
Karl Jaspers, Genio e follia, Raffaello Cortina, 2001
Giovanni Pascoli, Tutte le poesie, Newton Compton, 2006
Giorgio Vigolo, La luce ricorda, Mondadori, 1967