PsicoFestival 2017
La parola dell’ inconscio: sogno, vertigine e follia nella
scrittura poetica
C’è una
poesia di Giorgio Vigolo, poeta certamente da riscoprire, nato a
Roma nel 1894 e morto nella stessa città nel 1983, intitolata Scrivere
una poesia ed inserita nella raccolta La luce ricorda (Mondadori,
1967), che ci consegna alcune immagini piuttosto efficaci relative al mistero
della scrittura poetica e alla sua genesi.
“Scrivere
una poesia,
sempre è un
colpo di mano sull’ignoto,
un penetrare
svegli
nel mistero
del sogno,
un prendere
possesso della notte.”
In questi
versi iniziali ci colpiscono alcune parole chiave: ignoto, mistero, sogno,
notte, che sono tutte in stretta relazione con l’atto dello scrivere. Chi
scrive, infatti, cerca di avvicinare l’ignoto perché attratto o spinto proprio
da ciò che non conosce pienamente, inoltre penetra da sveglio il mistero del
sogno ed entra così nella sua notte. Nella seconda strofa la poesia continua
così:
“Aggiramento,
azione di sorpresa
sulla
nostra città profonda:
forzare la
sua porta,
entrare fra
le case addormentate,
scoprire il
loro segreto.”
Il poeta è
chiamato da un territorio misterioso che è la sua “città profonda”. È evidente
come quest’ultima sia una metafora dell’inconscio. La scrittura poetica compie
un’azione di “aggiramento” attorno alla dimensione inconscia dell’esistenza,
rappresentata qui dalla “città profonda”, e cerca di forzarne la porta
per poter poi entrare fra “le case addormentate” e “scoprire il loro segreto”.
Questa città nascosta, quasi inaccessibile, avvolta dal buio della notte, ha
indubbiamente un fascino straordinario per il poeta, perché egli sente che in
essa è presente la parte oscura della propria esistenza, una verità altra di
estrema importanza. Il segreto della “città profonda” è in fondo il segreto del
poeta stesso.
E più
avanti, Giorgio Vigolo afferma che una poesia “è un furto sacro / in cui si
rischia la dannazione / o il bacio divino”. È interessante notare qui il
concetto di “rischio” e l’ambivalenza legata alla poesia. Essa è un “furto
sacro” perché il poeta-ladro cerca di rubare ciò che è nascosto, nell’abisso di
sé, e questa operazione non è semplice o innocua perché comporta un mutamento
interiore che può essere sconvolgente.
La “città
profonda” di Giorgio Vigolo non è certo rassicurante, non è chiara, non è
illuminata, non è ben definita, ma ha il fascino dell’ignoto, è in qualche modo
sempre sfuggente, sempre lontana, eppure è anche del poeta, è anche nostra.
Essa ci appartiene nella sua estraneità e potremmo definirla l’ossimoro
della nostra esistenza, in quanto in noi e oltre
noi, proprio come l’inconscio.
Queste
considerazioni nate dalla lettura dei versi di Vigolo ci inducono a riflettere
ulteriormente sulla poesia.
Che cos’è,
allora, la poesia? Credo non si possa tentare di rispondere a questa domanda
senza fare riferimento all’esistenza, al nostro essere-nel-mondo. Interrogare
la parola poetica significa inevitabilmente interrogare noi stessi, cercare di
penetrare ciò che ci determina, avvicinare il nostro mistero in tutte quelle
componenti con cui abbiamo a che fare quotidianamente, vale a dire le nostre
esperienze, il nostro pensiero, i nostri sentimenti, le nostre emozioni.
Poesia ed
esistenza sono strettamente unite. Operare fra loro una separazione
significherebbe ridurre la scrittura poetica ad un semplice gioco, oppure ad un
mero esercizio di stile, ad una neutralità che non ha alcuna risonanza
interiore, prima in chi scrive, poi in chi legge. Una poesia allontanata dai
dilemmi dell’esistenza, dalle esperienze fondamentali come il dolore, la
solitudine, la morte, l’amore o il rapporto con l’Altro ( per fare solo qualche
esempio ), si caratterizza come una poesia che, nel migliore dei casi, fa
appello unicamente all’intelletto e a certe abilità linguistiche fini a se
stesse, una poesia cerebrale -potremmo dire – che non provoca la
nostra esistenza, non ci coinvolge e alla fine non suscita niente dentro di
noi.
In realtà
la poesia, nelle sue espressioni più autentiche, non può lasciare indifferenti,
ma si rivolge ad ogni parte di noi, ci interpella, ci scuote, ci pone in una
condizione di ascolto, che ci fa anche cambiare.
Durante la
lettura noi mutiamo. Si modifica la nostra capacità di percepire la realtà, il
nostro sguardo non è più lo stesso. Certe luci, certe ombre, certi particolari
prima insignificanti possono diventare importantissimi. Certe nostre emozioni,
certi nostri sentimenti o certi nostri pensieri ed immagini possono rivelarsi
improvvisamente, emergere per un poco dalla loro notte e parlarci come mai era
successo. E questo a volte può anche spaventare. La poesia può essere
anche spavento, quando ci pone davanti a realtà estreme, quando la
parola poetica nella sua massima tensione ci avvicina all’abisso della nostra
esistenza, a quanto di oscuro e di terribile si cela in noi.
Non posso a
questo punto non fare riferimento ad una poesia di Giovanni Pascoli,
intitolata La vertigine. Pascoli, il poeta del “fanciullino”, è
stato anche e soprattutto, il poeta dello sgomento cosmico, della vertigine,
dell’horror vacui, dell’abbandono dell’uomo nel mondo, della paura della
vita.
L’inizio è
molto potente:
“Uomini, se
in voi guardo, il mio spavento
cresce nel
cuore. Io senza voce e moto
voi vedo
immersi nell’eterno vento;
voi vedo,
fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi,
all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi
e pender giù nel vuoto.”
In questa
poesia, pubblicata in “Rassegna contemporanea” del gennaio 1908 e poi confluita
nella raccolta Nuovi poemetti del 1909, la coscienza dello
sradicamento dell’uomo si manifesta in un horror vacui che
tutto inghiotte e cancella, in un precipitare angoscioso e vano dell’esistente.
Qui non c’è il senso del “dolce naufragar” leopardiano, ma piuttosto l’orrore
della caduta, della voragine che si spalanca sotto e intorno a noi e ci immerge
“nell’eterno vento”.
La poesia
si apre proprio con lo spavento che Pascoli prova nei confronti degli uomini e
della vita stessa. E i pronomi “voi” ed “io” rivelano tutta la solitudine del
poeta che vive una sorta di sdoppiamento, in quanto è al contempo osservatore
ed osservato: il destino degli uomini sull’“aerea terra” è anche il suo.
Questa
immagine del vuoto, della terra sospesa nel vuoto e degli uomini che possono
precipitare da un momento all’altro nel baratro del cielo e questo spavento
improvviso ci rivelano la precarietà misteriosa della nostra esistenza. La
parola poetica di Pascoli vuole esprimere lo sgomento abissale di fronte alla
mancanza di gravità, in quanto per lui non ci sono appigli a cui aggrapparsi in
“questa informe oscurità volante” che è la terra e la nostra stabilità è dunque
solo un’illusione.
E a questo
proposito potremmo accennare anche ad altre poesie di Pascoli, come ad
esempio Il bolide, nella quale troviamo l’immagine del “cupo
cielo”, che tutto inghiotte e che viene attraversato improvvisamente da una
meteora:
“Cielo, e non
altro: il cupo cielo, pieno
di grandi
stelle; il cielo, in cui sommerso
mi parve
quanto mi parea terreno.”
Il mistero
in Pascoli è l’horror vacui, il senso di vertigine che si può avvertire
dentro la nostra esistenza: precipitare nel vuoto o essere travolti dal cielo
che invade la terra. Ed è interessante sottolineare come questo sgomento
cosmico non sia costantemente presente nell’opera di Pascoli, ma si trovi solo
in alcuni componimenti, come se il poeta stesso avesse timore a rivelarlo: è,
in qualche modo, l’altro Pascoli, quello in realtà più vero, in cui
le paure inconsce legate all’esistenza finalmente si rivelano: nell’inconscio
di Pascoli c’è indubbiamente questo vuoto.
A questo
punto credo che occorra dire con chiarezza che la poesia non protegge e non ha
protezioni.
Come ha
affermato Edmond Jabès ,“dove non c’è rischio non c’è
scrittura”. Questa frase ci rimanda ai versi citati all’inizio di Vigolo (“si
rischia la dannazione / o il bacio divino”) e vale per sostenere un senso forte
della poesia, un legame stretto tra scrittura poetica e destino, altrimenti
tutto viene ridotto ad un gioco inutile e privo di senso.
La
poesia espone ed è esposta. Essa – come tutti noi
– è gettata nel mondo, non ha riparo, e dice spesso, o tenta di
dire, ciò che altrimenti è impossibile, in una tensione estrema: quella appunto
tra parola ed esistenza. La poesia, ancora, è
fragile e potente al tempo stesso. Nasce ai bordi dell’inesprimibile ed il
poeta – come ho avuto modo di ripetere spesso - è colui che vive in sé la
frontiera, il margine, l’inquietudine di un’alterità inafferrabile che sente
nell’ombra. Sperimenta sempre un’assenza e nel contempo ne ricerca la voce, una
voce che da sempre tace nel suo dire, che si sottrae nel suo essere qui, nella
carne e nel dolore dell’esistenza. E proprio questa tensione mai placata
definisce a poco a poco lo spazio della scrittura poetica, una zona che è per
noi lontananza ed intimità, spaesamento e familiarità, costruzione e maceria.
L’espressione
poetica può essere legata (e spesso lo è) non solo a varie forme di sofferenza
interiore e di disagio psichico, ma anche al mistero e all'enigma inquietante
della psicosi e della follia. I poeti hanno a che fare – come abbiamo già
sottolineato – con la parte oscura, inconscia dell’esistenza e questa a volte
può essere devastante.
Emblematici
sono i casi di alcuni poeti che, pur nella loro specifica diversità, hanno
invocato la poesia come forma estrema ed assoluta della loro verità interiore,
spesso in contrapposizione a quella del mondo, raggiungendo risultati di grande
valore. Poeti, quindi, abitati, posseduti dalle immagini della loro psiche,
immagini travolgenti che hanno trovato espressione sulla pagina scritta.
Tra questi
vi è Friedrich Hölderlin (1770-1843), del quale ha scritto pagine
illuminanti Maurice Blanchot.
Secondo
quest'ultimo, Hӧlderlin “è
stato capace di elevare fino al senso supremo – che è quello della poesia – le
esperienze della malattia”. E se “la schizofrenia come tale non è creatrice”,
bisogna aggiungere che “nelle sole personalità creatrici, essa è la condizione
affinché le profondità si aprano”. Queste affermazioni si collegano a quanto
sostiene Karl Jaspers in Genio e follia ,
quando scrive: “Così come una perla nasce dal difetto d'una conchiglia, la
schizofrenia può far nascere opere incomparabili. E come non si pensa alla
malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza
vitale di un'opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione
della sua nascita”.
Certo è che
Hölderlin dal 1801 al 1805, cioè nel periodo in cui si manifesta la malattia,
lotta per raggiungere la pienezza del poema, l'inno, e per elevare ciò
che Heidegger definisce “lo scuotimento del caos” alla poesia,
avvertendo il pericolo del compito poetico che egli deve
affrontare. E secondo Blanchot, il sacrificio del poeta si compie andando
incontro all'Aperto, cioè alla “scaturigine originaria in cui tutto quel che
appare si perde ma anche si fonda”. Il poeta non può che passare attraverso lo
smarrimento e l'infelicità della mancanza, divenendo così un' ombra in attesa della
parola:
“Ma se è
molto l'evento
nulla
opera, perché il cuore ci manca e siamo ombre...”
Tuttavia
questo smarrimento è necessario e la notte del poeta si rivela come l'annuncio
del giorno nuovo che si leva:
“Ma ora è
il giorno! L'attesi, l'ho veduto venire.
Quello che
vidi, il Sacro, sia la mia parola.”
In tutta la
produzione poetica di Hӧlderlin
domina il sogno panteistico, la perfetta unione di spirito e natura,
equivalente al ritorno al Tutto indistinto originario (sogno di cui è
protagonista Empedocle nella tragedia in versi scritta dal 1797 al 1800 e
rimasta incompiuta, ma presente anche nel romanzo Iperione), sogno
che viene poi pagato dal poeta con la sua stessa esistenza, la sua solitudine
e la sua malattia.
A
proposito del rapporto tra scrittura e inconscio, vale la pena soffermarsi
su Aurelia, opera del poeta e narratore Gerard de Nerval,
il quale porrà tragicamente fine alla propria esistenza nel 1855. Si tratta di
un testo in prosa, ma con notevoli valenze poetiche. Esso si può considerare
una sorta di diario spirituale, in cui l’autore descrive vari momenti della
propria follia. L’incipit è quanto mai esplicito: “Il sogno è una seconda
vita”. Infatti alla base di tutto il racconto vi è “l’effondersi del sogno
nella vita reale” e la sensazione precisa che spiriti dell’al di là possano
prendere forma nell’esistenza quotidiana. La scrittura di Nerval è la
trascrizione ininterrotta di immagini-sogno che egli vive come reali, in una
evidente situazione psicotica. Le figure dell’inconscio s’impossessano della
vita di Nerval, la trasfigurano, la stravolgono, in un processo continuo che
l’autore riesce però a descrivere non solo con estrema chiarezza e lucidità, ma
anche con leggerezza. Scrive Nerval:
“Ma qual
era mai l’essenza di quello Spirito che era me ed era fuori di me? […] Non mi
era forse nota la storia di quel cavaliere che per tutta una notte in una
foresta dové combattere contro uno sconosciuto che era se stesso? Comunque io
credo che l’immaginazione umana non abbia inventato nulla che non sia vero, in
questo mondo o negli altri, né potevo dubitare di quanto avevo veduto così distintamente.”
Come ha
sottolineato Eugenio Borgna “nel contesto delle immaginazioni deliranti e delle
esperienze allucinatorie si delineano in Aurelia esperienze di
perdita della libertà e dell’autonomia dell’io. I confini fra l’io e il mondo,
fra l’interno e l’esterno, si confondono e si annullano in un’osmosi
permanente; e l’io si perde nel mondo e il mondo dilaga nell’io.” In Nerval
l’inconscio rompe gli argini, si presenta in immagini ora luminose ed ora di
morte e di desolazione (il sole nero, ad esempio) che hanno il
sopravvento sulla percezione cosiddetta normale della realtà.
Questo ci
consente di introdurre un altro autore, Dino Campana (1885-1932).
L'inconciliabilità
tra il mondo della poesia e quello cosiddetto reale, governato da regole e
leggi che hanno proprio la funzione di arginare quanto di pericoloso c'è
nel magma oscuro che è in noi, è sicuramente parte integrante della vicenda
esistenziale di Dino Campana e della sua poesia orfica e visionaria. Ed è
interessante sottolineare la consapevolezza che Campana stesso aveva della
propria malattia e del proprio destino, quando si definiva: “Colui che del
dolore ha fatto sangue” ed affermava: “Tutti mi hanno sputato addosso dall'età
di 14 anni”, sottolineando con quest'ultima frase il contrasto tra lui e la
società borghese in cui viveva.
In Campana,
uomo “selvatico”, errabondo, violento, folle, la dedizione alla poesia è
assoluta e significa accettazione del mistero della parola in relazione alla
propria origine mitica, alla propria voce ancestrale. C'è in lui il dramma
dell'eroe tragico, destinato alla malattia e all'emarginazione, ma c'è anche
nella sua poesia la dolcezza di una musicalità avvolgente e magica, che ritma
le ossessioni del suo mondo interiore, mediante un procedimento cinematografico
che consente al poeta di sovvertire la consueta dimensione temporale dei fatti.
Questo tipo di narrazione lo troviamo non solo nel testo La notte (il
cui primo titolo era non a caso Cinematografia sentimentale) che
apre i Canti orfici, ma anche ne La giornata di un
nevrastenico.
Leggendo La
notte entriamo in una dimensione in cui l'elemento dominante è
il sogno, con le sue immagini e con le sue sovrapposizioni di
passato e presente. Le figure femminili (la matrona e la giovane ancella) hanno
connotazioni oniriche e sono legate al ricordo di esperienze della prima
giovinezza; inoltre il testo inizia con la parola “ricordo” e la poesia è
chiamata proprio “regina del ricordo”.
La
trasfigurazione del ricordo diviene sogno antico che si
rinnova e rivive nel presente della parola. La memoria svela un'altra
dimensione e tutto il testo è un viaggio nell'inconscio, tra forze misteriose
ed immagini che scaturiscono da pulsioni occulte destinate a rivelare sempre
altro in un processo di conoscenza continuo.
È inoltre importante
evidenziare come spesso in Campana l'io poetante sia un soggetto che non agisce
di volontà propria, ma appare mosso da un destino misterioso che lo conduce
laddove sembra essere atteso da sempre. Nella scrittura si verifica, pertanto,
ciò che avviene nei sogni, nei quali colui che sogna non è padrone di governare
ciò che gli accade. E questo è ciò che in qualche modo è successo a Campana
nella sua esistenza così infelice e travagliata, di cui il brano La
giornata di un nevrastenico è la testimonianza. Qui l'ottica del
nevrastenico, che coglie a Bologna i movimenti a scatti delle persone come
nelle pellicole cinematografiche del tempo, è dominata da un'atmosfera di
incubo e da una condizione di solitudine estrema. Gli esseri umani sono visti
come assurdi animali in queste immagini:
“Lungo la
via di circonvallazione passavano pomposamente sfumate figure femminili,
avvolte in pelliccie, i cappelli copiosamente romantici, avvicinandosi a
piccole scosse automatiche, rialzando la gorgiera carnosa come volatili di
bassa corte.”
“Delle
ragazze tutte piccole, tutte scure, artifiziosamente avvolte nella sciarpa
traversano saltellando le vie, rendendole più vuote ancora. E nell'incubo della
nebbia, in quel cimitero, esse mi sembrano a un tratto tanti piccoli animali,
tutte uguali, saltellanti, tutte nere, che vadano a covare in un lungo letargo
un loro malefico sogno.”
“I
cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal bavero come bestie stupite.”
Prevale su
tutto l'attesa dell'ombra, definita “la dolcezza dei seppelliti” e al termine
del brano l'invocazione a Satana, che segue l'incontro con la prostituta, è la
richiesta di una liberazione dal proprio male.
“O Satana,
tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, o tu che dall'ombra
mostri l'infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga
miseria!”
Ai nomi dei
poeti fin qui citati si potrebbero aggiungere poi quelli di Georg Trakl,
di Nelly Sachs, di Antonin Artaud, di Paul
Celan e di tanti altri che ebbero a che fare – ciascuno a suo modo -
con la malattia psichica e con la poesia.
È indubbio
che le possibilità dell'arte in genere e le possibilità della
follia si incontrano spesso, restando indissolubilmente e misteriosamente
legate tra loro, in quanto possibilità dell'esistenza stessa.
La ricerca insita nella creazione artistica può spingersi fino ai limiti
estremi della malattia, così come quest'ultima talvolta può trovare espressione
nelle forme eccelse della poesia, della musica e della pittura. Il poeta è
colui che si avvicina a questa dimensione altra, ma che al tempo stesso abita ciascuno di noi. Egli è in grado di creare un’altra
parola che va oltre il sintomo della propria vicenda esistenziale, oltre la
propria eventuale follia, perché noi ascoltandola la riconosciamo nostra.
Maurice Blanchot, La follia
per eccellenza, in Karl Jaspers, Genio
e follia, Raffaello Cortina, 2001
Eugenio Borgna, Come se
finisse il mondo, Feltrinelli, 2006
Dino Campana, Canti orfici,
Vallecchi, 1985
Gerard de Nerval, Aurelia,
Moretti e Vitali, 2016
Friedrich Hӧlderlin, Le liriche,
Adelphi, 1977
Edmond Jabès, Dal deserto al
libro, Elitropia, 1983
Karl Jaspers, Genio e follia,
Raffaello Cortina, 2001
Giovanni Pascoli, Tutte le
poesie, Newton Compton, 2006
Giorgio Vigolo, La luce
ricorda, Mondadori, 1967