giovedì 5 gennaio 2017

Thomas Bernhard - Perturbamento



Parlare di Perturbamento, lo straordinario romanzo che Bernhard pubblicò nel 1967, significa inevitabilmente precipitare nell’abisso di tenebre che è ogni personaggio, nella solitudine irrimediabile di cui è voce. Perché le opere di Bernhard sono soprattutto voci. Voci monologanti e disperate, voci che parlano nel buio e nel vuoto anche quando si rivolgono a un interlocutore, voci che non si placano, che ripetono e si ripetono di continuo, che sono la loro malattia e la loro fine incessantemente cercata. Ogni voce, infatti, vorrebbe finire, ma non riesce a staccarsi dal proprio delirio, perché le parole generano crudelmente altre parole, inutili e terribili a un tempo. Il silenzio è desiderato, ma la scrittura delle voci non è che l’incontro-scontro tra la vita e la morte, come il dibattersi di un corpo in preda a un’agonia interminabile.

C’è in Bernhard una furia delle parole che attesta la vanità e la potenza delle parole stesse, una coazione a ripetere che si fa sempre più malata e violenta in un processo mortale. Col divampare della furia, col fuoco inestinguibile delle parole pronunciate come in una catena maledetta e inarrestabile, l’inanità di ogni discorso non rivela che la propria tremenda volontà di autodistruzione, di essere cenere e poi nulla.

La vicenda di Perturbamento è un viaggio progressivo al culmine della malattia e della follia, attraverso le solitudini di personaggi chiusi nel loro mondo opprimente, nelle loro ossessioni e nei loro deliri. L’io narrante, un giovane studente di scienze minerarie, che accompagna il padre medico in una serie di visite tra le valli e le gole della Stiria a pazienti afflitti da diversi mali e tormentati tutti dall’atrocità dell’esistenza, non fa che riportare voci altrui,  in una sorta di  protocollo che è anche una discesa agli inferi, una testimonianza cruda della brutalità di quei luoghi isolati dove non ci può essere salvezza alcuna. Le visite dei pazienti introducono quella ultima del principe Saurau, che costituisce un capitolo a parte. Tutto alla fine converge nel delirio senza posa del principe, nel suo ininterrotto soliloquio, che è una vera e propria opera demolitrice della sua stirpe, generazione dopo generazione («scopro l’orrendo fetore delle generazioni», afferma), fino a coinvolgere l’intera storia dell’uomo e il nostro essere nel mondo, in una furia distruttiva e autodistruttiva di feroce potenza, che Bernhard esprime con una maestria davvero rara. I vari pazienti incontrati prima del principe (Bloch, l’ex maestra Ebenhoh, l’industriale, i Fochler,  Krainer) sono prigionieri di se stessi e dell’ambiente in cui vivono. Tra loro, vale la pena citare l’industriale, malato di diabete, che si è ritirato in un padiglione di caccia, assillato da un lavoro letterario che scrive e distrugge continuamente. Il suo isolamento volontario e la sua lontananza da ogni possibile distrazione («tutto per lui doveva essere vuoto il più possibile, il più possibile spoglio») per concentrarsi in un’opera imponente ma non ben definita e alla fine irrealizzabile rappresentano quella follia maniacale ed ossessiva tipica di molti personaggi di Bernhard.

Il principe Saurau non prende un attimo di respiro. Al medico e a suo figlio, che ascoltano quasi muti, il principe confessa la propria disperazione, espone con incontenibile frenesia verbale tutta la sua follia ragionata, il suo disprezzo per la famiglia («questa incessante e infame amputazione dello spirito») e per tutto. E’ continuamente tormentato da insopportabili rumori che sente nella sua testa, dove c’è «una devastazione inimmaginabile», e ciò che lo sgomenta «è che nessuno, neanche un solo cervello si sia mai accorto né si accorga mai di questi rumori». A turbare la sua esistenza c’è poi il rapporto, altrettanto devastante, con il figlio che vive a Londra, perché è convinto che dopo la sua morte distruggerà il castello di Hochgobernitz con tutte le proprietà.

A ben vedere la relazione padre-figlio costituisce un elemento importante nel romanzo, se si considera che anche il rapporto tra l’io narrante e il padre medico è contraddistinto da ambiguità e reticenze, così come è stato traumatizzante il rapporto tra il principe Saurau e suo padre, morto suicida. Padri e figli sono legati da follie e miserie diverse, ma che hanno anche inevitabilmente qualcosa in comune («Padre e figlio, guardandosi in faccia, si contemplano continuamente nella loro meschinità»). Il principe è solo nel suo dramma (e probabilmente lo è anche il figlio, di cui abbiamo informazioni unicamente grazie al discorso del padre), con tutte le manie e le fissazioni che reca con sé, come ad esempio il rifugiarsi in biblioteca perché lì il freddo si sopporta meglio che altrove, anche se  «in ogni libro scopriamo con orrore un uomo che gli stampatori hanno stampato a morte, che gli editori hanno pubblicato a morte, che i lettori hanno letto a morte». O ancora: «I libri mi hanno fatto sempre capire quanto io sia infelice, senza scrupoli, inaffidabile, vulnerabile, inutile». C’è nel principe – come egli stesso dichiara – una geometria del tormento, che lo sdoppia: «Sto in piedi davanti alla finestra e vedo me stesso nel cortile, sulle mura interne. Mi osservo. Mentre mi osservo, ora mi capisco ora non mi capisco».

Il romanzo non ha una conclusione vera e propria. Il soliloquio del principe improvvisamente si interrompe. Non sappiamo più niente, né se arriverà davvero il figlio del principe da Londra, né se il giovane narratore e suo padre finalmente si parleranno.

Bernhard ci offre una scrittura avvolta dalle tenebre, ci imprigiona nei meandri della follia che è dentro di noi e ci consegna con la figura del principe Saurau un personaggio estremo, che non è possibile dimenticare, uno di quegli esseri che continuano a vivere oltre la pagina scritta.

Mauro Germani