Parlare di Perturbamento, lo straordinario romanzo che Bernhard pubblicò nel 1967, significa inevitabilmente precipitare nell’abisso di
tenebre che è ogni personaggio, nella solitudine irrimediabile di cui è voce.
Perché le opere di Bernhard sono soprattutto voci. Voci monologanti
e disperate, voci che parlano nel buio e nel vuoto anche quando si rivolgono a un interlocutore, voci che non si placano, che ripetono e si ripetono di
continuo, che sono la loro malattia e la loro fine
incessantemente cercata. Ogni voce, infatti, vorrebbe finire, ma non riesce a
staccarsi dal proprio delirio, perché le parole generano crudelmente altre
parole, inutili e terribili a un tempo. Il silenzio è desiderato, ma la
scrittura delle voci non è che l’incontro-scontro tra la vita e la
morte, come il dibattersi di un corpo in preda a un’agonia interminabile.
C’è
in Bernhard una furia delle parole che attesta la vanità e la
potenza delle parole stesse, una coazione a ripetere che si fa sempre più
malata e violenta in un processo mortale. Col divampare della furia, col fuoco
inestinguibile delle parole pronunciate come in una catena maledetta e inarrestabile, l’inanità di ogni discorso non rivela che la propria tremenda
volontà di autodistruzione, di essere cenere e poi nulla.
La
vicenda di Perturbamento è un viaggio progressivo al culmine
della malattia e della follia, attraverso le solitudini di personaggi chiusi
nel loro mondo opprimente, nelle loro ossessioni e nei loro deliri. L’io
narrante, un giovane studente di scienze minerarie, che accompagna il padre
medico in una serie di visite tra le valli e le gole della Stiria a pazienti
afflitti da diversi mali e tormentati tutti dall’atrocità dell’esistenza, non
fa che riportare voci altrui, in una sorta di protocollo che è
anche una discesa agli inferi, una testimonianza cruda della brutalità di quei
luoghi isolati dove non ci può essere salvezza alcuna. Le visite dei pazienti
introducono quella ultima del principe Saurau, che costituisce un capitolo a
parte. Tutto alla fine converge nel delirio senza posa del principe, nel suo
ininterrotto soliloquio, che è una vera e propria opera demolitrice della sua
stirpe, generazione dopo generazione («scopro l’orrendo fetore delle generazioni»,
afferma), fino a coinvolgere l’intera storia dell’uomo e il nostro essere nel
mondo, in una furia distruttiva e autodistruttiva di feroce potenza, che
Bernhard esprime con una maestria davvero rara. I vari pazienti incontrati
prima del principe (Bloch, l’ex maestra Ebenhoh, l’industriale, i Fochler,
Krainer) sono prigionieri di se stessi e dell’ambiente in cui vivono. Tra
loro, vale la pena citare l’industriale, malato di diabete, che si è ritirato
in un padiglione di caccia, assillato da un lavoro letterario che scrive e
distrugge continuamente. Il suo isolamento volontario e la sua lontananza da
ogni possibile distrazione («tutto per lui doveva essere vuoto il più
possibile, il più possibile spoglio») per concentrarsi in un’opera imponente ma
non ben definita e alla fine irrealizzabile rappresentano
quella follia maniacale ed ossessiva tipica di molti personaggi di Bernhard.
Il
principe Saurau non prende un attimo di respiro. Al medico e a suo figlio, che
ascoltano quasi muti, il principe confessa la propria disperazione, espone con
incontenibile frenesia verbale tutta la sua follia ragionata, il suo
disprezzo per la famiglia («questa incessante e infame amputazione dello
spirito») e per tutto. E’ continuamente tormentato da insopportabili rumori che
sente nella sua testa, dove c’è «una devastazione inimmaginabile», e ciò che lo
sgomenta «è che nessuno, neanche un solo cervello si sia mai accorto né si
accorga mai di questi rumori». A turbare la sua esistenza c’è poi il rapporto,
altrettanto devastante, con il figlio che vive a Londra, perché è convinto che
dopo la sua morte distruggerà il castello di Hochgobernitz con tutte le
proprietà.
A
ben vedere la relazione padre-figlio costituisce un elemento importante nel
romanzo, se si considera che anche il rapporto tra l’io narrante e il padre
medico è contraddistinto da ambiguità e reticenze, così come è stato
traumatizzante il rapporto tra il principe Saurau e suo padre, morto suicida.
Padri e figli sono legati da follie e miserie diverse, ma che hanno anche inevitabilmente
qualcosa in comune («Padre e figlio, guardandosi in faccia, si contemplano continuamente
nella loro meschinità»). Il principe è solo nel suo dramma (e probabilmente lo
è anche il figlio, di cui abbiamo informazioni unicamente grazie al discorso
del padre), con tutte le manie e le fissazioni che reca con sé, come ad esempio
il rifugiarsi in biblioteca perché lì il freddo si sopporta meglio che altrove,
anche se «in ogni libro scopriamo con orrore un uomo che gli stampatori
hanno stampato a morte, che gli editori hanno pubblicato a morte, che i lettori
hanno letto a morte». O ancora: «I libri mi hanno fatto sempre capire quanto io
sia infelice, senza scrupoli, inaffidabile, vulnerabile, inutile». C’è nel
principe – come egli stesso dichiara – una geometria del tormento, che lo
sdoppia: «Sto in piedi davanti alla finestra e vedo me stesso nel cortile,
sulle mura interne. Mi osservo. Mentre mi osservo, ora mi capisco ora non mi capisco».
Il
romanzo non ha una conclusione vera e propria. Il soliloquio del principe
improvvisamente si interrompe. Non sappiamo più niente, né se arriverà davvero
il figlio del principe da Londra, né se il giovane narratore e suo padre
finalmente si parleranno.
Bernhard
ci offre una scrittura avvolta dalle tenebre, ci imprigiona nei meandri della
follia che è dentro di noi e ci consegna con la figura del principe Saurau un
personaggio estremo, che non è possibile dimenticare, uno di quegli
esseri che continuano a vivere oltre la pagina scritta.
Mauro
Germani