La poesia non ha protezioni, è senza difesa: non può e non deve averne.
La
sua forza sta nella nuda parola, nella sua necessità e nella sua verità.
Occorre
accoglierla e preservarla dal mondo inautentico della chiacchiera, dove tutto è
commercio e consumo immediato. “Dove
non c’è rischio, non c’è scrittura” ha affermato Edmond Jabès e tale affermazione vale per sostenere un
senso forte della poesia, un legame stretto tra scrittura poetica e destino, nella
consapevolezza che scrivere non è un gioco.
Si
scrive sempre da un esilio, come sospesi tra due abissi: un fondo oscuro e
segreto che si spalanca alle nostre spalle e qualcosa che da sempre ci attende
come un destino.
Ciò
che resta è la traccia di una scomparsa, il segno di una voce perduta e di un
desiderio, la risposta ad una chiamata antica.
La
poesia è gettata nel mondo, è delicata e potente al tempo stesso. Nasce ai
bordi dell’inesprimibile, tra salvezza e perdizione, tra memoria ed oblio.
Il
poeta è colui che vive in sé la frontiera, il margine, l’inquietudine di
un’alterità inafferrabile che sente nell’ombra. Sperimenta l’assenza dell’Altro
e nel contempo ne ricerca la voce, una voce che da sempre tace nel suo dire,
che si sottrae nel suo essere qui, nella carne e nel dolore dell’esistenza.
Che
cosa costruisce allora il poeta? Difficile dirlo. Nel
testo c’è un altro testo perduto, tutta
l’incompiutezza della scrittura, ma anche una smisurata volontà senza nome, un
assoluto che cerca d’incarnarsi sulla pagina. Per sempre. O mai.
Ancora
Edmond Jabès: “Per lo scrittore ogni parola scritta nasconde un’altra parola
del tutto inafferrabile ma incessantemente differita e infinitamente più
essenziale. Verso questa parola egli tende”. E
proprio questa tensione mai placata definisce a poco a poco lo spazio della
scrittura, una zona che è per noi lontananza ed intimità, spaesamento e
familiarità, costruzione e maceria.
Mauro Germani