Per ricordare Giovanni Testori
(1923-1993), scomparso 27 anni fa, il 16 marzo 1993.
Gli angeli dello sterminio (1992) è l’ultimo, apocalittico romanzo
di Giovanni Testori, ambientato in una Milano ormai irriconoscibile, devastata
dalle fiamme e da un susseguirsi di morti atroci, che testimoniano la fine di
una civiltà – la nostra – senza più anima, corrotta e degradata. Un
libro violento, a frammenti, scomposto, stratificato, che assale il lettore e
lo scaraventa nella catastrofe, nella distruzione, nella rovina e nel sangue.
Milano brucia, ma è anche il mondo che
va a fuoco in questa tremenda parabola.
La città – nominata una sola volta – non
è certo quella del primo Testori, cioè della raccolta di racconti Il
ponte della Ghisolfa, oppure della Gilda del Mac Mahon o
della commedia La Maria Brasca, con i suoi personaggi di periferia,
reali, vivi e tragici nella loro esistenza travagliata e insieme appassionata.
No, è una Milano, un mondo, che ha perso la propria identità. Una Milano, un
mondo inaridito, vuoto, che fa paura. Una Milano, un mondo destinato alla
morte: “Riconosceresti tu, se potessi vederla, la tua città, adesso che s’è
ridotta a un campo di sterminio, se pur lo sterminatore ancora non sia apparso?
Riconosceresti, nel loro alzarsi verso il cielo come enormi scheletri di
metallo, le rotaie dei tram sui quali tante volte sei salito per farti portare
nel luogo desiderato? E loro, le vetture, scaraventate a terra da urti
insensati ma violentissimi e, dagli stessi, spesso, irriconoscibilmente
sventrate? Sotto ognuna di esse, oltre che sotto le auto, ora impennatesi quali
enormi musi metallici o metallici bucrani, ora capovolte quasi enormi
tartarughe preistoriche, quanti morituri si son trovati a dover affrettare la
fine! In verità, se lì son caduti, è perché a tal conclusione la loro parte li
destinava”.
Ecco, dunque, la fine che sopraggiunge,
già preannunciata, preparata, chiamata, dalla terribile cancellazione di ogni
valore, di ogni memoria, di ogni nome, essendo venuta meno quella
“assoluta coincidenza che i nomi avevano con gli esseri cui appartenevano”. Ed
è un trionfo della morte tutto moderno, questo, che inizia con il fuoco e poi
coinvolge, in modo diverso, tutti: chi si suicida, dopo un urlo terribile che
“rimbalzò, come un tuono, fin dalla parte opposta della città, percorrendola e
percuotendola tutta”, ed immediatamente si decompone (“il lezzo si diffuse subito;
riempì il condominio; e, poi, ne debordò fuori; il lezzo di qualcosa – un topo,
un felino, la carcassa d’un bue, l’una e gli altri incredibilmente ingigantiti
– che marciva nell’attesa della corruzione totale”); chi muore improvvisamente
davanti al televisore acceso; chi si schianta in un incidente stradale; chi
scopre il proprio appartamento invaso dagli scarafaggi ed altri insetti (“Non
aveva mai pensato che la sua casa potesse essere una fogna colma di bestie e di
mostri, anzi, un turpe allevamento: vermi striscianti e bavosi, lumacotti e,
ora, quest’insetto…”); chi abortisce e si libera del feto, il quale viene poi
gettato negli scarichi, oppure rimane per un po’ “ancora vivo, nella sua bagna
violastra. […] Aveva una così fragile consistenza e le ossa, mio Dio, erano
così labili…petali, ecco, non più di petali…”.
Tutto l’orrore della modernità, nascosto
ed accumulato da troppo tempo, viene fuori, si espande, esplode. Tutto il
marcio invisibile dentro di noi e nella nostra società si fa sangue, infezione,
morte. E le parole di Testori risuonano oggi più che mai attuali: “Il virus!
Eccolo lì! Quasi invisibile, eppur enorme! Eccolo lì, all’interno del.
All’interno del. All’interno del. Come ai tempi di. Come ai tempi di, ai tempi
di, ai tempi di, di, di…”. Così la devastazione va compiendosi in modo
ineluttabile: “Guardate, voi! Guardate, cittadini in fuga verso rifugi che non
avete costruito e che, comunque, non vi sarebbero serviti! Guardate, figli del
chimico sperma e dell’economico ventre totale! La borsa fallirà! Il fuoco s’è
appiccato anche al suo tempio! Guardate, palazzi in inarrestabile e neppur
terminata rovina! Guardate, mentre crollate giù, dentro le vostre stesse
fondamenta!”.
In questo scenario di morte, Testori
inserisce – tra le altre – una voce narrante, un giornalista che assiste al
generale sfacelo insieme ad una ricca donna, cartomante e veggente, che
commenta l’apocalisse dalla sua casa e beve champagne da un flûte di
cristallo, prima di finire in strada, travolta dagli angeli dello sterminio:
cinquanta motociclisti tutti uguali, con casco bianco e tuta di cuoio nero,
moderni angeli della morte, che percorrono la città in una corsa sfrenata. Il
giornalista annota, scrive, registra, ma per quanto? E a quale scopo? “Quasi
impossibile descrivere, o trascrivere, gli ammassamenti, perché di questo si
tratta, dei morti: vecchi, giovani, donne, bambini, bambine; gli uni sugli
altri; le bocche spalancate in un grido restato a mezzo, ovvero nella fatica
dell’ultimo, disperato respiro; bruciacchiati, alcuni, o anneriti dai lapilli
delle fiamme e dal depositarsi dei fumi; quando non, addirittura arsi, perché
presi dentro il gorgo stesso degli incendi”.
L’ultima sequenza è nella Piazza della
Cattedrale, piena di morti, davanti al Duomo in rovina, con le sole grandi
pareti laterali. Qui gli angeli della morte si fermano: “Adesso si trovavan lì,
davanti alla gran porta bronzea dell’entrata. Spensero fari e motori; scesero
dalle Yamaha; si tolsero i caschi e alzaron la testa verso i cieli, mostrando
così tutta la loro tragica ed ossea bellezza”.
Ciò che segue è una visione,
un’apparizione enigmatica e insostenibile allo sguardo: “Allora, proprio nel
non definibile punto in cui il cielo pareva coprir i resti della Cattedrale, si
formò qualcosa come una macchia biancastra e lattiginosa che, obbedendo a una
lentissima e solenne pulsione centrifuga, andò, piano piano, allargandosi.
Pareva che essa girasse e rigirasse su di sé per darsi senso e una figura; o
che, come un immenso serpente, tentasse di divincolarsi, e che quel movimento
non dovesse aver più fine. Non occorse, tuttavia, molto perché, nel ripetersi
sempre più spietato dei bronzei clangori, quella cellula, sempre biancastra e
lattiginosa, mostrasse d’essere in atto di generare da sé qualcosa come un’immane
e mai vista forma umana”.
Il romanzo si conclude con questa
immagine misteriosa, davanti alla quale l’io narrante perde i sensi. E noi lettori restiamo in sospeso.
Mauro Germani
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