C’è
un prima che diventa oltre nella pittura di Domenico Gabbia.
Un passato lontano che si trasforma in sogno. Un’infanzia creata, che si compone in un altro tempo e in un altro spazio.
Al di là di ogni prospettiva. Al di là di ogni coordinata. Dove le figure e gli
oggetti sono fissati per sempre in un attimo
eterno, senza movimento, còlti nella sorpresa del loro essere, in una sorta
di meraviglia antica, in una purezza dolce e materica insieme.
Perché
non c’è evanescenza in questa pittura ed il colore e la luce sono sostanza,
s’addensano come fossero memorie di un tempo mai visto, ma solo sognato, che
ora magicamente appare al nostro sguardo nella sua concretezza.
È
la realtà del sogno che ci cattura. È quell’impossibile
che abbiamo perduto o dimenticato e che ora in questi dipinti improvvisamente
vive e reclama la sua verità.
Se
da un lato questo rendere visibile l’invisibile richiama la concezione
dell’arte, nonché certe luci, certe tonalità di colore proprie di Paul Klee,
dall’altro nell’opera di Domenico Gabbia non c’è quell’astrattismo geometrico e
ragionato che caratterizza spesso i dipinti dell’artista svizzero. Non c’è
rarefazione della materia, ma al contrario il suo inverarsi in forme pregnanti,
dense e stratificate, sebbene collocate in atmosfere di levità, di suggestione
e quasi di sortilegio.
Ed
è proprio qui che risiedono l’originalità e la forza di questa pittura.
Ecco
allora che quei bambini solitari, quei giochi, quelle biciclette, quei
funamboli, quegli animali, quegli alberi, quelle case, quei cieli – nella loro
magica sospensione e nella loro eternità smarrita – diventano per un istante
anche nostri, e noi in qualche modo li riconosciamo. E nel medesimo istante –
insieme all’artista che li ha dipinti – scopriamo in noi una ferita antica, che
è nostalgia di ciò che non è stato,
rammarico per aver abbandonato il desiderio e l’utopia di una realtà diversa,
più intima, più segreta.
Domenico
Gabbia, infatti, dipinge un’infanzia sognata,
che è al contempo segnata dalla
materia stessa che la crea, ovvero da righe, tracce, graffi, come inevitabili
cicatrici dell’esistenza e del divenire. Senza alcuna violenza, però. Senza
squarci laceranti. Come la constatazione di un destino che non è fine, non è nulla, ma la semplice consapevolezza che l’altrove delle
immagini non è immune dal tempo nostro e dalla nostra precarietà.
Accanto
alla purezza e all’innocenza di ciò che viene rappresentato, alla solitudine di
quelle figure e di quegli oggetti ritagliati in un altro mondo, come fossero
monadi di un universo in sé concluso, semplice e autonomo, si può avvertire
un’aria crepuscolare, una sottile e silenziosa malinconia, che è tutta del
presente. Ed è interessante notare la presenza, in alcuni dipinti, di una
nebbia di colore che vela il campo visivo, come a testimoniare la fatica di
scorgere pienamente il mondo sognato, le sue forme nascoste, la sua anima
misteriosa.
Ciò
che non è stato, però, non è assente,
è lì, sulla tela. L’altro passato
c’è, ci guarda, e noi lo guardiamo nel paradosso di una distanza, che è anche prossimità. È un mondo lontano e contemporaneamente
vicino. È una scomparsa che si colma, un vuoto che a poco a poco si ripopola, a
tratti, a frammenti, in piccole aree, in spazi sospesi. È un riaffiorare di
relitti sommersi, dopo un lungo naufragio, e il loro ritornare alla terra,
alla luce, ai nostri occhi.
Ed
è proprio questo sorprendente equilibrio, tra lontananza e intimità, che si
rivela nei dipinti e non finisce di stupirci. Come se vedessimo un’altra parte
di noi. Come scoprissimo un’identità remota e più umana, un sogno graffiato che torna.
Così,
Domenico Gabbia, con la sua pittura, con le sue linee essenziali, i suoi
colori, che s’accendono di una luce calda e metafisica, disegna e dipinge il
nostro incantesimo perduto, quella vita altra e impossibile, che è stata un tempo
il nostro segreto e che magicamente ritroviamo.
Mauro Germani
Nota biografica
Domenico Gabbia è nato nel 1946 ad Azzano Mella, in provincia di Brescia –
dove vive e lavora –.
Nel 1977 ha effettuato la prima esposizione personale nella sua città, a
cui hanno fatto seguito altre quaranta in Italia, nel resto d’Europa e in Medio
Oriente.
Nel 2003 il Museo d’Arte e Spiritualità di Brescia lo ha invitato a coniare
un’opera sul Volto di Cristo, allo scopo di realizzare un’ampia
e itinerante mostra nelle più importanti sedi pubbliche nazionali, insieme ad
artisti quali Renato Guttuso, Oskar Kokoschka, Giacomo Manzù, Georges Rouault, Graham Vivian Sutherland.
Numerose le recensioni e pubblicazioni all’interno di mensili nazionali,
come “Arte Mondadori”, “Arte In”, “Stile”, “Le scelte di Sgarbi”.
Intorno al suo lavoro pittorico hanno scritto alcuni dei maggiori critici
italiani, tra i quali figurano: Elvira Cassa Salvi, Mauro Corradini, Maurizio
Bernardelli Curuz, Fausto Lorenzi, Vittorio Sgarbi.
Tutti i suoi dipinti sono realizzati mediante l’utilizzo di ammaniatura a
gesso, polveri di marmo, tele grezze, juta e lino, colori in polvere per
affresco, oilbar, fusaggine e acrilico.