Dramma
di straordinaria forza espressiva, pubblicato nel 1967, La Monaca di Monza di Giovanni Testori, dove i morti si fanno carne
e parlano, gridano, soffrono su un palcoscenico che non vuole essere per lo spettacolo,
ma luogo di rivelazione, di tragedia, di lotta contro sé stessi e il destino.
Dramma di buio e di sangue, di passioni invincibili, di lacrime e di
solitudini. Dramma di vita che si agita ancora nella morte e di morte con
ancora addosso la vita. Dramma di rantoli, di amori terribili, di ipocrisie, di
infamità, di gelosie senza requie. Dramma di religione spezzata, incompresa, sfidata,
bestemmiata, ma anche invocata.
La
tragica storia di Marianna de Leyva - poi Suor Virginia contro la sua volontà –
grida nella notte da sempre, nel cortile del convento di S. Margherita, e
convoca i suoi spettri, “mucchi di polvere e stracci”, dentro Monza, dove “il
Lambro continua a andare e andare…”.
Ed
ecco nel buio, appena rischiarato dal lume di una lampada, lei vede Don
Martino, suo padre, poi le suore e le converse, Maria Virginia, sua madre, Gian
Paolo Osio, l’amante, e Caterina, Don Arrigone, il Vicario Criminale, e i
soldati, i sicari, i monatti… Tutti lì, nell’ombra, come in un processo condannato
all’eterno, in uno spazio che è e non è, in un tempo che è e non è. Marianna
attrae ed allontana, e con la sua voce e la sua coscienza, supplica e maledice.
Dietro ogni sudario c’è una vita che è pulsata ed ha incontrato altre vite, una
vita contaminata e che ha contaminato. Dietro ogni morte, o
meglio dentro ogni morte, c’è un grumo di vita espulso, un corpo che è
stato, una luce, uno sguardo, un abisso di carne vorace che inghiotte, oppure
che è stata inghiottita. Per la terra e nella terra. Tra i vermi. Nell’ultimo
grembo.
Perché
la nascita di Marianna, allora? Perché quel destino prigioniero, quella
disperazione fatale, quell’amore crudele ed assassino?
Il
buio circonda tutti, viene da loro che sono morti
senza morire e viene dai vivi, dal mondo. Ma non viene forse anche da Dio,
che promette e poi abbandona? E dov’è mai Dio in questo spazio liminare, in
questo confine desolato, in mezzo a questi fantasmi di carne offesi e lacerati?
Dov’è colato e per chi, per dove il sangue di Cristo? “L’amore è
veramente questo vento, è veramente questa tempesta?” si chiede Marianna. E
poi: “Dov’è la giustizia? Dov’è la pace?”.
L’amore
di Marianna è il desiderio della sua felicità, è il suo sogno maledetto, è il
suo impulso vitale che ha gli occhi e la bocca di Gian Paolo, è la dolcezza e
la crudeltà della carne, ma è anche la sfida a Dio, alla costrizione sofferta,
alla menzogna, fino a diventare poi resa alla gelosia, al possesso esclusivo,
al male e al delitto. Intorno a lei una catena perversa di ipocrisie e di atrocità.
Una condanna che crea condanne.
E
loro, i personaggi, cioè gli evocati
e i convocati, sono tutt’uno con la
tragedia di lei, generata senza amore, che inveisce contro il padre, colpevole
di non avere amato Maria Virginia, morta di peste, sconciata da Dio, “lasciata
morire sui gradini del palazzo, sola, in mezzo al ronzio delle mosche e ai
vomiti dei cani”. Lei, Marianna, non voluta, allontanata e chiusa nel convento,
precipitata nello scandalo, nell’amore più violento, nel male, per lo sguardo e
i baci di Gian Paolo, per la sua bestemmia – come egli stesso confessa: “È da
sempre che non dico altro che questo: volevo Virginia; la volevo per lei così
com’era; la volevo per la sua carne; la volevo per la sua veste; ma soprattutto
la volevo per la bestemmia”.
La
rivolta di Gian Paolo è però diversa da quella di Marianna: è contro le regole,
le leggi e tutto ciò che “nella vita appare logico e necessario”. Lei, invece, sente il male, ne avverte l’origine e
l’inevitabilità, ciò che fa divenire l’uomo vittima di Dio. Non è forse Lui,
“quel qualcuno o qualcosa che non toccheremo mai e che ci insegue come se
volesse riprenderci sempre e costringerci a diventare sue prede”?
Marianna
è ancora prigioniera: del suo corpo, del suo amore, di una malvagità
originaria, di un Dio lontano e indifferente. Fino a quando? Potrà esserci
finalmente un’alleanza? Potrà esserci pietà per la nostra condizione umana, per
i nostri corpi dilaniati e offesi, per il nostro sangue violento e malato?
Sono
queste le domande e le ossessioni di Testori, l’ultimo grande drammaturgo che
abbiamo avuto, un autore che non si è mai risparmiato, che si è esposto con
assoluta sincerità e che ha interrogato l’esistenza fino alla parola gridata o
balbettata, al rantolo, nel buio del dolore e della sofferenza indicibile (si
veda la sua opera forse più estrema, In
exitu), alla ricerca – tra rabbia, solitudine e preghiera - di un senso ulteriore, di una luce altra, di una pace.
Il
dramma si chiude con un’invocazione che è insieme grido disperato e terribile
preghiera: “Punta i tuoi occhi su questi stracci che ti bestemmiano, su questo
niente che ti reclama. Te lo chiediamo con lo strazio delle nostre ossa e delle
nostre carni finite. Liberaci dalla nostra carne; liberaci dal nostro sangue:
liberaci dalla nostra morte. O distruggiti anche tu nella nostra carne, nel
nostro sangue, nella nostra morte”.
Qui
non possiamo che rabbrividire, in preda a una commozione profonda.
Mauro Germani