Giovanni Testori, In exitu,
Garzanti 1988
In exitu è una delle opere più estreme di Giovanni Testori, nella quale la scrittura è continuamente spezzata, lacerata, attraversata da uno spasimo atroce. C’è un balbettio, un singhiozzo che non ha requie nella voce di Gino Riboldi, il giovane drogato che si prostituisce ed è ormai arrivato alla fine della propria travagliata esistenza. Una voce di pena e di condanna, una voce di nessuno, ai margini della grande metropoli. Una voce che esce dal buio della carne crivellata dalle siringhe, dai visceri, dai ricordi improvvisi, dalle visioni che sconvolgono la mente e il cuore.
Testori
scrive in una lingua deformata, un impasto di dialetto,
di latino e di italiano – una lingua martellante, reiterata, sempre incompiuta,
che vuole essere tutt’uno col dramma del protagonista. Qui il respiro
s’interrompe e riprende, diventa un rantolo, perché la contesa
tra vita e morte prosegue fino allo strazio ultimo, fino alla fine.
Scrittore e lettore sono chiamati, perciò, a uno sforzo estremo, che potremmo
definire sacrificale, in quanto avviene dentro il corpo
della scrittura, passa attraverso i suoi nervi, i suoi borborigmi, le sue
afasie. Per questo Testori chiama a un sacrificio,
di cui egli stesso è officiante e vittima, in uno sdoppiamento drammatico: si
vedano, infatti, le parti in cui il protagonista si rivolge direttamente allo
scrittore.
Leggendo In
exitu, non si può non riflettere sulle questioni fondamentali – e più
inquietanti – concernenti il rapporto tra parola ed esistenza, che ha segnato
indubbiamente tutta l’opera di Testori, in una tensione febbrile,
cioè a dire mai squisitamente letteraria, ma ustionata dall’essere-nel-mondo,
dalle passioni, dalle offese che ci assediano e ci assalgono fin
dalla nascita.
Non
voleva certo essere neutrale, Giovanni Testori. Sia prima che dopo lo scandalo della
conversione – suggellato dal monologo Conversazione con la morte,
letto da lui stesso la sera della prima al Salone Pier Lombardo di Milano il 7
novembre 1978 e successivamente portato in diverse chiese – possiamo ravvisare
un’urgenza esistenziale, un bisogno d’interrogare la vita, di
scavare dentro la ferocia del venire al mondo per cercare o invocarne un senso,
una significanza, tra bestemmia e preghiera. Mai nessuna difesa, dunque,
nessuna distanza tra la vita e l’opera.
E anche In exitu – quest’opera ultima, terribile e
al tempo stesso tenera nella sua crudeltà – vide la presenza, il 13 dicembre
1988, dello stesso Testori nel ruolo del lettore, accanto a una
impressionante interpretazione di Franco Branciaroli, quando andò in scena alla
Stazione Centrale di Milano (con il pubblico sulla scalinata ovest), luogo dove
termina la via crucis di sofferenza, di sesso e di
degradazione del protagonista. Una via crucis, le cui dolorose
tappe avvengono “nella notte (marcia)”, nella città “coperta di nebbia (marcia)
sulla groppa della città-cavalla. Viola. Nella notte. Marcia”, nella città
“contristata”, “umiliata”, “derelitta”, “assediata”, dove “Lì, è. Lui
(nessuno). Lì fu (nessuno). Lì era. Lui (nessuno). Lì sarà. Lui (nessuno)”.
Nulla
viene risparmiato da Testori: perversioni, oscenità, violenze fisiche e verbali
si alternano a momenti d’abbandono, di slanci di un amore offeso, dilaniato, ma
che pure a tratti emerge da ogni nefandezza.
Perché
tutto, in fondo, è un grido – un urlo impastato di
disperazione, di rabbia ma anche d’invocazione, di richiesta di soccorso. Come
se davvero la scrittura non fosse più in grado di tollerare l’esistenza e il
suo abisso: troppa carne ferita, troppo dolore impronunciabile, troppo inferno,
troppi marciapiedi, troppi cessi di dannazione, in cui nascondersi
e sprofondare. Fino all’agonia, alle ultime visioni, alla vertigine. Come in
un ritorno, una nuova nascita, finalmente, tra il
vomito e il sangue: “Per l’eterno. Nella Goccia. Serrato su. Imbracciato. 'Me
in una cuna. Pussè ammò. 'Me in una cà. La sua. La sua de lu. La sua de lu. La
sua de lu. La sua de lu, mamma. La sua de lu, papà…”.
E
alla fine, dopo la morte del protagonista, la scrittura si ricompone,
nell’ultima splendida sequenza del libro:
“Quanti
l’indomani, s’affrettaron per primi ai treni, lo videro. Coperta d’un lenzuol
bianco, la barella, su cui era stato deposto, attraversò, infatti, l’intera
stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andarono oltre. Tutti, però, al
passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi
sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte e il buio di ciò che,
di là da esse, risultava improprio definir alba, benché neppur possibile fosse
ritener notte”.
Mauro
Germani