Gottfried Benn, Morgue, Einaudi, 1971
Le
prime poesie di Gottfried Benn sono contraddistinte da un livido
espressionismo, qua e là punteggiato da note sardoniche. Il poeta descrive la
condizione umana segnata dalla fine, quando la decomposizione è ormai in atto,
oppure è prossima a manifestarsi. L’irreparabile
incombe in tutti i testi di Morgue
come una condanna fisiologica che
disintegra i corpi mediante una esecuzione
incessante, a cui il poeta assiste con la freddezza di un anatomopatologo.
E leggendo questi versi si comprende che per Benn la malattia è in realtà l’esistenza
stessa, che risulta minata ab origine:
l’infezione nasce nella carne, nella materia e non l’abbandona più, così come
si evince dalla terribile e paradossale Requiem,
nella quale ciò che resta della pulsione di vita nei tronconi dei corpi all’obitorio
viene cooptato dalla morte in una sorta di infernale capovolgimento: “Due su
ogni tavolo. Di traverso / tra loro uomini e donne. Vicini, nudi, / eppur senza
strazio. Il cranio aperto. / Il petto squarciato. Ora figliano / i corpi un’ultima
volta”.
Il
Benn di questi testi non è ancora quello della cosiddetta staticità poetica.
Qui – come afferma Ferruccio Masini nella prefazione – “si svellano e si
amputano i nervi e i tendini che assicurano l’uomo al mondo; qui si fa del
mondo un immenso cadavere”.
Questo
annichilamento progressivo dell’esistenza opera in Benn una riduzione totale di
ogni atto umano, che appare inutile ed assurdo, perché cerca di nascondere la
propria verità profonda, cioè la putrescenza della carne.
L’uomo è smembrato, è
un cervello, o un insieme di organi destinati a perdersi, a ritornare alla
terra, ma senza alcuna rinascita possibile: “Carne si livella al suolo. Fiamma
si dà via. / Umore si appresta a colare. Terra chiama”.
Non c’è nulla di
sentimentale in Benn. Gli esseri umani s’incontrano e si accoppiano spinti da
una forza naturale a cui non possono sottrarsi, ma che un giorno rivelerà il
loro niente, nello spietato raffronto tra il prima e il dopo, tra l’incoscienza
vitale di ogni amore o passione e la rigidità del cadavere.
Accanto
a questa tematica centrale, si può rilevare, tra le altre, la nostalgia per
gli antenati primevi (“l’uomo della selva primeva / che tutto dal suo ventre
genera”), in contrapposizione alla ferita della propria nascita, presente nella
poesia Madre: “Come una ferita porto
te / sulla fronte, che non si rimargina”.
La
lettura di questo primo Benn ci inserisce così in una dimensione esistenziale ultima, frantumata, tra la verità terribile della scienza e la consapevolezza che l'uomo è fatalmente condannato non solo dalla propria nascita, ma anche dal
proprio tempo.
Mauro Germani