Ringrazio davvero di cuore Angelo Conforti per questo suo bellissimo articolo sul mio libro.
La recensione è stata pubblicata anche sulla rivista web "Odissea" diretta da Angelo Gaccione.
La recensione è stata pubblicata anche sulla rivista web "Odissea" diretta da Angelo Gaccione.
Giorgio
Gaber: dialettica negativa e nuovo umanesimo
Recensione
del saggio di Mauro Germani, Giorgio
Gaber. Il teatro del pensiero, Editrice Zona, Arezzo, 2013
di Angelo
Conforti
Il boom
L’Italia degli
anni ’50 e ’60 non è soltanto il Paese della ricostruzione e del miracolo
economico. C’è un profondo rinnovamento culturale in atto che coinvolge tutti i
settori della produzione intellettuale ed artistica. Anche il mondo della
musica cosiddetta «leggera» sta radicalmente cambiando, sotto l’influenza del
rock and roll, ma anche degli chansonniers
francesi.
Tra i tanti
personaggi emergenti del periodo ben presto si segnala Giorgio Gaber, cantante
e autore poliedrico, formatosi anche alla scuola del jazz, e interessato a
fondere entrambe le suggestioni più in voga, quella americana e quella
d’Oltralpe. È uno sperimentatore, curioso e aperto, garbato e ironico, dotato
di un’ottima mimica e di una presenza scenica efficace. Il suo successo cresce costantemente.
Si rivela un partner ideale per Mina, con cui fa coppia in alcuni varietà del
sabato sera.
Le sue canzoni
hanno spesso un tocco di originalità e di sensibilità per la dimensione del
quotidiano che si esprime in una serie di titoli che attraversarono tutti gli
anni ’60, come La ballata del Cerutti,
Trani a gogò, Porta Romana, Il Riccardo, Barbera e
champagne, Come è bella la città,
La Chiesa si rinnova, Suona chitarra.
Ma
Gaber non scrive solo canzoni. Già nella stagione ‘60/’61 mette in scena Il Giorgio e la Maria, regia di
Giancarlo Cobelli, al Teatro Gerolamo di Milano, una pièce teatrale recitata in coppia con Maria Monti. E nel 1966, a
Studio Uno, a fianco di Mina, si esibisce in un piccolo sketch da lui scritto e
recitato, Il Tic, stupendo pezzo di
teatro in cui emergono con evidenza tutte le sue doti mimiche, gestuali,
vocali, oltre alla sua attenzione per le tematiche sociali, che all’epoca sta
già caratterizzando alcune delle canzoni che abbiamo citato.
Il ‘68
Tutte le energie
innovative di quegli anni si coagularono nel grande movimento del ’68 che
sembrò aprire nuovi orizzonti per il futuro della società italiana. Ma
l’attentato terroristico alla Banca dell’Agricoltura di Milano, con tutto quel
che significava sul piano politico e sociale sconvolse tutti gli scenari
plausibili e aprì una lunghissima stagione di degrado che coinvolse pressoché
tutte le componenti del Paese.
Probabilmente
già allora, più in profondità, nelle dinamiche socio/culturali in atto si stava
già preparando la centralità della televisione e la conseguente mutazione
antropologica cui avrebbe dato origine nei decenni successivi: quella
trasformazione nel costume, nella mentalità e negli atteggiamenti che Jean
Baudrillard ha chiamato “il delitto perfetto”, la sostituzione del mondo
virtuale televisivo al mondo reale, l’uccisione della realtà da parte della tv.
Gaber intanto
era diventato un vero mattatore del varietà televisivo, ma continuava a
sperimentare: l’album concettuale L’asse
di equilibrio è del 1968, nei due anni successivi gira per i teatri con
Mina, a contatto diretto col pubblico. Poi un altro Lp anomalo, Sexus e politica con Virgilio Savona
(testi di autori latini).
Da agosto a
ottobre del 1970 conduce l’ultimo varietà televisivo del sabato, E noi qui.
Gaber è
all’apice del successo, ma forse è tra i pochi che han già intuito quale sarà
la parabola televisiva, già sospetta il delitto
perfetto.
E allora
abbandona la televisione. Apre la porta del cielo di cartapesta dello studio,
come farà anni dopo in un celebre film il protagonista del Truman show, per uscire nel mondo reale e non tornare più indietro.
La svolta: da «personaggio» mediatico a
«persona» reale
Nei trent’anni
successivi il declino dell’Italia sembrerà sempre più irreversibile e ben pochi
furono coloro che lo capirono per tempo e seppero sottrarsi, senza rimpianti,
alla logica della società dello spettacolo preconizzata da Guy Débord, cioè
alla logica del consumismo, della mercificazione della cultura e della
trasformazione della merce in spettacolo. Gaber fu tra questi e in quei decenni
percorse, con estrema coerenza, una strada totalmente alternativa e lucidamente
critica, una strada di ricerca, di sperimentazione, di autenticità, di rapporto
onesto, sincero, lucido e critico con la realtà concreta, totalmente altra rispetto alla realtà virtuale
della tv.
In quegli stessi
decenni alcuni intellettuali inseguivano l’utopia della postmodernità individuando
nella perdita del senso di realtà e nella moltiplicazione delle immagini un
fattore altamente positivo, liberatorio e fonte di emancipazione. Nel contempo
quasi una società intera si lasciava tentare dalla promessa che la televisione
faceva a tutti e a ciascuno di diventare famosi almeno per 15 minuti, secondo
la profezia di Andy Wharol.
Gaber, invece,
procedeva «in direzione ostinata e contraria», per usare le parole di un famoso
cantautore come Fabrizio De André. Con una scelta radicale e, in qualche modo,
clamorosa rifiutava definitivamente di trasformarsi in un personaggio del mondo virtuale e sceglieva, da tutti i punti di
vista, di ritrovare il rapporto con la realtà: con il pubblico, con gli
avvenimenti, con il contesto socio-culturale e politico, con la fisicità della
comunicazione. Il teatro, uno dei mezzi di comunicazione e di spettacolo più
antichi, gli consentiva di oltrepassare tutti i limiti e le contraddizioni
moderne e postmoderne, garantendogli la possibilità di tornare ad essere una persona reale, di esprimere pienamente
se stesso, di esercitare il proprio spirito critico e la propria creatività,
senza limiti e condizionamenti di sorta. Non a caso la parola persona ha un pregnante significato
ontologico-esistenziale ma anche teatrale.
Il teatro del pensiero
Da qui inizia il
saggio di Mauro Germani (Giorgio Gaber.
Il teatro del pensiero, Editrice Zona, Arezzo, 2013) che ricostruisce in
modo appassionato ed esauriente tutta l’opera del Gaber «filosofo ignorante»,
intellettuale libero e disincantato, cultore del dubbio, strenuo difensore del
pensiero critico, analista anche spietato di una decadenza spaventosa, di
“un’idiozia conquistata a fatica”, trent’anni dedicati al Teatro/Canzone e al
Teatro d’Evocazione, i due grandi percorsi di sperimentazione e innovazione
artistica e culturale in cui si è espressa, con grande originalità, l’inventiva
e la multiforme creatività di Gaber e dei suoi collaboratori, primo fra tutti Sandro Luporini, coautore dei testi di canzoni, monologhi e prose.
Innanzitutto
Germani ricostruisce il percorso di Gaber alla ricerca di una espressione
teatrale originale e autentica, dai primi spettacoli «in cui prosa e musica,
monologhi e canzoni si alternano e sono funzionali gli uni agli altri
all’interno di un discorso unitario», attraverso le produzioni successive in
cui la scrittura teatrale sarà sempre più elaborata, fino al teatro di sola
prosa, fondato sulla «rievocazione/rappresentazione» di una storia, ma anche
sulla riflessione, l’autoironia e il distacco critico.
In un capitolo
successivo Germani chiarisce il ruolo peculiare svolto dalla musica nell’opera
di Gaber, mettendo in luce quelle componenti che fanno del suo teatro un caso
unico nel panorama musicale italiano, anche in rapporto a quei cantautori cui è
stato talora erroneamente accostato. La dimensione teatrale, la scrittura dei
monologhi che si alternano alle canzoni, la complessità del ruolo della musica,
la ricerca di incisività e di fisicità della comunicazione non hanno pressoché
nulla a che vedere con la ricerca di «poeticità» tipica dei cantautori e con i
loro recital che non prevedono una
specifica strutturazione teatrale, anche quando si svolgono in teatro.
I temi esistenziali
Con rigore
metodologico Germani analizza poi i più importanti temi che Gaber e Luporini
hanno trattato nei sedici spettacoli che hanno ideato e messo in scena tra il
1970 e il 2000.
Un tema centrale
riguarda «l’enigma del corpo», la sua ambivalenza e problematicità e il
rapporto con la mente. Si tratta di un tema esistenziale che presenta anche
importanti riflessi sociali. Esso ha a che fare con la ricerca
dell’autenticità, dell’integrità del soggetto, del superamento della scissione
patologica tra pensiero e azione, tra intenzioni e atteggiamenti, che spesso
rende contraddittorie le nostre esistenze. Tra l’altro, un autentico
rinnovamento sociale è possibile soltanto grazie a persone che abbiano ritrovato la loro «interezza». Non a caso
Germani sottolinea la dimensione fisica dei suoi spettacoli, in cui la parola
si faceva corpo: «I suoi movimenti erano tutt’uno con i pensieri, le emozioni e
i sentimenti che esprimeva» (M. Germani, Giorgio
Gaber. Il teatro del pensiero, cit.).
Un
altro dei temi fondamentali del teatro di Gaber/Luporini è quello dell’amore,
«inteso come sentimento che dovrebbe essere espressione di pienezza,
appartenenza reciproca e responsabilità» (M. Germani, cit.). Dopo una lucida
analisi delle forme alienate dell’amore, ridotto a routine, a sessualità
meccanica, a forma di evasione o di trasgressione rispetto all’ipocrisia delle
convenzioni sociali, l’amore autentico si rivela come un «ideale da
raggiungere», che esige la fedeltà a noi stessi, richiede «una vera e propria
rivoluzione del nostro modo di essere» e riguarda la pienezza della nostra
apertura all’altro e al mondo, alla «realtà in tutte le sue manifestazioni»
(ibidem).
La società e la politica
Germani dedica
una corposa parte centrale del suo saggio all’analisi critica che
Gaber/Luporini riservano alla critica della società e del potere, anche alla
luce dei loro fondamentali riferimenti filosofici e culturali: Céline, Sartre e
l’esistenzialismo, Pasolini, la Scuola di Francoforte (Adorno e Horkheimer).
Viene così
ricostruito il percorso degli spettacoli di Gaber, dalla denuncia della
mediocrità piccolo-borghese del signor G, alla fine dell’illusione
rivoluzionaria che il movimento del ’68 aveva fatto creder possibile, dalla
finta libertà obbligatoria del modello capitalistico e consumistico, che
conduce al disfacimento del soggetto ed al suo asservimento alle mode, nonché
allo strapotere mediatico, all’indignazione per una progressiva
disumanizzazione della società, dalla fine delle illusioni di una generazione
che ha perso («il volo mancato» di una «razza in estinzione») alla nuova
barbarie che dilaga sul finire del millennio e che è il frutto paradossale
dello sviluppo capitalistico/borghese e segna la rinuncia al pensiero e alla
libertà autentica, nel nome del mito dominante del successo.
Giustamente
Germani sottolinea «la sua [di Gaber] straordinaria capacità di interpretare i
fenomeni sociali, ma anche di intuire in largo anticipo i loro possibili
sviluppi, di precorrere quindi i tempi» (ibidem). A questo proposito è
interessante citare, tra i tanti, il brano tratto da «Mi fa male il mondo -
seconda parte», canzone-prosa dello spettacolo E pensare che c’era il pensiero (1995-96), in cui, riferendosi alla
tv italiana, si parla di «grande libero mercato delle facce. Facce facce...
facce che lasciano intendere di sapere tutto e non dicono niente. Facce che non
sanno niente e dicono di tutto. Facce suadenti e cordiali con il sorriso di
plastica. Facce esperte e competenti che crollano al primo congiuntivo». Vien
da pensare a ciò che avrebbero scritto Gaber e Luporini se avessero conosciuto
Facebook, il grande libero mercato mondiale delle facce che trionfa, in
un’epoca che, come ha scritto di recente il sociologo Luciano Gallino, è
contrassegnata dalla sconfitta del pensiero critico e dalla «vittoria della
stupidità» (L. Gallino, Il denaro, il
debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino, 2015)
Ma non si può
chiudere questo paragrafo senza accennare al fatto che Gaber è tutt’altro che
un «apocalittico» e che la sua lunga battaglia polemica è stata sempre
orientata alla ricerca dell’autenticità, della pienezza di vita, della libertà
che è anche responsabilità, dello spirito critico. Ricorda Germani che la coscienza critica e la dialettica negativa, mutuate dai
filosofi francofortesi, sono sempre legate all’utopia, nel senso costruttivo del termine. Perciò, «l’ultimo
messaggio di Gaber, espresso nella canzone-prosa Se ci fosse un uomo, consiste proprio nell’esortazione ad
“immaginare un neo-rinascimento / un individuo tutto da inventare / in continuo
movimento”» (Germani, cit.).
Altri temi: la morte, Dio e l’uomo
Gaber non si
tira indietro neanche di fronte al tema della morte, nonostante sia possibile
parlarne soltanto rispetto alla morte degli altri, dal momento che la propria
morte resta fuori dalle esperienze esistenziali possibili. L’approccio al tema
è, come sempre, mutuato dalle fenomenologie tipiche dell’esistenzialismo, di
cui tutta l’opera di Gaber costituisce in qualche modo un prolungamento. La
morte rivela, come altre esperienze radicali della vita (l’amore, ad esempio)
la nostra impotenza, fa emergere sentimenti nascosti, contraddizioni, paure,
ansie, ipocrisie.
Ma c’è un’altra
morte che preoccupa Gaber e riguarda la dissoluzione del soggetto,
l’alienazione totale dell’individuo, che non sa più essere persona, ma si
lascia manipolare dalle mode, dai poteri occulti, quello dei media e quello delle merci. È la
imminente morte dell’uomo occidentale che, con echi del Nietzsche di Così parlò Zarathustra (1883), Gaber
denuncia con modalità ricorrenti lungo tutti i suoi spettacoli. Ci torneremo
più avanti.
Infatti, prima
di tornare a parlare dell’uomo, Germani analizza la peculiarità del concetto di
Dio che emerge dagli spettacoli di Gaber. Si tratta di un Dio immanente, che
nulla ha a che vedere con il Dio delle religioni positive, con i loro dogmi,
culti e rituali. Contrario a tutti i dogmatismi e a tutti gli assoluti, nei
confronti dei quali continua a far appello alla necessaria ed auspicabile
rinascita del pensiero critico, Gaber si dichiara laico e seguace del dubbio.
Il Dio di Gaber rappresenta l’«essenza del pensiero», è un «Dio interiore […]
che coincide con la ricerca stessa, con la sete di conoscenza e verità»
(Germani, cit.) ed è, pertanto, capace sia di violenta indignazione che di
profonda pietas.
Anche Dio, negli
spettacoli di Gaber, rimanda pur sempre all’uomo, che costituisce, infine, il
centro di tutto il suo teatro, uomo «inteso non come soggetto assoluto, ma come
individuo concretamente esistente» (ibidem).
Germani osserva
che quella di Gaber «è una sorta di fenomenologia dell’esistenza, uno sguardo
rivolto alla condizione umana nella sua totalità, non chiusa quindi in se
stessa, ma aperta e attraversata da tensioni e problematiche che investono
anche la sfera sociale, politica ed economica […una] indagine appassionata
intorno all’esistenza e alle sue possibilità, ai suoi drammi e ai suoi dilemmi,
alle sue speranze e alle sue paure» (ibidem).
Come abbiamo
visto poco sopra, Gaber e Luporini percorrono senza infingimenti tutte le tappe
della spaventosa deriva antropologica dell’uomo occidentale, ma nel contempo,
rifacendosi a Nietzsche, auspicano l’avvento di una sorta di oltreuomo, dotato di «una nuova
coscienza» (titolo di una canzone-prosa dell’ultimo spettacolo di Gaber, Un’idiozia conquistata a fatica,
1997-2000): è «l’urgenza di un uomo migliore» e la «necessità di una spinta
utopistica» (ibidem) che possano dare origine ad un nuovo umanesimo e a un
nuovo rinascimento, al culmine di «questo nostro medioevo» (Gaber, Luporini,
«Se ci fosse un uomo», Io non mi sento
italiano, cd postumo, 2003).
Il pensiero libero
Rendere
possibile un nuovo rinascimento dipende soprattutto dalla riscoperta del
pensiero, che costituisce l’essenza di tutta l’opera di Gaber negli ultimi
trentatre anni della sua vita e del suo lavoro: «teatro del pensiero», secondo
l’icastica e perfetta formula con cui lo ha definito Germani:
«Il pensiero cui
tende tutta l’opera di Gaber non è l’affermazione di un sapere organicamente
costituito, né tantomeno di una specifica ideologia, quanto uno slancio, una
tensione ideale che vuole essere tutt’uno con l’esistenza, con l’esserci, qui e
ora, dell’uomo. È la spinta utopica che cerca di dare un senso concreto al
nostro essere nel mondo […] Questa tensione è per Gaber qualcosa di “fisico”,
non è mai astratta, deve in qualche modo essere carne […]» (Germani, cit.).
A questo
proposito Germani cita la canzone «Un’idea» che già nello spettacolo del
1972-73 Dialogo tra un impegnato e un non so, esprimeva, con la geniale
invenzione del «mangiare un’idea» per renderla carne, la possibilità di fare
un’autentica rivoluzione, per poter costruire «un individuo compiuto /cosciente
e intero», esigenza che troviamo ribadita nell’ultimo spettacolo, Un’idiozia conquistata a fatica
(1997/2000), con la canzone «Il luogo del pensiero», in cui si sottolinea l’urgenza
di tale necessità con i versi «cominciando da adesso / prima che l'uomo muoia /
nel grande vuoto del suo successo» (Gaber, Luporini, cit.).
Possiamo
concludere con le parole di Germani, in cui mirabilmente si sintetizza tutto il
senso dell’opera di Gaber e della sua scelta di vita: «Essere una persona: è questo l’obiettivo cui deve
tendere il pensiero. Un pensiero davvero libero,
non condizionato dalla società o dalla dittatura del mercato, dalla
compra-vendita delle idee» (Germani, cit., corsivi nostri).