Intervista
a MAURO GERMANI
a cura di Ahmed
Loughlimi
Vorrei iniziare quest’intervista con il primo incontro
di MAURO GERMANI con la poesia. Quando è successo il colpo di fulmine,
oppure è stata una scelta? E chi ha scelto l’altro: la poesia o Germani?
Credo
che sia stata la poesia a scegliere me. Mi ha chiamato fin da bambino. Mio
fratello, più grande di me di undici anni, mi leggeva i suoi versi e quelli di
autori classici come Pascoli. Io certo non capivo, ma ero affascinato dal
mistero di quelle parole che in qualche modo restavano dentro di me nel loro
suono e nel loro enigma.
Che cos’è la
poesia secondo lei?
La
poesia è gettata nel mondo e non ha protezioni, è indifesa. Viene
dall’esistenza e cerca di dirla in
uno sforzo estremo, in una tensione che i poeti conoscono bene. Non è
consolatoria, né appagante. Si situa tra una sfuggente verità e il silenzio.
Sfiora l’indicibile e non salva nessuno. Come dice Umberto Galimberti, la
poesia ci porta nella sfera dell’indifferenziato, dell’originario, della follia
che abita in noi e che rimuoviamo continuamente.
In un mondo materiale, barbaro, superficiale e pazzo
come il nostro, qual è l’utilità della poesia, e quale ruolo ha oggi? Ci
contiamo per cambiare il mondo?
Sarebbe
bello se la poesia potesse cambiare il mondo, ma non è così. Per cambiare il
mondo dovrebbero cambiare gli uomini e la poesia non è in grado di cambiarli,
se non in piccola parte. Anzi, la poesia, quella vera, spaventa.
Lei ha scritto anche narrativa e si occupa della scrittura
di autori classici e contemporanei; come vede la narrativa italiana dei nostri
giorni? E quali sono secondo lei gli scrittori contemporanei che rappresentano
la narrativa come si deve?
A
dire il vero adesso seguo poco la narrativa contemporanea. Non la trovo molto
interessante. Mi sembra nel migliore dei casi che ci siano delle abilità nella
costruzione delle storie, delle “furbizie tecniche”, ma niente di più.
Non c’è nulla di estremo, manca la tensione dell’esistenza, non c’è “follia”,
non c’è “sacro”. Esercizi di stile senza stile. Quello che manca spesso è la
qualità della scrittura.
Lei ha fondato la rivista di scrittura, pensiero e poesia "Margo".Come vede la letteratura italiana contemporanea? E il racconto italiano chi lo rappresenta dopo i grandi Italo Calvino, Dino Buzzati, ecc.?
La
rivista “Margo” è stata un’esperienza molto impegnativa. C’era da parte mia
passione ed entusiasmo. Ero giovane e avevo più energia, ma più o meno le idee
che avevo sulla scrittura sono le stesse di adesso. Ho avuto modo di conoscere
più da vicino l’ambiente letterario italiano ed è stato abbastanza desolante,
anche se ho conosciuto persone che stimo e di cui sono amico. Il racconto
italiano oggi mi sembra morto. Non lo pubblica più nessuno, non so perché. E’
un vero peccato.
Chi sono i poeti e gli scrittori che hanno segnato
Mauro Germani?
Tra
i poeti italiani contemporanei soprattutto Roberto Carifi. Naturalmente ve ne sono anche altri, come ad esempio Mario Benedetti. Tra i classici Giorgio Caproni. Per quanto
riguarda gli scrittori Dino Buzzati, a cui sono molto legato. E poi Kafka e
Céline.
Lei ha scritto un libro sul grande Giorgio Gaber , “Il
teatro del pensiero”. Ci parli un po’ di questo genio.
Gaber
per me è stato fondamentale. Ne sento profondamente la mancanza. Vidi il suo
primo spettacolo a 17 anni e rimasi folgorato. Mi è sembrato giusto dedicargli
un libro, uno studio tematico sul suo teatro. E’ stato un grande maestro
del dubbio, un artista davvero unico e profetico. Ha saputo rinnovare a modo
suo l’esistenzialismo. La sua opera è ricca di riferimenti culturali: Céline,
Sartre, Pasolini, Borges… Poi sulla scena sprigionava un’energia straordinaria.
Alla fine di ogni spettacolo era stremato.
I suoi libri preferiti o diciamo i libri di cui ha
sperato essere lei lo scrittore?
Sicuramente
“Il Deserto dei Tartari” e i “Sessanta racconti” di Buzzati. Ma ce ne sono
tanti altri. “Il processo” di Kafka, ad esempio.
In una o in poche parole. Il suo film o i suoi film preferiti?
Amo
film molto diversi tra loro. Tra i registi prediligo Leone, Bunuel, Hitchcock.
Sono molto legato in particolare a due film di Leone “Il buono, il brutto, il
cattivo” e “C’era una volta il West”, che risalgono al periodo della mia
adolescenza.
Il suo più grande poeta?
Come
si fa a dirlo? Non mi piace definire chi è il più grande.
Che cos’è per lei l’amore?
L’amore
per me è sempre segnato dalla mancanza, non è quella pienezza che sogniamo.
Il teatro?
E’
uno specchio in cui vediamo il nostro pensiero o il nostro nulla, una magia che
quando è davvero tale ferisce.
Gli alberi?
Come
le montagne o il mare o il cielo sembra che vogliano dirci un segreto
antichissimo, qualcosa che ormai è impronunciabile.
La vita?
E’
qualcosa di incomprensibile, potente e fragile al tempo stesso. A volte
spaventa.
La morte?
Ci
accompagna sempre, ma lo dimentichiamo. E’ il nostro segreto.
La donna?
La
donna è sempre un’altra, è sempre Altro. Può essere sogno, bellezza, dannazione
o tutte queste cose insieme. E’ ciò che muta, che cambia sempre.
La bellezza?
E’
un enigma.
Il racconto?
Ogni
racconto è un mondo che si apre, che ci viene incontro e che finisce. Non è mai
un gioco. Ogni racconto è mortale.
La critica?
Non
amo la critica accademica. Deve entrare nel testo, coglierne l’essenza,
assorbirlo in un altro testo altrettanto valido, altrettanto creativo, se
possibile.
La notte?
Ho
sempre pensato che la notte e la mia poesia abbiano molte cose in comune.
Milano?
E’
la città in cui sono nato, la città dell’infanzia, della Bovisa, dei ricordi.
Dagli anni Ottanta ha cominciato a perdere la sua identità. Mi dice sempre
meno…
Gli amici?
Sono
molto selettivo. Ne ho pochi.
Umberto Eco?
Un
intellettuale indubbiamente, non certo un artista o uno scrittore.
Giorgio Gaber?
Lo
sogno spessissimo da quando è morto. Una presenza costante per me.
Dino Buzzati?
Devo
a Buzzati l’amore per la lettura, ma anche le mie prime domande sul destino
dell’uomo.
Mauro Germani?
Non
ho mai saputo chi sia veramente...
Al-Sharq – 10 marzo 2016 –
n. 10129