08/04/2011
MAURO GERMANI - TERRA ESTREMA (Interventi di Marco Ercolani e Fabio Botto) - EDITRICE L'ARCOLAIO 2011
Come scrive giustamente Marco Ercolani
nella prefazione: «Mauro Germani, in Terra estrema, s’inoltra
nell’abisso del dolore e affronta, in modo lirico ma impietoso, il tema
“perturbante” del corpo.» (p.7). Basti leggere l’indice, che riporta i
capoversi, per capire, non solo su di un piano statistico, l’insistenza
straniante e straziante, con i suoi annessi e connessi (il sangue o
la carne per esempio), del corpo: «Quale
ignoto sangue», «Là dove il corpo appare», «Non sappiamo il corpo», «Dall’acqua
e dal sangue», «Non so quale risorta carne», «L’avessi mai capito il corpo»,
«Forse due corpi, una luce», «Col corpo addosso vanno», «È qualcuno il mio
corpo», «Amputato corpo», «Conosco tutti i miei corpi sepolti», «Ci sono
macchie di sangue». Sono incipt che la dicono lunga e già
portano in sé quella dolorosa elegia che si snoda
nelle stazioni di una passione di cui
parla Ercolani.
Vorrei
soffermarmi su di una queste stazioni che, a mio parere,
merita un’attenzione particolare. Mi riferisco alla breve ma densa
sezione Voci dove l’icastica affabulazione di Germani assume
un nuovo angolo visuale e vocale, perlustrando un diverso territorio. Qui sono
gli elementi aristotelici a prendere la parola: la Terra, il Vento, il Fuoco,
ma anche la Neve, la Notte, il Cielo. E parlano in prima persona: la tonalità
oracolare, perplessa o confidenziale, si fonde e fa un tutt’uno con la souffrance di
una condizione esistenziale che valica i limiti acuminati dell’io e delinea,
con codeste stranite identificazioni, orizzonti più incalcolabili, scenari più
dilatati. I significanti e persino gli etimi delle parole, con i
paesaggi evocati dai loro sensi, riconvocano e riformulano le cose,
ne seguono i confini e i movimenti, con la vastità romantica, a volte tragica,
a volte quasi fiabesca, sempre intessute del dramma del loro mobile,
metamorfico significato. Gli ingredienti dell’imagerie germaniana
(ombre, macchie, vene, sogni, deliri,
i temi dell’esilio o del destino) qui si dispongono
intorno a una calamita che li circonda e se ne fa circondare con linee di forza
che suggeriscono simbolizzazioni sorprendenti. La poetica della manque di
Germani qui esperimenta un nuovo centro di gravità che emette, sasso gettato
sulla calma superficie di un lago, una concatenazione di onde concentriche:
«Sapessi dove inizio e dove finisco, dice il Cielo, qual è il mio corpo
immenso, io che vivo solo le altezze, i disegni delle nuvole, il canto
silenzioso delle stelle o quello infuocato del sole. Non so chi sono, come
cambio, come sarò, non ho memoria, e ogni giorno dimentico la mia vita. Da
sempre ignoro il destino che m’accompagna.Tutto avviene senza di me e senza di
voi che credete alla mia patria inesistente, mia stessa illusione, mia potenza
e mio nulla, come queste parole che ora vi confesso e che nessuno potrà sentire…»
(p.74). È culmine questo ultra-romantico (oltre e oltre a Leopardi, a Novalis,
a Buzzati…) di paradosso e di estraneazione, la voce senza voce che dice
un corpo immenso senza corpo e senza limiti nei corporei
limiti della parola, spiega l’indefinito con una sequela di definizioni, la
memorabilità con l’oblio, l’appartenenza al massimo della potenza con una
sconfinata inappartenenza.
Tematiche e forme che ritroviamo in tutta la sezione, modellate da empatica e struggente coerenza, modulate, ad esempio, con silente e luminosa delicatezza dal «racconto bianco» della Neve o con vibrato e vibrante accento dalla protesta contro l’uomo degli Animali. Grido di protestatio e commiseratio insieme: «Qual è, invece, la vostra ferita, il vostro continuo affanno?
Oh, uomini illusi d’esistenza, folli sovrani senza regno, di che cosa vi credete padroni?
Nessuna ragione, nessun potere, nessun dio vi ha mai salvati e vi salverà, poveri fratelli infelici, povere anime perse nel buio…» (p.77). E chi, se non gli Animali, avrebbe potuto rivolgerlo a noi con maggiore credibilità?
Tematiche e forme che ritroviamo in tutta la sezione, modellate da empatica e struggente coerenza, modulate, ad esempio, con silente e luminosa delicatezza dal «racconto bianco» della Neve o con vibrato e vibrante accento dalla protesta contro l’uomo degli Animali. Grido di protestatio e commiseratio insieme: «Qual è, invece, la vostra ferita, il vostro continuo affanno?
Oh, uomini illusi d’esistenza, folli sovrani senza regno, di che cosa vi credete padroni?
Nessuna ragione, nessun potere, nessun dio vi ha mai salvati e vi salverà, poveri fratelli infelici, povere anime perse nel buio…» (p.77). E chi, se non gli Animali, avrebbe potuto rivolgerlo a noi con maggiore credibilità?
Rinaldo Caddeo