Luigi Cannillo, Dal Lazzaretto, Prefazione di Davide Romagnoli, La Vita Felice, 2024
Non
è una semplice raccolta di testi poetici quest’ultimo libro di Luigi Cannillo,
ma una successione di cinquanta componimenti che si dispiegano con un intento
unitario, pur se internamente variegato, in cui memoria personale e storia
collettiva si cercano o s’intersecano in una sorta di viaggio che è relazione
incessante di attesa, visione e ricordo.
Si
tratta di un movimento che parte da un luogo preciso, il Lazzaretto di Milano,
costruito fuori da Porta Orientale tra il XV e l’inizio del XVI secolo come
ricovero per i malati e poi abbattuto alla fine dell’Ottocento, nel quartiere
dove Cannillo è nato e vissuto fino a quando è rimasto in famiglia. Movimento –
si diceva – che consente allo sguardo poetico dell’autore di espandersi, oppure
restringersi a seconda delle circostanze, vale a dire delle forze centrifughe e
centripete dell’esistenza: sogni, desideri, solitudini, aspettative più o meno
deluse. Perché è proprio da qui, da questa zona storica e mutevole, nella quale
sono avvenute grandi trasformazioni, che è passato per il poeta il destino, ed
è ancora qui che egli convoca i fantasmi del passato proprio e altrui, come in
una pellicola da custodire. È in questo spazio, reale e simbolico a un tempo
(«sembrava sconfinato l’ospedale») che ogni immagine diventa passaggio, momento di un ritorno e di un
addio, come le «figure in posa sulla spianata», perché la posa nasce indubbiamente dal desiderio di restare nel tempo, di
lasciare una traccia, un segno della propria vita, «dove le ombre si fissano
perenni», ma tutto ciò implica in fondo proprio
la coscienza segreta della perdita, dell’andarsene. Il nostro presente è la
malinconia dei «salvati» che cercano le impronte di chi non è più, pur sapendo
che ciò che resta non può che essere affidato «a futura memoria».
Nei
testi che si susseguono, è possibile cogliere un alternarsi frequente di interni (aule, corridoi) ed
esterni (piazze, strade, cortili, facciate di abitazioni, pianure) delimitati da
finestre o vetrate, a segnare un confine non solo materiale ma esistenziale,
dove il desiderio e il sogno si contrappongono alla realtà e alla solitudine in
un conflitto nitido eppure mai eccessivo (s’intuiscono, nella distanza del
tempo, i turbamenti dell’adolescenza, le incomprensioni, i dissidi, gli amori
silenziosi, le delusioni), riferito quasi sommessamente, con un pudore che è
pulizia di scrittura, attenzione ai dettagli e a una parola calibrata e al
tempo stesso incisiva: «spiare da casa / la polvere di neve e latte / che ci
ruota in una sfera / di vetro capovolti / Il velo di vapore alla finestra ci
ripara / dalla minaccia che ci aspetta fuori, / non dalla pena che si sconta al
chiuso»; «La sagoma sul vetro smerigliato / mi sta aspettando o sono io
riflesso?»; «La luce appariva come torcia / dietro la fila di finestre a
palpitare / il corpo scolpito in una sagoma / in moto nella sua cornice»; «La
mia casa con la finestra aperta / e il vento che mi cerca / mentre io sono
altrove». Ecco allora che nel rapporto
vita-mondo, s’incardina la vita del poeta («Quando tra desiderio e mondo / si
spalancano le labbra / una lama di fuoco si fa strada»), dalle aule scolastiche
(«Resto nel nodo, il fiocco azzurro / mosso da una corrente sconosciuta / nel
vuoto che risplende tra le porte») alle pareti domestiche («Questa è la casa,
un nido di spine / ma nessun altro a cantarla / qui l’origine e l’esilio»), fino
alla città («La città nelle sue vene / la esplori slogandone le ossa / un corpo
che si estende / anche restando fermo»), alla periferia («Finché a una curva
della notte / appare l’aureola della periferia»), alle stazioni («Vado ancora a
un binario fantasma / ad aspettare chi non ritorna»), attorno a ciò che è
scomparso e che viene chiamato e in qualche modo riappare; un’autobiografia non
gridata, in un succedersi di quadri
mobili che si compongono nella costruzione di un montaggio quasi cinematografico,
in un intrecciarsi di passato e presente, nel quale l’io sa a volte ritirarsi
per dare spazio a una visione più ampia: l’antico
che è qui tra aperture e dissolvenze,
come uno sguardo ossimorico perché attratto dalla concretezza dell’invisibile. Quell’invisibile che è «il popolo del
nulla», il quale «spinge / le sue figure in palcoscenico / prima di scomparire
tra le quinte / Fotografie come
ambasciatori / a chiedere insistenti la parola». E allora è la poesia, nella
sua tensione, a cercare di dire l’esistenza, a volte «oscillando in alto / come
una mongolfiera / oppure formula sommersa nelle grotte / irraggiungibile
corallo»; è la poesia a condensare il tempo in pochi versi («Come in un
film mio padre / entra ancora reduce nel
bar / ne esce da emigrato e subito / vecchio appoggia la bicicletta
all’angolo»), a rianimare gli scomparsi («Per questo rianimiamo gli scomparsi /
che appaiano almeno come bagliori»), o ancora a comprenderne le assenze, come
nella poesia dedicata alla madre che non ritorna e lascia a chi resta una
straziante libertà: «Meglio lasciare a noi ricostruire / gli eventi, salendo i
gradini / due alla volta, bussare senza fiato / noi alla vostra porta».
Nell’ultimo
bellissimo testo troviamo di nuovo il Lazzaretto che diviene luogo viaggiante, treno che trasporta e
conduce a un destino, spazio-labirinto nel movimento dell’esistenza, ma anche
della poesia che lo pronuncia come in un sogno, una sorta di buio luminoso, dove «scorrono le
stazioni / in passaggi come lampi», verso «destinazione ignota». Da
sottolineare, poi, la presenza nei testi delle sole virgole e non del punto
fermo, scelta stilistica atta a scandire un ritmo poetico sommesso, senza forti
cesure, ma aperto a un flusso memoriale, a una continuità che è quella del vissuto,
dello sguardo interiore.
Questo
di Luigi Cannillo è un libro complesso, stratificato eppure compatto, contraddistinto
da una levità malinconica ed esemplare, non privo di una pietas profonda e non esibita («L’origine appartiene al sapere /
mentre il distacco lotta col mistero /
Pietà per il destino che ci aspetta / nel ritratto che si va compiendo»), a cui
fanno da cornice le due splendide citazioni manzoniane poste all’inizio e alla
fine del volume. E a conclusione di questa nota, credo risulti quanto mai
appropriato ciò che scrisse Franco Loi in un suo libretto dedicato alla Milano
di Delio Tessa: «Rimane sempre qualcosa attaccata alle cose, anche quando
scompaiono e con esse gli uomini che le hanno vissute. Si chiama memoria e si
chiama storia».
Mauro Germani