Teatro come luogo di domande, di pensieri e di emozioni. Teatro-inchiesta come sfida, come scommessa per chi interpreta un
personaggio, o ne prende le difese, e per chi assiste ed è chiamato a intervenire e a partecipare. Teatro-indagine, capace di muovere le
coscienze e di fare luce il più possibile, sia dal punto di vista storico, sia
dal punto di vista religioso, su ciò che è stata ed è la figura di Cristo. Un processo giuridico circa l’innocenza o
la colpevolezza di Gesù secondo la legge giudaica, ma che poi diviene altro: riflessione, rifiuto, fede,
secondo le convinzioni di ognuno.
Processo a Gesù di
Diego Fabbri (1911-1980) è
soprattutto questo.
L’opera
teatrale, scritta dal 1952 al 1954, dopo una maturazione assai lunga, e rappresentata per la prima volta nel 1955 al
Piccolo Teatro di Milano (allestita successivamente in tutto il mondo, da Londra
a Parigi, da Vienna a Madrid, da New York a Tokio), si prefigge lo scopo di indagare non solo sul
Cristo storico, ma anche sulla sua eredità, cioè su quanto Gesù con la sua
predicazione e con il suo sacrificio fino alla morte, ha lasciato in noi e
nella nostra società. Essa nasce pertanto da un’esigenza di discussione e di verità,
insieme alla volontà di sondare l’impatto che provoca la vicenda di Cristo
nella nostra coscienza e nel nostro modo di vivere.
Mediante
un sapiente uso del cosiddetto teatro nel
teatro, e del conseguente superamento della separazione tra palcoscenico e
platea – entrambi di estrazione pirandelliana – Fabbri elabora un testo stratificato
e complesso, in cui attualità e storia, presente e passato si incontrano e si
sovrappongono, in una tensione intellettuale ed emotiva senza cedimenti.
Alla
base vi è un gruppo di ebrei (i due coniugi Elia e Rebecca, la figlia Sara e
Davide), che porta in scena da anni un singolare processo nei confronti di
Gesù, al fine di giungere, secondo la legge giudaica, alla sentenza finale, di
innocenza o di colpevolezza. Essi si scambiano, mediante sorteggio, di volta in volta i ruoli,
tranne quello del Presidente, affidato sempre ad Elia. Il tutto
alla presenza di testimoni (Maria di Nazareth, Maria Maddalena, Giuseppe,
Pietro, Giovanni, Tommaso, Giuda, Caifa, Pilato, Lazzaro) e degli spettatori. In
questo modo realtà e finzione giocano allo scoperto, all’interno di una
struttura dinamica, che sconfina, e
che prevede spazi scenici non consueti, favorendo così un coinvolgimento
maggiore del pubblico.
Il
processo non si rivelerà facile, non solo a causa dell’argomento, ma anche
delle relazioni tra gli interpreti, in particolare il dramma del rapporto tra
Sara e Davide: la prima, vedova di Daniele, scoprirà infatti che Davide, non ha
esitato, anni prima, a consegnare Daniele ai nazisti per averla tutta per sé.
La
stratificazione drammaturgica si sviluppa pertanto lungo tre piani: quello del
processo in sé, quello del rapporto tra Sara e Davide, e quello degli interventi
degli spettatori. E sono proprio le voci del pubblico quelle più interessanti, perché contribuiranno ad un esito diverso
del processo, rispetto a quello che il Presidente stava per annunciare.
Tra
le altre, meritano di essere menzionate quelle di un intellettuale, di una
signora irrequieta (La Bionda) e
della donnetta delle pulizie. Ciascuno
espone ciò che pensa, finendo per confessare la propria esistenza, perché quel processo
non è stato innocuo, li ha provocati. Qualcosa di imprevisto, di davvero straordinario
è accaduto.
L’intellettuale,
un uomo che ad un certo punto ha lasciato il seminario perché ha perso la fede,
rivela tutta la sua delusione nei confronti del messaggio di Gesù e del
cristianesimo: “Non trovo l’uomo nuovo, non trovo il cristiano! È proprio
l’uomo che non è cambiato nonostante il passaggio di Cristo! È l’uomo che non
cambia! È questo il fatto spaventoso, disperante che rende questo processo
perduto per la causa di Cristo, perduto senza possibilità di appello. Gesù di
Nazareth non solo non riuscì, allora, a cambiare la viltà di Pietro, la gelosia
di Giovanni, la doppiezza di Giuda, ma non è riuscito, poi, nei secoli, a
mutare la cieca incredulità degli uomini”.
Le
sue parole vengono interrotte e contraddette proprio dalla sua compagna, seduta
accanto a lui, La Bionda, che svela
di essere “una come Maria Maddalena”, una prostituta, e che rimprovera all’uomo
di non conoscere la vita, di essere troppo astratto, di compiacersi delle
proprie parole: “Prima, ha detto, Dio è morto. Bella frase! Come suona bene!
Complimenti! Ma che ne sai tu di quel che c’è nel mondo? Che ne sai, se non
vivi! Che ne sai tu di me, per esempio? Che ne sai oltre quello che vedi? Lui
non se lo sognava nemmeno ch’io potessi prender fuoco per Gesù! Si capisce… Ha
creduto ch’io sia soltanto come m’ha veduta…”.
E
sul fatto che i cristiani non sono riusciti a cambiare il mondo, la stessa
donna replica, questa volta quasi con un sospiro: “È una risposta che fa pena,
la mia, ma è sincera. Non ci pensiamo. Non ce ne ricordiamo. È […] dentro, in
fondo, sepolto… Non viene su…E facciamo tutto… come se quel sentimento non
fosse in noi… […] Ci vergogniamo anche. Stasera è stato un caso. Non so dove
l’abbiamo trovato – tutti – il coraggio di saltar su, d’infiammarci in questo
modo! Non lo so proprio!”.
E in fondo, a ben riflettere, è proprio in queste parole che risiede il senso
ultimo del testo di Fabbri. E occorre aggiungere anche ciò che dice a proposito
dei morti e di Gesù, la donnetta delle
pulizie, a cui hanno ammazzato il figlio: “Loro ci aspettano! Queste sono
le sole cose che contano in questa nostra vita disgraziata! Non le toccate!
Sono le sole che abbiamo… Siate buoni, signori giudici, siate un po’ buoni
verso il Salvatore… e verso di noi…”.
E,
in maniera sorprendente, la conclusione del processo sarà per la prima volta
diversa, perché verrà proclamata da parte di Elia, il Presidente, l’innocenza
di Gesù: “ Io debbo ormai proclamare… alto… e al cospetto di tutti… che non so
ancora se Gesù di Nazareth sia stato veramente quel Messia che noi
aspettavamo… non lo so… ma è certo che Lui, Lui solo, alimenta e sostiene da
quel giorno tutte le speranze del mondo!”.
A
proposito della drammaturgia di Diego Fabbri, autore cattolico, che sentì drammaticamente il problema del cristianesimo, e oggi poco frequentato, ma sicuramente di rilievo (fu direttore della rivista “La Fiera
Letteraria”, Presidente dell’Ente Teatrale Italiano, e nel 1977 ricevette, da
parte dell’Accademia dei Lincei, il prestigioso Premio Feltrinelli), Carlo
Maria Pensa ha avuto modo di sottolineare come il suo teatro sia,
paradossalmente, “il compatto documento di un’epoca confusa e inquieta, nella
quale l’uomo tanto più sente il bisogno di Dio quanto più se ne allontana”.
Potremmo
aggiungere, in particolare, che dalla lettura di Processo a Gesù emerge la figura di un Cristo segreto, sepolto dentro di noi, come una grande speranza,
che spesso non accettiamo, quasi una follia
di cui abbiamo vergogna. Qualcuno che continuiamo a tradire. Una voce che grida nel deserto.
Una luce dei poveri, per i poveri.
Mauro Germani