Antonio Di Benedetto, L'uomo del silenzio, Bur Rizzoli, 2006
“Scrivo per mettere in chiaro ciò che mi fa male, ciò che fa male alla gente come me. Scrivo per capire e capirmi. Scrivo perché la mia soggettività esplori i paesaggi aperti e le caverne scure che il mondo reale propone alla gente”.
Con queste parole lo scrittore argentino
Antonio Di Benedetto (1922 – 1985) sottolineò in un’intervista gli scopi della
propria opera, che qui in Italia è poco nota. Autore di romanzi e racconti
dominati dalla solitudine e da un rapporto conflittuale con la realtà, che spesso
degenera in una follia che appare come il doppio oscuro del mondo,
Di Benedetto è stato per lungo tempo uno scrittore emarginato anche nel proprio
paese, se si pensa, tra l’altro, che venne sequestrato e poi incarcerato nel
1976, a poche ore dall’inizio del golpe militare del generale Jorge Rafael
Videla, e rilasciato un anno e mezzo dopo, ammalato e sconfortato.
L’uomo del silenzio, pubblicato nel 1964 e apparso in Italia
per la prima volta nel 2006, è un romanzo assai singolare, contraddistinto da
una struttura frammentata e da una prosa di una strana nitidezza ipnotica, che
narra la storia, in prima persona, come in un diario sempre più delirante, di
un uomo ossessionato dai rumori.
Egli vive disturbato dalla realtà,
senza mai trovare il silenzio e la pace che desidera. La sua vita è
costantemente assediata da rumori che diventano per lui sempre più
intollerabili. Dietro la sua apparente normalità quotidiana, si nasconde un
tormento che disgrega a poco a poco il suo io e lo costringe ad una sorta di doppio
gioco, una finzione con gli altri e con sé stesso, in
quanto ciò che fa non corrisponde spesso a ciò che è.
Di qui il terrore segreto della propria identità smarrita, violata o
addirittura spezzata: “Anche quando sto con me stesso, sono accompagnato. Giacché
se sto con me stesso non sono solo, siamo in due. […] Quale dei due sono io?
Hanno cominciato a confondermi e mi stava assalendo la paura di essere due, o
di albergare un altro in me, o di aver perduto l’altro mio io o di trovarmi
sotto il suo dominio”.
Ma la ricerca di una normalità (il
matrimonio, il figlio) si rivela impossibile, perché altro è
in lui, altro lo assale, altro lo divora
nelle notti insonni. Le sue coperture, le sue maschere, non reggono
più. E inutili risultano poi i suoi tentavi di sfuggire
alla condanna dei rumori con continui traslochi nella speranza di trovare una
casa ideale, un posto per lui nel mondo, oppure di appellarsi
alle autorità ed alla giustizia per essere aiutato. Anche il progetto di
scrivere un libro, intitolato non a caso Il tetto, è destinato a
non realizzarsi. Il protagonista è dunque un personaggio profondamente solo,
lacerato e votato alla sconfitta: è chiaro che ciò che non sopporta è in realtà
la vita così com’è.
E a rendere ancora più inquietante la
narrazione, al cui interno sono sicuramente ravvisabili richiami kafkiani, vi è
poi il rapporto del protagonista con il suo amico Besariòn, personaggio
altrettanto folle (è interessante notare come quest'ultimo sia in grado di
decifrare il progressivo delirio del protagonista, ma non sappia riconoscere il
suo), che afferma di avere una imprecisata missione da compiere, di cui
non vuole e non può rivelare nulla; un personaggio che, a ben vedere, risulta
speculare al protagonista; anch’egli, in fondo, non sopporta la realtà, e tenta
di esistere altrove, vuole esistere nel sogno, ma
morirà senza essere riconosciuto da nessuno. In entrambi i personaggi si rivela così una volontà distruttiva ed autodistruttiva, alimentata da un'attesa costantemente delusa: quella dell'irraggiungibile silenzio per il protagonista, e quella di un'esistenza impossibile per Besariòn.
Il rapporto conflittuale e sempre
frustrante tra desiderio e realtà è presente
anche nel primo, particolarissimo ed inclassificabile romanzo di
Antonio Di Benedetto, Zama (Sur, 2014), scritto nel 1955. Qui
il protagonista è un funzionario della corona spagnola di fine Settecento, che
vive in Paraguay, lontano dalla famiglia, e spera in una promozione che non
arriverà mai. Anche in questo libro la realtà sfuma a poco a poco in un delirio
visionario, fino a divenire un viaggio metafisico al termine del quale c’è solo
un’immensa solitudine. E vale la pena citare la bellissima epigrafe che Antonio
Di Benedetto ha apposto al romanzo: alle vittime dell’attesa.
Mauro Germani