Thomas Bernhard, Il loden, Edizioni Theoria, 1988
Ripropongo
una mia nota critica a Il loden di Thomas Bernhard, apparsa sul primo numero della rivista
“margo” nell’ottobre del 1988 e successivamente pubblicata nel volume Margini della parola (La Vita Felice, 2014).
Anche
questo racconto di Bernhard, pubblicato per la prima volta in Germania nel
1971, costituisce, come le altre opere dello scrittore austriaco, un vortice del perturbamento, dove la
scrittura è una specie di frase ossessiva, continuamente lacerata, eppure
interminabile.
Ed
è proprio all’interno di una fissazione,
simile a tratti ad un vuoto delirio, che Bernhard (questo “recensore del caos”,
come l’ha definito Claudio Magris) ha ideato la semplice ma inquietante storia
di Humer, anziano proprietario di un negozio di rivestimenti interni per bare
del Tirolo, uomo alla deriva, vittima di se stesso e del mondo ormai
incomprensibile, a cui non resta che la ripetizione continua di parole
sconnesse e malate da pronunciare come se fosse sempre l’ultima volta.
In
preda all’angoscia della perdita
(l’appartamento nel quale viveva da decenni e che il figlio e la nuora hanno
indotto a lasciare fino ad obbligarlo a vivere in soffitta, lontano dal proprio
negozio) si rivolge all’avvocato
Enderer, ma il dialogo è solo apparente. Humer sviluppa piuttosto uno
dei tanti soliloqui bernhardiani (quello del principe Saurau di Perturbamento e del pittore Strauch di Gelo, per citarne alcuni) ancora una
volta “sugli orli del vuoto lasciato dalla colonna che reggeva il mondo” – per
usare un’espressione di Giorgio Cusatelli.
Questo
tipo di angoscia – intesa come perdita di un’abitudine ad un mondo e più in
generale come lutto davvero
universale – è spesso presente nelle pagine di Bernhard , in cui “l’individuo
pensante si ritrova sempre più in un immenso orfanotrofio”, come afferma nel
suo lucido delirio il principe Saurau in Perturbamento
ed il linguaggio percorre l’estrema periferia di un centro smarrito. Qui infatti la narrazione ha origine da una voce
impersonale che presenta e contiene due diverse articolazioni linguistiche che
volutamente si intersecano disgregandosi a vicenda: quella di Humer e di
Enderer in prima persona.
Tutto,
allora, non è che la citazione di una
citazione, in quanto tutto è già stato detto. Ciò che sconvolge l’incontro
tra i due personaggi è proprio il loden indossato da Humer, nel quale Enderer
riconosce quello di suo zio, suicidatosi anni prima nel fiume Sill. Il
protocollo che l’avvocato redige smarrisce sempre più la propria funzione di
obiettiva verbalizzazione (un metodo come un altro di controllo inutile del caos) ed è continuamente
interrotto e stravolto dal fantasma del loden, vero protagonista del libro,
oscuro significante di un
destino-necessità ormai senza più significato,
che provoca il progressivo e lacerante
passaggio dal panico del senso al senso del panico e del fallimento. Humer se ne va
improvvisamente senza neppure firmare la procura generale e si suicida qualche
giorno dopo; Enderer si reca alla casa
del defunto per riavere il loden che era stato di suo zio. I puntini di
sospensione finali lasciano intuire un probabile epilogo tragico anche per
l’avvocato. Ciò che deve, ineluttabilmente
sarà.
Mauro Germani
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