In ricordo di Giorgio Gaber, scomparso
il primo gennaio 2003.
Uno
dei temi centrali dell’opera di Gaber è sicuramente quello relativo al corpo ed
alla sua problematicità. Si potrebbe forse sostenere che costituisce quasi una sorta di ossessione, data la
ricorrenza assai frequente nei testi. I riferimenti alla corporeità, infatti,
emergono a vari livelli, sia in modo diretto ed esplicito, sia nel linguaggio,
in forma di similitudini, metafore ed allusioni. […]
L’enigma
del corpo – la sua doppiezza, il suo essere per noi estraneo e familiare allo
stesso tempo – è certo stato affrontato da Gaber in modo esemplare, ora con
ironia, ora con amarezza, ora con rabbia, ora perfino con tragicità e
disperazione. […]
In
Gaber da un lato c’è la spinta verso l’interezza, il superamento della
contrapposizione mente / corpo, la rivalutazione delle pulsioni più naturali e
profonde rispetto al potere astratto della mente, dall’altro c’è la
consapevolezza della propria fragilità, un senso di inadeguatezza perenne, la
paura di “guardare in fondo alla propria faccia e di frugarsi dentro agli
intestini” (La smorfia), o
addirittura lo smarrimento ontologico, al limite della non-esistenza, come
emerge dalla splendida Io e le cose.
In questa canzone troviamo tutto il
mistero della realtà intorno a noi, del nostro rapporto col mondo esterno, con
le cose che ci circondano e silenziosamente ci interrogano su ciò che significa
esistere, come ad esempio “le carte coi tarocchi”, “gli eterni scacchi”, “e poi
lo specchio rosso/su cui splende un’illusoria aurora”: versi che rimandano alla
poesia di Borges Le cose, uno dei
testi più importanti di Elogio dell’ombra,
ma che in questo contesto assumono un altro significato.
Ad
essere sincero io non so
se
esistono le cose
non
so se vanno male o bene
se
tutto è un’illusione.
Ad
essere sincero io non so nemmeno
se
anche le persone
coi
loro sentimenti e la ragione
esistono
davvero.
Eppure,
in questa contrapposizione al vuoto esistenziale appena descritto, nella
strofa-ritornello si affaccia la possibilità dell’esistenza, di una pienezza
reale, che forse può dare un rapporto d’amore e che viene sfiorata come un
desiderio di appartenenza e di autenticità, rappresentato non a caso da due
corpi che entrano in contatto.
Io
non so niente
ma
mi sembra che ogni cosa
nell’aria
e nella luce
debba
essere felice.
Io
non so niente
ma
mi sembra che due corpi
nel
buio di una stanza
debba
essere esistenza.
Il
nostro essere nel mondo comporta una relazione incessante tra noi stessi e la
realtà. L’esperienza dell’io è inevitabilmente anche esperienza del mondo. Come
sottolinea Eugenio Borgna, “quando cambia la Stimmung (stato d’animo) che è in ciascuno di noi, contestualmente cambia
anche la fisionomia del mondo:
cambiano i modi con cui il mondo ci chiama e ci parla” (Eugenio Borgna, Come se finisse il mondo, Feltrinelli,
Milano 2006, p. 62).
L’eclissi
del mondo (il suo oscuramento o addirittura la sua sparizione), a cui fanno
riferimento i versi iniziali della canzone, sembra poi essere superata grazie
all’esperienza del corpo, del contatto reciproco fra i corpi, che dovrebbe
garantire la pienezza dell’esistenza.
da
Mauro Germani, Giorgio Gaber. Il teatro
del pensiero, Zona, Arezzo 2013