sabato 29 novembre 2014

"La voce di Mantova" - Marco Molinari su "Margini della parola"



Sul quotidiano "La voce di Mantova" è uscita una bellissima recensione di Marco Molinari relativa al mio libro MARGINI DELLA PAROLA (La Vita Felice, 2014)
Ringrazio di cuore Marco per la sua attenta e generosa lettura.

"MARGINI DELLA PAROLA", UN LIBRO DI MAURO GERMANI, POETA, CRITICO, NARRATORE 

Ormai non è soltanto il libro il mezzo al quale i poeti affidano le loro imprese solitarie, le nuove tecnologie incalzano e non sono pochi quelli che utilizzano il web come corrente libera in cui poter immergere le proprie opere e dialogare con i lettori. L'apertura di un blog è uno di questi modi: così ha fatto Mauro Germani, poeta, critico, narratore, che vive a Bresso nell'hinterland milanese. L'ha chiamato "Margo", che era il titolo della rivista letteraria da lui fondata nel 1988. Sul suo blog Germani, oltre a offrire un saggio dei suoi libri, commenta e propone il suo sguardo competente e affilato su innumerevoli libri di autori contemporanei e grandi scrittori classici. Il libro che proponiamo "Margini della parola", edito da "La Vita Felice", raccoglie le note di lettura apparse su "Margo" dal 2009 al 2013, dal web si ritorna dunque alla carta stampata.
Leggendo in sequenza queste riflessioni acutissime, in ordine alfabetico dal cognome degli autori, emerge limpido un percorso di lettura, una visione del mondo quasi unitaria, pur nell'eterogeneità  degli scrittori affrontati, come si è detto classici stranieri come Artaud, Beckett, Celan, Céline, Camus; e italiani come Buzzati, Cattafi, Pascoli, Pasolini; e inoltre tanti poeti contemporanei legati però anche loro a un filo conduttore. La bussola che guida Germani è allora quella della crisi, dell'inquietudine, della mancanza di punti di riferimento dell'uomo novecentesco, E' quello il secolo dove l'incapacità di reggere il peso della società, dei costumi, delle convenienze, è deflagrata in letteratura in opere che hanno assunto su di sé il compito di rappresentare il mutismo, l'incapacità di raccontare in modo lineare la malattia e il disagio dello stare al mondo. 
Germani attraversa veloce questi cataclismi esistenziali filtrati in sublime letteratura, non dimenticando di apporre il proprio sigillo, con uno scavo impeccabile dal punto di vista culturale e sempre originale nei contenuti, mai scontati. Emerge perciò la traccia di un percorso interiore dell'uomo moderno, che si inerpica a volte per cime impervie, altre costeggiando lande paludose, ma con una mappa ben chiara in mente, come lui stesso ci illustra nella nota a uno scrittore contemporaneo: "Ben vengano libri anomali e scomodi come questo. Libri lu cui parole secche e taglienti penetrano dentro l'anima e la feriscono. Libri in fondo non appartenenti ad alcun genere specifico, che sfuggono a una classificazione, ma che - pur avendo nella scrittura il loro punto di forza - hanno lo scopo di interrogarci sul presente e, più in generale, sul nostro essere nel mondo". Anche questo libro, vera miniera di spunti di lettura, appartiene a questa categoria.
Marco Molinari
La Voce di Mantova, 28-11-2014, pagina 14.

domenica 16 novembre 2014

Mauro Germani - Poesie inedite


Su POETARUM SILVA sono state pubblicate alcune mie poesie inedite.
Ringrazio Fabio Michieli per l'invito.

http://poetarumsilva.com/2014/11/14/mauro-germani-poesie-inedite/

venerdì 3 ottobre 2014

Paolo Del Colle - Spregamore



Paolo Del Colle, Spregamore, Gaffi 2014

L’ultimo romanzo di Paolo Del Colle esce a più di dieci anni di distanza dal bellissimo Le ragazze dell’Eur (Quiritta, 2001). La voce del protagonista di allora ritorna qui in tutta la sua solitudine e in tutto il suo smarrimento, nello spazio di una notte, come un male oscuro sprigionato da un corpo offeso e senza pace, e diventa di volta in volta ricordo, confessione, domanda,  grido e  preghiera.
Chi parla -  in un monologo che non è solo parola ma successione di sguardi, immagini, fatti e pensieri che si rifrangono, si spezzano e si ricompongono -  è assediato da una realtà opprimente e soffocante, che la calura estiva rende ancor più insopportabile. Come accerchiato dalla morte - quella già avvenuta del padre e quelle imminenti della madre, con cui vive e di cui si prende cura,  e del gatto, che lascia le tracce della sua malattia per casa e si nasconde – il protagonista trascina il proprio “dolore muto”, ai margini di se stesso, in preda a violente emicranie, nel disordine dell’ appartamento che abita, dove si ammucchiano libri, dvd, vestiti, oggetti vari, medicinali, siringhe, che denunciano la loro deriva, la loro inutilità.
Anche lui si sente il fantasma di se stesso e percepisce un vuoto tremendo, anzi una profonda sfasatura tra ciò che avverte come il mistero inaccessibile della vita e la solitudine dell’esistenza e del  nostro essere nel mondo, tra ciò che ci supera nella sua incomprensibilità ed ineluttabilità e la nostra fragilità, la nostra incompiutezza. E proprio questo doppio senso di incompletezza da una parte e di inutilità dall’altra domina  tutto il romanzo.
La storia del protagonista, profondamente segnata dal fallimento del matrimonio dei genitori e soprattutto sovrastata da due ombre, quella inquieta del padre, e di Lorenzo, il fratello nato morto, è la storia di un disagio, di un male occulto, tra la realtà e il suo fantasma.
Entrambe queste figure incarnano una diversità rispetto al protagonista. Da una parte la “facilità” del vivere del padre, la sua sregolatezza quasi da eterno adolescente innamorato delle donne, dall’altra la “perfezione” del fratello mai nato, dovuta paradossalmente alla sua non-esistenza, l’altra metà di sé, il doppio autentico ma impossibile, mai venuto al mondo. E tra loro c’è  proprio lui, Paolo, il protagonista, con la sua inadeguatezza e le sue domande, in una terra di mezzo che frana giorno dopo giorno. Egli sente l’abisso nella sua carne, un mistero insondabile o addirittura un vuoto che forse è per noi la verità, ma i suoi pensieri restano per lo più al confine, si dibattono smarriti nell’esistenza, oppure vengono risucchiati per un attimo dal corpo e poi espulsi, gettati nel mondo, quasi irriconoscibili.
In tutta la narrazione il corpo appare davvero fondamentale, colloca e smarrisce, è realtà ma anche enigma, chiusura impenetrabile che può divenire improvvisamente transito, accesso innominabile ad altro (e forse non è poi tanto azzardato pensare, in taluni momenti, a Bataille, per il senso di vertigine e di perdita, di offerta senza ritorno, senza impiego, quella dépense che caratterizza l’intera sua opera). Il corpo è perturbante, è plurimo, è storia, è passato e presente, ma al contempo è pensiero che s’arrende, che non può. La coincidenza tra corpo e pensiero non c’è. Che cosa può dire davvero, che cosa può pensare davvero il protagonista davanti al corpo infermo e devastato della madre, o quali parole può pronunciare per sé, per questo suo dolore impronunciabile, per questa sua esistenza solitaria? Che cosa fare davanti alla malattia che precede la morte? A che cosa serve annotare minuziosamente, su due agende diverse,  con cifre sigle e sfumature di colore,  tutte le osservazioni riguardanti l’avanzare implacabile del male nella madre e nel gatto?
Anche ciò che avviene nella notte del racconto è sfasato, come tutto del resto. Niente combacia, niente è intero, niente è unico. “Nemmeno un istante la vita coincide con se stessa”, viene detto esplicitamente. Cos’è mai l’identità?
Spregamore è un quartiere di Roma, che confina con il Divino Amore,  pieno di contraddizioni, privo di qualità precise, eternamente incompiuto, non definito, dove il padre ha abitato l’ultima volta prima di morire e dove Paolo si accompagna a Delia, un trans con le unghie colorate con smalto scuro sulla mano destra e celeste mare sulla sinistra, e che lui possiede cercando di possedere per la prima volta se stesso, con furia, come a voler eliminare i fantasmi del suo passato. Figura centrale e doppia, Delia si ricollega alle prostitute del romanzo precedente, apparizioni nella notte, incontri di enigmi e solitudini, corpi con anime imprendibili, vite multiple che per un attimo divengono sogni di carne, porti immaginari o abissi inconsapevoli, ossimori vaganti nel buio e nelle luci delle città, che Del Colle sa cogliere bene nei loro atteggiamenti o in dettagli minimi ma rivelatori (ad esempio, i brufoli del braccio di una giovane prostituta, nei quali viene ravvisato “un estremo rifugio” della gioventù della ragazza).
E non è un  caso se al ritorno a casa il protagonista si vede diviso dalla cornice di legno dello specchio dell’ingresso in due parti, come “la figura di una carta da gioco francese, un fante sconfitto e mutilato, un re deposto dal fratello gemello: […] pezzi distinti, incapaci di formare una sola persona”. Paolo, dilaniato dall’emicrania, torna nel suo appartamento dove l’attendono i pezzi sparsi della sua esistenza, la madre, ridotta ad un mucchio d’ossa, immobile nel letto, e il gatto anch’esso malato, che scivola nell’oscurità delle stanze. E qui, ancora una volta, si trova emblematicamente fuori tempo e fuori spazio, sotto gli effetti del Viagra, assunto troppo tardi, che gli procura un’erezione inutile e drammaticamente paradossale. Il corpo risponde ad un fatto già avvenuto, non combacia col presente, e la mente è altrove.
L’ultimo capitolo del libro, nel quale la disperazione ed il degrado sembrano raggiungere il culmine, è davvero toccante e di una forza straordinaria. Le parole rivolte al fratello mai nato sono l’estrema confessione di chi rivela tutto il proprio smarrimento, quella solitudine antica e tremenda, quel vuoto che ha assorbito e cancellato la possibilità di una vita vera ed autentica. Eppure nel confronto finale e straziante con la madre, tra rabbia, amore e impotenza, qualcosa succede, qualcosa rompe quel dolore senza parole a cui il protagonista era assuefatto da tempo. C’è forse, per un attimo, un riconoscimento ultimo, qualcosa che si ricompone, che sembra chiudere il cerchio e consegnare la libertà a chi muore, donargli un addio che non fa male. La sfasatura tra la vita e se stessa è ora una distanza che può abbracciare, “e dentro nulla è più bene o male, dolore o gioia, rancore o affetto, è solo speranza, piccola, quella mai cresciuta, che ci fa incontrare per la prima e ultima volta entrambi bambini”.
Con questo romanzo anomalo, di una voce e di un corpo, privo quasi di dialoghi, tutto interiore, Paolo Del Colle ci consegna un’opera complessa, radicale, ferita e che ferisce, avvolgente nella fluidità di una scrittura suggestiva ed ipnotica, che cattura fin dalle prime righe.
Mauro Germani









domenica 24 agosto 2014

Andrea Leone - Kleist


 



ANDREA LEONE - KLEIST - 20090 (Ventizeronovanta) editoria e comunicazione - 2014
 
Kleist, il personaggio di quest’ultimo romanzo di Andrea Leone non è solo l’ombra trasfigurata dello scrittore e drammaturgo Heinrich von Kleist, morto suicida nel 1811, ma è anche e soprattutto l’incarnazione dell’orrore nei confronti della propria nascita (“essere nato, ce l’aveva messa tutta per non essere nato”) e dell’odio feroce verso la propria stirpe e la società in cui vive.
Come da un palcoscenico semibuio, illuminato solo da qualche candela (lo studio del Maggiore Feuermann, all’interno di una caserma), Kleist maledice con voce febbrile e ininterrotta la condanna di un’esistenza non voluta, costantemente minacciata dalla mediocrità e dall’idiozia dei “plebei educatori di stato”, che con il loro “cervello nero” ignorano “i giganti dello spirito e i massimi geni della storia dell’umanità”.
Kleist si oppone al loro contagio con la sua lotta epica, assoluta e solitaria, in un lucido delirio che ribalta la terribile logica del miserabile inferno dominante, in cui non ci sono individui, ma esseri vivi solo in apparenza, che hanno un cervello di massa, “adulti di massa e nati di massa”, che “ottengono una testa e un corpo e una famiglia”. Tutto viene capovolto. I cosiddetti vivi sono in realtà dei non-nati senza neppure saperlo, perpetuano i loro atti ripugnanti, volgari servitori di un’esistenza fasulla, di una malattia mortale che li possiede. Il loro inizio è già la loro miserabile fine. E Kleist nel suo monologo denuncia tutto questo, lo rifiuta, non vuole essere coinvolto nei loro falsi ideali, nello loro meschine e assurde manovre. La sua patria è un’altra. In lui c’è prepotente la volontà di raggiungere una perfezione pura nella libertà totale del proprio cervello, di eseguire “lo spietato spartito dello spirito”, al di là di ogni convenzione, al di sopra della vita.
Il capolavoro di Kleist è il suo rifiuto, la strage perfetta che compie costantemente nella fortezza del proprio cervello e che non può che condurre alla distruzione di se stesso, come vera ed unica affermazione davanti alla propria origine, al proprio padre e al mondo. La massima condanna – afferma – è diventare un Kleist. E Kleist non vuole essere Kleist. L’eliminazione del padre martella continuamente il cervello di Kleist, ma il suo scopo è andare ben oltre, eliminare addirittura la nascita del Capitano: “Il mio desiderio della sua dissoluzione andava molto al di là della semplice morte. Io volevo che lui non fosse mai nato, mai esistito, mai comparso”. La lotta di Kleist contro il padre è la lotta contro la nascita, la stirpe, “il campo di concentramento delle generazioni”, l’ “atroce casata millenaria”, l’ “infame e miserabile inferno dei Kleist”, la società.
Egli si porta addosso i segni della carne che si deforma (“il mio corpo è un incubo chimico e fisico, apparso sulla scena nera della storia”) e il trauma della luce (“siamo venuti alla luce ed è difficilissimo porre rimedio ad un simile fatto insalvabile, ad un simile fatto ultimo, ad una simile enciclopedia del crollo”). E qui non pare azzardato accostare alcune affermazioni di Kleist al pensiero di scrittori estremi come Caraco, che in Breviario del caos scrive: “Il mio odio per questo mondo è ciò che trovo in me più degno di stima”, oppure “il mondo che abitiamo è freddo, cupo, ingiusto e metodico, i suoi governanti sono o imbecilli patetici o veri scellerati”, o anche Cioran, l’apolide metafisico, che per tutta la vita fu accompagnato dall’idea del suicidio.
Ciò che dà a Kleist la forza di parlare è proprio il senso della sua totale estraneità.
Nella sua voce c’è una potenza tremenda che risuona martellante per tutto il libro e non dà quasi respiro. Essa annuncia inequivocabilmente un’ossessione e segna un destino.
La voce di Kleist cancella ogni altra voce, ogni altra parola. Chi l’ascolta non può che ammutolire davanti a tale assoluta lucidità, a tale implacabile crudeltà, intesa quest’ultima secondo l’accezione di Artaud, cioè come “rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta”.
E’ un grido estremo, ultimo, un congedo, un addio cercato e definitivo, che Andrea Leone, poeta e scrittore autentico, ci consegna con un andamento intransigente, netto, assoluto, necessario, come quello di un classico. E a ben vedere, proprio dietro al dramma del personaggio Kleist, si può scorgere una dichiarazione di intenti da parte dell’autore in ambito letterario, cioè l’aspirazione ad una scrittura altrettanto assoluta, senza mediazioni e compromessi. Non a caso, nell’ultima parte del suo fluviale, tellurico monologo, Kleist afferma di voler scrivere una lettera “fino al completo sfinimento, tutto in una volta, senza interruzioni, senza neppure un attimo di respiro, per giorni e giorni” per inchiodare le sue parole a quelle pagine “con incessanti colpi di martello ben assestati ed esatti, prima che si spengano per sempre”.
E questo libro, che si pone decisamente al di sopra della media di quanto oggi viene pubblicato, è davvero una prova di scrittura notevole, estenuante e ferma al tempo stesso, estrema e precisa nel disegno di un personaggio abbagliato dallo spirito e votato all’autodistruzione per trovare la sua immortalità, per non soccombere alla volgarità che domina il mondo. Kleist s’impone con tutta la sua forza come una figura destinata a restare nella sua tragica necessità.

Mauro Germani

 

 

 

martedì 1 luglio 2014

In ricordo di Pier Mario Vello

Desidero ricordare Pier Mario Vello, prematuramente scomparso lo scorso 29 giugno, con l'incipit del suo scritto relativo al racconto I sette messaggeri di Dino Buzzati, pubblicato nel volume da me curato L'attesa e l'ignoto. L'opera multiforme di Dino Buzzati (L'arcolaio, 2012). Si tratta di un saggio originalissimo e profondo, che bene evidenzia non solo la qualità della scrittura di Pier Mario, ma anche la sua cultura letteraria, filosofica e scientifica, capace di abbracciare diversi campi del sapere. Pier Mario teneva molto a questo libro e fu proprio lui ad organizzare la presentazione del volume a Villa Buzzati il 4 maggio del 2013. Conservo in me il ricordo vivo del suo entusiasmo e della sua generosità, nonché della sua grande umanità e simpatia. 



Pier Mario Vello 

Confine, senza-confine, monstrum, nei “Sessanta racconti” di Dino Buzzati.
 

Tutti gli elementi della metafisica spaziale buzzatiana, della dialettica tra finito e infinito, tra stasi e cammino, tra limite e illimitato, tra misura e immisurabile sono già contenuti nel  testo di apertura dei “Sessanta racconti”dal titolo I sette messaggeri. La curiosità che spinge ad assumere sfide non perfettamente misurabili e il fascino della frontiera sconosciuta è prepotente in questo racconto, pubblicato nel 1958. E sebbene il presente saggio avesse l’intenzione di descrivere la dialettica tra il Buzzati milanese e quello bellunese, nel suo andirivieni di migrante tra città e monti, qui dobbiamo prendere un’altra strada, dopo un’approfondita lettura dei Racconti. In Buzzati, figlio dell’aristocrazia bellunese trasferitasi a Milano e vissuto nell’ambiente borghese e colto della grande città, non troveremo mai i contrasti, i travagli, le sofferenze e le fratture dolorose dell’emigrante. La frattura, la frontiera e l’illimitato lontano non sorgono mai come elementi di vita storicamente vissuta di un emigrante, ma sono delle vere e proprie categorie fenomenologiche, storiche sì, ma che appartengono all’essere dell’intera umanità. Non è tanto, perciò, l’andirivieni tra Milano e Belluno, dove del resto Buzzati fa il  turista colto e benestante, ma sono i viaggi da esploratore e da cronista, da inviato speciale nelle diversità irrisolte del mondo a fornire la materia prima a Buzzati.
I sette messaggeri è il racconto del viaggio di esplorazione compiuto dal secondogenito del Re per sondare e conoscere i confini del regno del padre. Porta con sé sette messaggeri e al termine di ogni giornata di cammino ne invia uno al padre con le notizie del viaggio. Ciascun messaggero, raggiunta la reggia del padre, ritorna con le notizie del re ormai lontano. I messaggeri sono appellati con nomi in ordine alfabetico: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico,  Gregorio. Poiché il viaggio procede incessantemente, le distanze variano e aumentano di giorno in giorno. Così, come aumentano le distanze che i messaggeri devono compiere per mantenere i contatti tra l’esploratore e la reggia. A dismisura.
La parola “dis-misura” descrive bene il significato di questo testo, che paradossalmente è quello tra i Sessanta racconti che maggiormente contiene l’iperbole e la maniacalità della misurazione ossessiva. La dismisura, l’affievolirsi della ragione e l’impatto con l’infinito innumerabile emergono attraverso un puntuale calcolo di misurazioni precise e di ragionevoli calcoli. La trama stessa di un piano apparentemente razionale fa in realtà trasparire l’irrazionale sprofondarsi nell’illimitato inconoscibile e nel nulla. Le distanze misurate, i tempi prescritti, le ipotesi dei ritmi di andata e ritorno sono matematicamente calcolati, prima con la curiosità della scoperta osservativa del fenomeno, poi con la dolorosa consapevolezza di chi dal calcolo numerico inferisce previsioni esistenziali che lo riguardano da vicino. Man mano che passa il tempo, le notizie di ritorno diventano sempre più rare. Man mano che sono compiute nuove giornate di percorso, la frequenza con cui i messaggeri ritornano si fa sempre più bassa: “la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca”.
La vertigine con cui tutto questo è descritto è la stessa del passaggio matematico all’infinito [...]
PIER MARIO VELLO





venerdì 30 maggio 2014

Recensione di Mario Bonanno a "Margini della parola"

Ringrazio Mario Bonanno per la sua nota critica su "Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei" (La Vita Felice, 2014)
 http://www.sololibri.net/Margini-della-parola-Mauro-Germani.html.

domenica 11 maggio 2014

Il disagio della postmodernità - 10° Fidenza PsicoFestival

3° Festival dell'Anima
Convegno Nazionale AEP
10° Fidenza PsicoFestival
Fidenza
Sabato 17 Maggio 2014



"Il disagio della postmodernità"

Programma

Ore 16.30
Conversazione a più voci su "Il disagio della civiltà oggi": 
  • dottoressa Letizia Manneschi, neurologa presso l'Ospedale di Vaio/Fidenza 
  • dottoressa Rossella Giacometti, psicoanalista della Libera Universitas Psicoanalitica (Lunipsi) di Torino
  • professor Angelo Conforti, insegnante di filosofia e psicologia

Ore 18.30
Presentazione
Mauro Germani, poeta, scrittore e saggista, presenta il suo libro "Gaber, il teatro del pensiero" e ci parla di questo grande anticipatore della crisi attuale e del disagio della postmodernità

Ore 21.30
Cineforum

 Proiezione del film Venere in pelliccia (Francia, 2013, 96’) di Roman Polanski, con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric.



Ingresso: 5 euro
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Direttore: Angelo Conforti
Direttore scientifico: Gabriele La Porta




martedì 1 aprile 2014

Presentazione del libro "Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero" a Cinisello Balsamo (MI)

Inizio modulo
Civica Scuola di Musica | Villa Ghirlanda, Via Frova, 10 - CINISELLO BALSAMO

9 Aprile 2014 | ore 21.00

Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, Editrice Zona, 2013
Presentazione del libro
Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero
di Mauro Germani
Editrice Zona, 2013
Intervengono:
Mauro Germani, autore del libro
Mauro Gaffuri, giornalista, autore della prefazione

Verranno eseguiti alcuni brani di Giorgio Gaber dagli allievi della Civica Scuola di Musica:
Claudio Cocchetto, voce, La Ballata Del Cerutti
Valentina Lecca, voce, Lo Shampoo
Eleonora Marazzita, voce, Torpedo Blu
Alessandro Milzoni, voce, Non Arrossire
Paolo Ribelli, voce, Non Insegnate Ai Bambini
Anthea Schiavano, voce, Quando Sarò Capace Di Amare
Raniero Bonaventura, pianoforte
Stefano Di Niglio, batteria
Martina Milzoni , contrabbasso

Gaber si definiva "un filosofo ignorante".
Questa espressione - che rimanda al sapere di non sapere di Socrate - rivela non solo la continua volontà di ricerca intorno all’uomo, ma anche il proposito di non arrendersi mai di fronte a presunte verità confezionate.
Il pensiero a cui tende tutta l’opera di Gaber non è l’affermazione di un sapere organicamente costituito, né di una specifica ideologia, quanto uno slancio, una tensione ideale che vuole essere un tutt’uno con l’esistenza, con l’esserci, qui e ora, dell’uomo.
Una spinta utopica che cerca di dare senso concreto al nostro essere nel mondo, una riflessione che indaga incessantemente la vita, rivelandone anche gli aspetti più drammatici e contraddittori, un impegno etico cui l’uomo autentico non può e non deve sottrarsi.

Mauro Germani è nato a Milano nel 1954 ed è laureato in Filosofia.
Nel 1988 ha fondato la rivista di scrittura, pensiero e poesia "Margo", che ha diretto fino al 1992.
Ha pubblicato opere di poesia e narrativa ed è autore di numerosi interventi critici su autori classici e contemporanei.
L’ultima sua opera in versi è Terra estrema (L’arcolaio, 2011); ha curato L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012).
È insegnante di Lettere presso la scuola secondaria di primo grado "Marconi" di Cinisello Balsamo.