Paolo Del Colle, Spregamore,
Gaffi 2014
L’ultimo
romanzo di Paolo Del Colle esce a più di dieci anni di distanza dal bellissimo Le ragazze dell’Eur (Quiritta, 2001). La
voce del protagonista di allora ritorna qui in tutta la sua solitudine e in
tutto il suo smarrimento, nello spazio di una notte, come un male oscuro sprigionato
da un corpo offeso e senza pace, e diventa di volta in volta ricordo,
confessione, domanda, grido e preghiera.
Chi
parla - in un monologo che non è solo
parola ma successione di sguardi, immagini, fatti e pensieri che si rifrangono,
si spezzano e si ricompongono - è
assediato da una realtà opprimente e soffocante, che la calura estiva rende
ancor più insopportabile. Come accerchiato dalla morte - quella già avvenuta
del padre e quelle imminenti della madre, con cui vive e di cui si prende cura,
e del gatto, che lascia le tracce della
sua malattia per casa e si nasconde – il protagonista trascina il proprio
“dolore muto”, ai margini di se stesso, in preda a violente emicranie, nel
disordine dell’ appartamento che abita, dove si ammucchiano libri, dvd,
vestiti, oggetti vari, medicinali, siringhe, che denunciano la loro deriva, la
loro inutilità.
Anche
lui si sente il fantasma di se stesso e percepisce un vuoto tremendo, anzi una
profonda sfasatura tra ciò che avverte come il mistero inaccessibile della vita
e la solitudine dell’esistenza e del nostro essere nel mondo, tra ciò che ci supera
nella sua incomprensibilità ed ineluttabilità e la nostra fragilità, la nostra
incompiutezza. E proprio questo doppio senso di incompletezza da una parte e di
inutilità dall’altra domina tutto il
romanzo.
La
storia del protagonista, profondamente segnata dal fallimento del matrimonio dei
genitori e soprattutto sovrastata da due ombre, quella inquieta del padre, e di
Lorenzo, il fratello nato morto, è la storia di un disagio, di un male occulto,
tra la realtà e il suo fantasma.
Entrambe
queste figure incarnano una diversità rispetto al protagonista. Da una parte la
“facilità” del vivere del padre, la sua sregolatezza quasi da eterno
adolescente innamorato delle donne, dall’altra la “perfezione” del fratello mai
nato, dovuta paradossalmente alla sua non-esistenza, l’altra metà di sé, il
doppio autentico ma impossibile, mai venuto al mondo. E tra loro c’è proprio lui, Paolo, il protagonista, con la
sua inadeguatezza e le sue domande, in una terra di mezzo che frana giorno dopo
giorno. Egli sente l’abisso nella sua carne, un mistero insondabile o
addirittura un vuoto che forse è per noi la verità, ma i suoi pensieri restano
per lo più al confine, si dibattono smarriti nell’esistenza, oppure vengono
risucchiati per un attimo dal corpo e poi espulsi, gettati nel mondo, quasi
irriconoscibili.
In
tutta la narrazione il corpo appare davvero fondamentale, colloca e smarrisce,
è realtà ma anche enigma, chiusura impenetrabile che può divenire
improvvisamente transito, accesso innominabile ad altro (e forse non è poi
tanto azzardato pensare, in taluni momenti, a Bataille, per il senso di
vertigine e di perdita, di offerta senza ritorno, senza impiego, quella dépense che caratterizza l’intera sua
opera). Il corpo è perturbante, è plurimo, è storia, è passato e presente, ma
al contempo è pensiero che s’arrende, che non può. La coincidenza tra corpo e
pensiero non c’è. Che cosa può dire davvero, che cosa può pensare davvero il
protagonista davanti al corpo infermo e devastato della madre, o quali parole
può pronunciare per sé, per questo suo dolore impronunciabile, per questa sua
esistenza solitaria? Che cosa fare davanti alla malattia che precede la morte?
A che cosa serve annotare minuziosamente, su due agende diverse, con cifre sigle e sfumature di colore, tutte le osservazioni riguardanti l’avanzare
implacabile del male nella madre e nel gatto?
Anche
ciò che avviene nella notte del racconto è sfasato, come tutto del resto.
Niente combacia, niente è intero, niente è unico. “Nemmeno un istante la vita
coincide con se stessa”, viene detto esplicitamente. Cos’è mai l’identità?
Spregamore
è un quartiere di Roma, che confina con il Divino Amore, pieno di contraddizioni, privo di qualità
precise, eternamente incompiuto, non definito, dove il padre ha abitato
l’ultima volta prima di morire e dove Paolo si accompagna a Delia, un trans con
le unghie colorate con smalto scuro sulla mano destra e celeste mare sulla
sinistra, e che lui possiede cercando di possedere per la prima volta se stesso,
con furia, come a voler eliminare i fantasmi del suo passato. Figura centrale e
doppia, Delia si ricollega alle prostitute del romanzo precedente, apparizioni
nella notte, incontri di enigmi e solitudini, corpi con anime imprendibili,
vite multiple che per un attimo divengono sogni di carne, porti immaginari o
abissi inconsapevoli, ossimori vaganti nel buio e nelle luci delle città, che
Del Colle sa cogliere bene nei loro atteggiamenti o in dettagli minimi ma
rivelatori (ad esempio, i brufoli del braccio di una giovane prostituta, nei
quali viene ravvisato “un estremo rifugio” della gioventù della ragazza).
E
non è un caso se al ritorno a casa il
protagonista si vede diviso dalla cornice di legno dello specchio dell’ingresso
in due parti, come “la figura di una carta da gioco francese, un fante
sconfitto e mutilato, un re deposto dal fratello gemello: […] pezzi distinti,
incapaci di formare una sola persona”. Paolo, dilaniato dall’emicrania, torna
nel suo appartamento dove l’attendono i pezzi sparsi della sua esistenza, la
madre, ridotta ad un mucchio d’ossa, immobile nel letto, e il gatto anch’esso
malato, che scivola nell’oscurità delle stanze. E qui, ancora una volta, si
trova emblematicamente fuori tempo e fuori spazio, sotto gli effetti del Viagra,
assunto troppo tardi, che gli procura un’erezione inutile e drammaticamente
paradossale. Il corpo risponde ad un fatto già avvenuto, non combacia col
presente, e la mente è altrove.
L’ultimo
capitolo del libro, nel quale la disperazione ed il degrado sembrano
raggiungere il culmine, è davvero toccante e di una forza straordinaria. Le
parole rivolte al fratello mai nato sono l’estrema confessione di chi rivela
tutto il proprio smarrimento, quella solitudine antica e tremenda, quel vuoto che
ha assorbito e cancellato la possibilità di una vita vera ed autentica. Eppure
nel confronto finale e straziante con la madre, tra rabbia, amore e impotenza,
qualcosa succede, qualcosa rompe quel dolore senza parole a cui il protagonista
era assuefatto da tempo. C’è forse, per un attimo, un riconoscimento ultimo, qualcosa
che si ricompone, che sembra chiudere il cerchio e consegnare la libertà a chi
muore, donargli un addio che non fa male. La sfasatura tra la vita e se stessa
è ora una distanza che può abbracciare, “e dentro nulla è più bene o male,
dolore o gioia, rancore o affetto, è solo speranza, piccola, quella mai
cresciuta, che ci fa incontrare per la prima e ultima volta entrambi bambini”.
Con
questo romanzo anomalo, di una voce e di un corpo, privo quasi di dialoghi,
tutto interiore, Paolo Del Colle ci consegna un’opera complessa, radicale,
ferita e che ferisce, avvolgente nella fluidità di una scrittura suggestiva ed
ipnotica, che cattura fin dalle prime righe.
Mauro Germani