giovedì 11 settembre 2025

Georges Bernanos - Diario di un curato di campagna

 

Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna, traduzione di Adriano Grande, Mondadori, I ed. 1946

C’è sempre qualcosa che eccede nei romanzi di Georges Bernanos, qualcosa che travalica, che supera la pagina scritta, la stessa storia narrata. Qualcosa che brucia, che infiamma l’anima. Qualcosa che è qui, tra le nostre mani, ma che, al tempo stesso, non è solo di questo mondo. Qualcosa di soprannaturale. 

Leggendo il Diario di un curato di campagna (1936), la sua opera più celebre («il più bel libro della letteratura francese della generazione dopo Gide», scrisse Guido Piovene), tutto questo si percepisce fin dalle prime righe. Perché il diario del giovane curato è la testimonianza di un’anima segnata, di un essere che intende vivere profondamente la propria fede e la propria missione, ma che al contempo deve subire l’indifferenza o l’ostilità della gente di Ambricourt, le menzogne, l’assuefazione al peccato, la fuga da Dio. 

Egli appare subito come un uomo destinato a una sorta di martirio spirituale e fisico, che si compie in mezzo alle tenebre. La sua è una lotta non solo contro il male, ma anche contro sé stesso, perché convinto della propria inadeguatezza o inettitudine davanti alla realtà che deve affrontare e che sovente gli procura angoscia. Come essere un autentico ministro di Dio, un vero servo del Signore? Come comprendere ciò che gli capita e ciò che si agita in lui? La decisione di affidarsi alla scrittura – invero non senza poche perplessità e con diversi ripensamenti, cancellature e pagine strappate – deriva proprio da questo: dall’urgenza di capire quanto gli accade per meglio assolvere all’arduo compito di cui è responsabile davanti a Dio. Proprio per questo, il suo non è un diario semplicemente composto dalla cronaca degli eventi, ma una miniera di annotazioni, di riflessioni, di moti dello spirito davvero straordinari. Non si può non riflettere attentamente su alcuni pensieri improvvisi, vere e proprie illuminazioni, oppure verità scomode e amare confessioni. Quanti mali, di misura ed entità diverse, vede attorno a sé il giovane curato d’Ambricourt! 

Vale la pena sottolineare quanto egli scrive a proposito della noia presente nelle parrocchie, che definisce «una disperazione abortita, una forma torpida della disperazione che certamente è come la fermentazione di un cristianesimo decomposto». O quanto afferma riguardo alla lussuria: «Come mai non ci si accorge, più spesso, che la maschera del piacere, spoglia di ogni ipocrisia, è proprio quella dell’angoscia?». Ed è interessante notare che proprio su questo punto – che al giorno d’oggi molti troveranno inopportuno, anacronistico e persino ridicolo, o scandaloso – egli insiste:« La lussuria mi fa paura. L’impurità dei fanciulli, soprattutto… La conosco. Oh! Non la prendo già sul tragico! Penso al contrario che dobbiamo sopportarla con molta pazienza, poiché la più piccola imprudenza può avere, in questa materia, conseguenze spaventose. […] Ma ciò non m’impedisce di detestare quest’universale cospirazione, questo partito preso di non vedere ciò che, tuttavia, buca gli occhi; questo sorriso sciocco e accorto degli adulti di fronte a certe miserie che vengono credute senza importanza. […] Ho anche conosciuto troppo presto la tristezza, per non sentirmi rivoltato dalla bestialità e dall’ingiustizia di tutti verso la tristezza dei piccoli, così misteriosa. L’esperienza, ahimè, ci dimostra che esistono disperazioni infantili: e il demone dell’angoscia è, essenzialmente, credo, un demone impuro». Particolarmente rilevante dal punto di vista teologico, è quanto poi egli afferma rispetto al peccato:« Tutti i peccati si rassomigliano, non c’è che un solo peccato. Non vi parlo un linguaggio oscuro! Queste verità sono alla portata del cristiano più umile, purché voglia raccoglierle da noi. Il mondo del peccato sta di fronte al mondo della grazia come l’immagine riflessa d’un paesaggio, al margine di un’acqua nera e profonda. C’è una comunione dei santi, e c’è anche una comunione dei peccatori». 

Il giovane curato d’Ambricourt – proveniente da una famiglia povera e contadina, colpita da varie disgrazie – si porta addosso un’infanzia solitaria e una giovinezza mai pienamente vissuta, tuttavia, pur nel tormento che spesso lo possiede (sua è la convinzione d’esser «prigioniero della Santa Agonia»), riesce a conservare una sorta di spirito di fanciullo, qualcosa difficile da definire, un particolare atteggiamento dello sguardo e del cuore, una forma d’innocenza disarmata, che si scontra con il mondo e che si trova sempre esposta al rischio dell’incomprensione e del fraintendimento: è lo stato di povertà unito al sentimento dell’infanzia. Scrive, infatti: «Per quanto io mi giudichi severamente, non ho mai dubitato di avere lo spirito di povertà. Quello dell’infanzia gli somiglia. Entrambi, senza dubbio, formano una sola cosa». 

Innocenza e tormento convivono dunque, in modo misterioso, nel giovane curato, che non si risparmia nella sua opera, nonostante la salute precaria, e non cerca mai scappatoie e compromessi. Chi lo incontra, è costretto a riconoscere – anche respingendola – la sua diversità. Il curato di Torcy, uomo senza dubbio di fede (si leggano le sue stupende parole dedicate alla Vergine Maria: «Lo sguardo della Vergine è il solo sguardo veramente infantile, il solo vero sguardo di bambino che si sia mai levato sulla nostra vergogna e sulla nostra disgrazia»), vigoroso e concreto, comprende la strana fragilità e, al tempo stesso, l’inconsueto rigore del giovane curato, ma gli consiglia d’essere meno preoccupato nei confronti del male, perché il peccato non deve fare paura alla Chiesa. Un altro sacerdote, il decano di Blangermont, dalla mentalità borghese, lo considera in modo sospetto, e gli dice soprattutto che deve curare più scrupolosamente l’amministrazione della parrocchia («i santi sono stati troppo sovente una prova per la Chiesa, prima di divenirne una gloria»). Altri personaggi mettono alla prova il giovane curato: il dottor Delbende, privo di fede, la bambina Séraphita Domouchel, ambigua e maliziosa, ma soprattutto il conte e la contessa castellani di Ambricourt, la loro figlia Chantal e la governante di lei, Mademoiselle Louise. Il giovane curato dovrà conoscere la relazione del conte con Louise, il disgusto provato da Chantal, la freddezza della contessa che, dietro l’apparente tranquillità e rispettabilità, prova un sentimento di ribellione verso Dio, non ama ormai più nessuno e vive solo nel ricordo di un figlio morto in tenera età. L’ostilità di tutti costoro gli si porrà davanti in modo inesorabile. E tuttavia il giovane curato non fuggirà dal proprio compito. Non solo. Qualcosa di misterioso è in lui. Le parole che pronuncia sembrano dettate da un Altro: è proprio come se lo Spirito del Padre parlasse in lui, secondo la promessa fatta da Gesù agli apostoli. 

Si veda, al riguardo, uno dei momenti più alti del romanzo: il lungo, estenuante colloquio con la contessa, una vera e propria sfida contro la menzogna e l’odio. E qui colpisce una potente affermazione del curato: «Non c’è un regno dei viventi e un regno dei morti, non c’è che il regno di Dio e noi, viventi o morti, vi stiamo dentro». Essa produrrà, insieme ad altre parole, un effetto miracoloso: la contessa finalmente troverà la pace e si convertirà. La tensione drammatica del romanzo, però, non finisce e continua a crescere ulteriormente, a causa della morte improvvisa della contessa e della malattia incurabile del giovane curato: un cancro allo stomaco. La via crucis del protagonista si concluderà nella casa di un ex compagno di seminario, ormai spretato, a cui egli chiederà l’assoluzione. Poco prima della morte, il curato mormorerà, in conformità con Santa Teresa di Liseux, che «tutto è grazia», quindi tutto è un dono, poiché ciò che ci viene dato è per la nostra salvezza. 

Bernanos arriva così al termine dell’appassionato e travagliato dialogo tra il soprannaturale e il mondo: le ultime parole del curato non solo danno un senso a ciò che è l’esperienza terrena, ma preludono anche al dopo, a quell’altra vita e a quell’altro cielo verso cui l’intera opera dello scrittore francese tende.

Mauro Germani







martedì 2 settembre 2025

L'uomo secondo Pascal


A ben pensarci, ogni filosofia rivela in modo più o meno esplicito una precisa concezione dell’uomo. Quella di Blaise Pascal (1623-1662), relativa alla sfera etica e religiosa (egli fu anche importante matematico e fisico nella prima parte della sua breve vita), risulta assai originale se posta in relazione non solo con il XVII secolo – il suo – , ma anche con quanto elaborato dalla Scolastica dei secoli precedenti (si pensi, per esempio, ad Anselmo d’Aosta e alle sue pur mirabili prove a posteriori e a priori dell’esistenza di Dio, o alla monumentale e prodigiosa opera di Tommaso d’Aquino, nella quale il pensiero aristotelico si compone in una sintesi equilibrata tra ragione e rivelazione, enunciando altresì le celebri cinque prove dell’esistenza divina). Pascal non ritiene infatti che la sola ragione possa dare un contributo decisivo in un campo che la trascende, in quanto le nostre capacità razionali risultano in questo senso limitate e incompiute. A tal proposito, si può citare la seguente affermazione: «L’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano. Incomprensibile che Dio sia, e incomprensibile che non sia». 

Ciò potrebbe far pensare a un atteggiamento di distanza dalla fede, ma non è così, anzi. Pascal – che fu vicino a partire dal 1654 all’ambiente di Port-Royal e al giansenismo, in opposizione al lassismo dei gesuiti e alla loro “casistica” predisposta per la coscienza, come risulta dalle Lettere provinciali del 1657 – aveva ben presente la duplicità della natura umana: «Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto all’infinito, un tutto al confronto del nulla, un qualcosa di mezzo fra nulla e tutto». Ecco, dunque, per Pascal la condizione dell’uomo in bilico, esposta continuamente al rischio esistenziale e alle derive del libertinismo allora di moda, che esprimeva una mentalità laica (e talvolta ipocrita), nella quale il razionalismo cartesiano era unito a motivi scettici.

In questo contesto, è proprio la rivelazione cristiana ad assumere, per il filosofo francese, un ruolo fondamentale, ma in una forma insolita: l’intento apologetico di fondo non è mai separato da una continua osservazione critica rivolta all’uomo, di cui egli mette in rilievo al contempo la miseria e la grandezza. Non c’è in Pascal alcuna dimostrazione di Dio, quanto piuttosto la convinzione della necessità della fede cristiana e della grazia (in accordo, pertanto, con Sant’Agostino), come uniche possibili risposte all’enigma dell’uomo e alla sua natura corrotta dal peccato originale: «Il peccato originale è follia davanti agli uomini, ma viene dato per tale. Voi dunque non dovete rimproverarmi il difetto di razionalità in questa dottrina, poiché io la presento come irrazionale. Ma questa follia è più saggia di tutta la saggezza degli uomini, sapientius est hominibus. Infatti, senza di essa, cosa può dirsi della natura umana? Tutto il suo stato dipende da questo punto impercettibile. E come avrebbe potuto l’uomo rendersene conto con la sua ragione, dal momento che è una cosa contro la sua ragione, e che la sua ragione, ben lungi dal ritrovarla per le sue vie, se ne ritrae quando vien presentata?». 

Del resto è noto come egli avesse in progetto una Apologia del cristianesimo, che però non venne compiuta a causa della sua salute precaria, e i cui frammenti vennero poi riordinati e pubblicati nel 1669 dai suoi amici di Port-Royal con il titolo Pensieri – la sua opera più celebre. È poi interessante sottolineare l’importanza del ritrovamento, dopo la sua morte, del cosiddetto Memoriale, un testo autografo, datato 23 novembre 1654, cucito nel suo vestito (e che portava pertanto sempre con sé): una testimonianza di una vera e propria esperienza mistica, da lui descritta come Fuoco, nella quale contrappone al Dio dei filosofi la figura di Gesù, verso cui egli dichiara la propria sottomissione. Da aggiungere inoltre che Pascal scrisse, probabilmente verso il 1650, anche un Compendio della vita di Gesù Cristo, libro scoperto e pubblicato solo verso la metà dell'Ottocento, che consiste nella narrazione della vita esemplare di Gesù sulla base di una lettura puntuale e rigorosa dei quattro Vangeli, accompagnata da brevi considerazioni dottrinali. 

Se la natura umana è fragile e contraddittoria, sedotta dal divertissement, cioè dalla distrazione esistenziale e dalla ricerca del piacere (secondo una concezione che troviamo, secoli dopo, in Aut-Aut di Kierkegaard, a proposito del cosiddetto stadio estetico, rappresentato dal mito di Don Giovanni), non c’è altra via di salvezza per Pascal che nella religione cristiana, unica risposta al desiderio d’infinito dell’uomo e che ci viene rivelata dalle Sacre Scritture, dalle varie profezie e dai miracoli. Il divertissement nasconde in realtà qualcosa di tragico, una profonda lacerazione e disperazione, un vuoto, una noia, una paura della morte, che vengono illusoriamente colmati dalle incessanti attività umane, compresa la guerra e il gioco: è tutto ciò che distoglie l’uomo dal pensare alla propria condizione: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno preso partito, per rendersi felici, di non pensarvi». E ancora: «La sola cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e tuttavia è la più grande delle nostre miserie. Perché è proprio quello che ci impedisce principalmente di pensare a noi e che ci porta inavvertitamente alla perdizione». 

È indubbio, pertanto, che questo atteggiamento di fuga da sé stessi, non può costituire un’alternativa autentica, degna dell’uomo, al suo malessere interiore, in quanto in tal modo viene sospesa la ricerca della verità, la quale comporta fatica e sofferenza, ma è proprio il cercare gemendo, cioè il cercare con umiltà, a partire dal riconoscimento della propria miseria, che – secondo Pascal – conduce alla fede. Essa non può essere conquistata da prove e dimostrazioni, che possono risultare valide solo per chi già la possiede, eppure occorre avere la consapevolezza che all’uomo spetta la decisione: non è possibile rimanere neutrali, sottrarsi alla scelta, restare indifferenti, fare finta che il problema religioso non esiste. L’impotenza a credere deriva per Pascal dal prevalere di passioni e di comportamenti non idonei, da qualcosa che in fondo blocca l’uomo, lo restringe unicamente a sé, lo chiude e lo condanna a una sconfitta del cuore, termine quest'ultimo che indica la facoltà di cogliere i princìpi indimostrabili. 

La famosa e controversa scommessa per il Dio dei cristiani di Pascal si inserisce allora in questo contesto, cioè relativo al non credere, e non riguarda pertanto la vita del filosofo, il suo intimo sentire. Si tratta di un’esortazione pratica e razionale, basata sulla convenienza del credere che, a dire il vero, può sconcertare e sollevare non poche perplessità, in quanto Pascal propone una scelta basata sul calcolo, e cioè opportunistica, non autentica, in contrasto con il giansenismo e con il primato della grazia in cui egli credeva. Tuttavia essa può rientrare nella paradossalità della fede, la quale è oltre la ragione, ma permette altresì la possibilità di scommettere per essa in modo sensato; una sensatezza, comunque, fondata su contenuti che eccedono la ragione: «La nostra religione è saggia e folle. Saggia perché è la più dotta, la più fondata in miracoli, profezie, ecc. Folle, perché non è questo che fa sì che si appartenga ad essa». 

Al di là delle critiche che la teoria della scommessa ha suscitato in alcuni, l’opera di Pascal è da considerarsi di straordinaria importanza, sia per la speculazione filosofica incentrata sulla condizione umana – come, in modo diverso, possiamo trovare in Montaigne –, sia per la scrittura che risulta assai efficace e privilegia il frammento e l’aforisma. Inoltre occorre aggiungere che molte riflessioni, come quelle relative al divertissement, appaiono ancora estremamente attuali nella loro drammaticità.

Mauro Germani