lunedì 5 maggio 2025

Nel sangue delle sillabe - Sulla poesia di Gabriele Gabbia


Nella prima raccolta di Gabriele Gabbia, La terra franata dei nomi (L’arcolaio, 2011), il nominare poetico è contraddistinto dalla frana e dalla maceria. C’è nei versi una profonda lacerazione colta nel suo manifestarsi, in un movimento spezzato e scisso che segnala la tensione di un dire che reca in sé il senso di una perdita, di una pienezza mancata. Il poeta invoca ed evoca i nomi, ma si scontra sempre con qualcosa di inafferrabile dentro e fuori di sé. Ciò che l’esistenza scuote e grida appare sulla pagina come la traccia di una scomparsa, di un’assenza o di un lutto. Una frana ab origine è infatti avvenuta, esponendo la parola alla propria solitudine e alla propria resa al cospetto della vita. Nella lettura noi veniamo coinvolti da questo evento tragico che implica appunto una terra franata e un Io frammentato e multiplo, scomposto da un destino rovinoso, che trascina nel proprio abisso ogni nome. E se il nome è – o dovrebbe essere – ciò che è in grado di assegnare una precisa realtà alle cose e al mondo, la frana che subisce si configura come una disgregazione che mina l’esistenza e in specifico il fare poetico. Ecco allora che l’impulso creativo della scrittura, con la sua urgenza e con il suo bisogno di totalità, s’infrange contro le rovine del linguaggio. La terra franata dei nomi pare proprio denunciare questa consapevolezza, questa aspirazione mancata, ed è chiaro come al centro vi sia qui una sconfitta primordiale, che coinvolge anche il poeta stesso, nel suo duplice ruolo di vittima e carnefice all’interno della contesa estrema tra l’esistenza e la poesia. Vengono in mente le parole di Maurice Blanchot quando afferma che la poesia dipende da chi scrive, dalla sua ricerca, tuttavia questa dipendenza «non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di sé stesso e come inesistente». In questo senso l’identità del poeta pare il risultato di un doppio smarrimento: quello propriamente umano e quello relativo alla scrittura.

Nella seconda raccolta, L’arresto (L’arcolaio, 2020), possiamo cogliere un’ulteriore fase, l’ultima, quella in cui la parola poetica in qualche modo si pietrifica, non è più travolta da alcuna forza tellurica, ma appare gettata in una fissità quasi marmorea. I movimenti e le dissociazioni precedenti, con le loro voci spezzate e multiple, qui si arrestano, si concentrano in forme prosciugate. I versi diventano più assertivi, più severi e più limpidi, anche nella loro raggelante bellezza. Essi, estremamente stratificati – si tratti di ricordi, di riflessioni, di squarci descrittivi o di episodi quotidiani – consegnano al lettore la testimonianza di un destino, una vera e propria incisione della memoria come su una lapide. La frana assume ora le sembianze di un congedo ripetuto, che parla con l’ultima voce, quella che Gabbia intende lasciare alla pagina in modo definitivo. È l’esigenza di ritornare ai testi della precedente raccolta per assegnare loro un valore aggiunto, una forma in qualche modo incancellabile e immutabile, chiudendo così il cerchio del dettato poetico. E ciò non può che essere interpretato come un continuo ritorno, ossessivo e quasi maniacale, ai temi già affrontati (la perdita, il lutto, il nulla, la solitudine, i limiti della condizione umana) in una revisione tormentata e ripetuta dei versi, affinché la parola sia fissata sulla pagina una volta per sempre. La poesia di Gabbia, in questo senso, tende ad avvicinarsi al sacro, nella ricerca di un assoluto, che è di anima e di sangue, e del quale i versi recano i segni, come tagli o ferite non rimarginabili. Si tratta di una passione, di un sangue rappreso, che si è coagulato dentro le sillabe dei versi e che è testimonianza di una necessità ulteriore, una concentrazione maggiore e un’ostinazione verso una parola in qualche modo postuma, fermata. L’arresto è dunque il momento decisivo e ultimo, in cui l’autore cerca di imprigionare «questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza», per dirla con il Leopardi del Cantico del gallo silvestre. Ed è proprio nell’impatto con quanto di misterioso e di ossimorico c’è nell’esistere che risiede per Gabbia, in questa sua seconda silloge, il confronto con la dimensione del sacro, intendendo quest’ultima non solo come epifania e prossimità, ma anche come ritiro e lontananza, custodia di una parola perentoria e potente, che è e vuole essere segno di contraddizione, non certo un semplice flatus vocis destinato a dissolversi. Non si può non pensare, a questo punto, alla bellezza sconvolgente e ineguagliabile che troviamo nei libri poetici e sapienziali dell’Antico Testamento – nei Salmi, nel Qoelet, nel Cantico dei Cantici –, oppure nei libri profetici come quello di Isaia, ma soprattutto nella straordinaria intensità dei discorsi e delle parabole di Cristo nei Vangeli. Questo sguardo della poesia verso il sacro – indipendentemente dalle credenze personali di ciascun poeta – si può intendere come la volontà di incidere sulla pagina i segni dell’esistenza in una tensione incessante, un lavoro caparbio e continuo, che sa però di essere sempre esposto alla possibilità del fallimento e dell’afasia. Ed è così che l’inquietudine di chi scrive appare inevitabile, perché la sacralità cercata nei versi è per il poeta un orizzonte in cui luce e tenebre si confondono, anche se è bene precisare che è proprio questa condizione di attesa e di pericolo che caratterizza il fare poetico, la sua sfida estrema, ardua, ai limiti dell’indicibile. Da qui nasce per Gabbia la necessità della parola, la quale – pur contornata dal nulla che l’assedia – afferma tenacemente il proprio spessore e la propria ferita. Piaga o graffio, essa diviene significativamente nei versi la testimonianza di una religiosità in qualche modo franata, senza trascendenza, i cui simboli, attinti dal cristianesimo, sembrano esercitare una sorta di seduzione violenta (antropologica, linguistica, iconografica), che però non ha sbocco e resta pertanto tragicamente interrotta. Gli elementi cruenti rinvenibili nella poesia di Gabbia lo attestano inequivocabilmente nelle varie fasi: nel prima (ciò che è all’origine della frana), e nel dopo (ciò che la scrittura, come atto ultimo, ci consegna, nel sangue trattenuto delle sillabe). Ma – a ben vedere – è proprio in questo passaggio e in questo sangue che risiede, a nostro avviso, un mistero più grande, un’interrogazione che non smette di interpellarci.

Mauro Germani

L’immagine «Preghiera» e il ritratto scattato all’autore sono opere del fotografo Claudio Rizzini.

Gabriele Gabbia è nato il 14 luglio dell’anno 1981 a Brescia e ivi vive. 

Nel 2011 ha editata – nella collana «I germogli» diretta da Stelvio Di Spigno per l’edizioni L’arcolaio di Gian Franco Fabbri – la silloge di liriche La terra franata dei nomi, con prefazione di Mauro Germani (vincitrice – in ex aequo con Clery Celeste – della seconda edizione del Premio di Poesia «Solstizio» 2015 e premiata con “segnalazione” alla XXVI edizione del Premio Nazionale di Poesia «Lorenzo Montano»; premio, quest’ultimo, che s’è aggiudicato nel 2013 vincendo la XXVII edizione nella sezione “Una poesia inedita”). 

Sue poesie e | o interventi critici sono apparsi all’interno di riviste cartacee, antologie di premi, blog, website. 

Intorno al suo lavoro in versi hanno scritto: Sebastiano Aglieco, Amedeo Anelli, Alessandro Bellasio, Luciano Benini Sforza, Gianluca Bocchinfuso, Giorgio Bonacini, Roberto Carifi, Giacomo Cerrai, Diego Conticello, Maurizio Cucchi, Anna Maria Curci, Milo De Angelis, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Francesco Filia, Marco Furia, Mauro Germani, Stefano Guglielmin, Giuliano Ladolfi, Giorgio Linguaglossa, Piera Maculotti, Gian Ruggero Manzoni, Mario Marchisio, Lorenzo Mari, Fabio Michieli, Federico Migliorati, Luca Minola, Marco Molinari, Elisabetta Nicoli, Giancarlo Pontiggia, Alfredo Rienzi, Jonata Sabbioni, Nevio Spadoni, Maria Zanolli, Camilla Ziglia. 

L’arresto – L’arcolaio, 2020 (finalista ai premi Gozzano e Montano) – è la sua seconda raccolta di liriche.