Un’Africa quasi astratta, ma che il
lettore si sente addosso con il suo caldo opprimente, il cielo incolore, il suo
lento respiro. Un’Africa che è quella della guerra d’Etiopia, sospesa per il
protagonista – un ufficiale italiano – tra allucinazione, vergogna e istinto
di sopravvivenza. Un luogo che ben presto diviene quasi metafisico, emblema di
smarrimento esistenziale e di improvvisa violenza, come una condanna da
scontare. Un luogo – ancora – che mette a nudo la meschinità dell’essere umano,
le sue profonde contraddizioni. E soprattutto l’assoluta mancanza di certezze.
Perché il sospetto e la colpa tormentano fino
alla fine l’animo del protagonista, in uno sdoppiamento continuo della propria
personalità, incredulo egli stesso delle proprie azioni e della propria natura
nascosta.
La vicenda narrata prende l’avvio
dall’omicidio commesso dal protagonista nei confronti di Mariam, una ragazza
etiope con cui ha trascorso una notte d’amore. La giovane, prima ferita involontariamente da un colpo di pistola esploso contro un animale dal
tenente, viene poi uccisa di proposito da quest’ultimo. Dopo questo evento
drammatico, per metà casuale e per metà voluto, il protagonista si trova in una
condizione di confusione, di incertezza e di paura, alimentata poi anche dal
sospetto di avere contratto la lebbra dalla ragazza, a causa di una pustola che
compare poi sulla sua mano. Un malessere mentale e fisico s’impadronisce a poco
a poco di lui, fino a condurlo quasi alla diserzione e a imprigionarlo in una
sorta di delirio, tra ipotesi di fuga, esplosioni di violenza incontrollata,
dubbi continui, viltà e pentimenti.
Niente è sicuro in questo romanzo, se non
la tragedia di quest’uomo comune, in balia di se stesso e di
una verità sfuggente. Egli non è un eroe, né un antieroe, piuttosto è
chi non pensava di essere, un individuo che scivola tra indifferenza e orrore per ciò che sta vivendo, ma che prova anche profonda nostalgia per la
moglie lontana, di cui gli restano ricordi struggenti e le lettere nello zaino.
Un uomo solo, che non sa che fare, in preda a pensieri di morte che lo
assalgono senza dargli tregua. Ipotesi, sospetti, indizi si succedono a improbabili progetti di salvezza, tra illusioni, disperazioni, vani tentavi di
fuga. Il delitto commesso e la paura del contagio divengono il centro di
un’ossessione, che dilaga all’ambiente, agli altri personaggi, alle cose. Che
cosa è successo e sta succedendo veramente?
C’è indubbiamente, in questo straordinario romanzo di Ennio Flaiano (Premio Strega 1947), un’inquietudine che rimanda, per certe atmosfere e tematiche, a Dostoevskij (l'uomo del sottosuolo, intimamente contraddittorio e malato, dall'io diviso, posseduto da forze e ossessioni che sfuggono al proprio dominio), e a Kafka (il senso di colpa e di possibile condanna all'interno di un contesto che pare spesso incomprensibile), tuttavia con un’impronta personale di abbandono, di trasporto lirico, con uno sguardo che in certi momenti rivela una pietas non di maniera, uno scatto dell’anima, sia pur fragilissimo, esposto ai rischi costanti dell’annientamento.
Flaiano è abilissimo nel narrare, in prima
persona, una storia che mette in gioco non solo la natura del protagonista,
compromettendone la sua moralità e la sua lucidità, ma anche l’identità degli
altri personaggi, tra tutti il vecchio Johannes e il bambino Elias, parenti
della vittima, con i quali l’ufficiale, sempre più smarrito, instaurerà un
rapporto contraddittorio, di dipendenza e di rifiuto insieme. Anch’essi, chi
sono in realtà? Quali motivazioni nascondono i loro comportamenti?
Poi c’è la guerra di conquista, ormai
giunta quasi al termine, e presente nelle pagine come una specie di sogno
malato, un morbo dell’anima, che ha generato e continua a generare violenza e
assurdità, stordimento della coscienza, sopraffazione e miseria. Il tutto senza
discorsi ideologici, ma mettendo in evidenza quella tragica normalità,
quel male dolciastro, che tutti accomuna, vincitori e vinti.
La conclusione del romanzo è spiazzante e insieme coerente, perché apparentemente tutto sembra risolversi e
l’incubo del protagonista finire, in quanto “il prossimo è troppo occupato coi
propri delitti per accorgersi dei nostri”, come afferma un personaggio nelle
ultime pagine. E occorre ricordare quanto dichiarò lo stesso Flaiano circa
l’epilogo non certo rassicurante della storia: “Il protagonista, alla fine, ha
di nuovo il sospetto di non essere guarito. Forse non si tratta più della
lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci
procuriamo quando l’esperienza ci porta a scoprire quello che noi siamo veramente.
Io credo che questo non sia soltanto drammatico, ma addirittura tragico”.
Tempo di uccidere è sicuramente uno dei più importanti
romanzi del Novecento italiano.
Mauro Germani