Gian Ruggero Manzoni, Nel profumo delle catacombe, L’arcolaio, 2019
Quest’ultima
opera poetica di Gian Ruggero Manzoni si cala nel profondo, penetra quella
cavità dove inizio e fine sembrano ancora parlare, quel luogo abissale nel
quale si manifesta una sospensione
tra vita e morte, come una testimonianza estrema. Il legame tra il bianco e il
nero, tra luce e tenebra, qui non si estingue, perché si accende di sfumature
“attraverso il sentimento / e il fervore”, e ciò che resta del bianco si unisce
al nero, annunciando una verità altra,
aldilà di ogni scontata contrapposizione. È come se i corpi non smettessero di
essere, lasciando ai propri resti una voce, un grido, un lamento o un monito,
che il poeta interpreta e raccoglie, dentro e oltre il disfacimento.
Manzoni
suggella nei suoi versi il legame profondo tra la vita e la morte, con la
consapevolezza che quest’ultima risulta
essere necessaria alla vita, in quanto opera uno svelamento della vita stessa,
divenendo una sorta di negazione che
afferma. E in questo ossimoro risiede l’essenza di tutto il libro.
Che
cosa ci dicono dal loro buio e dalla loro fredda luce i teschi e le reliquie
che appaiono improvvisamente ai nostri occhi? Quale lingua muta si è congelata
in quelle ossa? Quali passioni, quali violenze o quali preghiere dietro quei
resti così inquietanti? E quali verità in quelle iscrizioni e in quelle
immagini che accompagnano il nostro sguardo?
La
testimonianza della morte unisce i testi in un viaggio catabasico che parla di
esistenza e di destino, di ciò che è stato e di ciò che è ultimo, che rimane e si rivela negli ambulacri percorsi dal poeta.
C’è
un sentimento religioso in questo
itinerario, unito a un’ansia di verità che trascende ogni sorta di comoda
pacificazione spirituale e che non esclude nel suo impeto l’invocazione o la
sfida a Dio. Le città sotterranee, che esistono nascoste, al di sotto della
superficie su cui si svolge la nostra vita consueta e distratta, con le loro
gallerie, le loro ombre, i loro graffiti, insieme a ciò che resta dei corpi e
agli oggetti circostanti, possono indurre alla fuga o alla riflessione. Manzoni
sceglie la seconda, consapevole che esiste una lezione della morte per tentare di avvicinare con la parola poetica
l’enigma e le contraddizioni dell’esistenza.
Come
afferma Gian Franco Fabbri nella prefazione, qui il poeta si assume “il compito
di registrare suoni e voci di una vita vissuta e parallela”, prendendo atto di
“un coacervo di scambi – l’uno che prega il santo o la santa affinché
intercedano presso Iddio per una contropartita di salvezza; l’altro che popola
un vero e proprio mercato che accende interessi e perdoni”.
Questo
a significare che il viaggio intrapreso è una meditazione sull’umano e non
vuole allontanarsi dal groviglio dell’esistenza, il quale può comprendere scelte
di vita estreme e moti dell’animo
diversi, che ci interrogano nel loro mistero, tra verità e leggenda, come il
martirio di Santa Caterina d’Alessandria “da cui sgorgarono gigli e margherite
dalla vagina, / latte e miele dal collo, /quando depose la testa sul ceppo
/ e la campana ne suonò la morte”, o la
piccola Rosalia Lombardo, morta di polmonite a due anni, che “a volte apre e
chiude gli occhi / e non manca molto che ti sorrida / o ti faccia un segno per
illudersi / di non essere dalla parte / di chi più non vive”.
Nei
testi di Gian Ruggero Manzoni la voce dei morti e quella della poesia
s’incontrano, ma senza alcun compiacimento macabro, anzi. Ciò che emerge da
questo libro anomalo e giustamente fuori dal coro, aldilà degli odierni ed
insopportabili esercizi di stile, è
la domanda circa l’esistenza, quell’interrogazione radicale che nasce dal
profondo, ovvero dalle nostre catacombe, dove inaspettatamente è
possibile coglierne il misterioso profumo.
Mauro Germani