Riascoltare
oggi (2018), a quarant’anni di distanza, Polli d'allevamento (1978) significa avere la conferma ancora una volta della
straordinaria forza espressiva di quello spettacolo, nonché dell’analisi lucida
e impietosa contenuta nei testi, così drammaticamente veri nella
loro impronta esistenziale e sociale insieme.
Io allora avevo 24 anni, seguivo Gaber già da Il signor G, e rimasi profondamente colpito dalla sincerità, dal coraggio, dalla rabbia e dalla solitudine che emergevano dallo spettacolo. Non tutti, naturalmente, condivisero il pensiero di Gaber e sappiamo quanti lo attaccarono per la sua canzone Quando è moda è moda, nella quale dichiarava di essere «diverso e quasi certamente solo». Molti si sentirono feriti e abbandonati. Certo, Polli d'allevamento feriva e voleva ferire, e probabilmente il primo ferito era lo stesso Gaber. E questo perché lo spettacolo affrontava il male oscuro (il cancro – come poi venne chiamato in Libertà obbligatoria) che c’era in noi giovani di allora, ma che a breve avrebbe contagiato tutti, al di là delle barriere generazionali e persino sociali. Parecchi credettero di essere immuni e per questo preferirono difendersi aggredendo o fuggendo, senza porsi domande troppo scomode. Il pensiero critico – si sa – ha sempre fatto paura, e allora Gaber indubbiamente spaventò parecchi.
Al di là delle polemiche del tempo, questo spettacolo consente, più di altri, di puntualizzare alcuni questioni piuttosto importanti. La prima è sicuramente la diversità di Gaber, a vari livelli: il suo essere indipendente, al di fuori di ogni schematismo ideologico, ed anche non omologabile ai cosiddetti cantautori di allora. E oltre a ribadire l’autonomia di pensiero di Gaber, che proprio da questo spettacolo in poi sarà sempre più evidente, occorre sottolineare anche la sua autonomia - e dunque originalità – rispetto alla sua peculiare espressione artistica, in quanto quest’ultima non ha nulla in comune con la semplice canzone d’autore. Gaber faceva teatro, gli altri no: album o concerti. La seconda è la delusione di Gaber rispetto al movimento giovanile nato dal Sessantotto. Innanzitutto perché al principio c’era stata da parte sua un’adesione spontanea, una simpatia nei confronti di chi aveva avuto il coraggio di una protesta, di una ribellione nei confronti della società. Delusione – soprattutto – perché la spinta rivoluzionaria non aveva poi saputo essere vita, divenire corpo in movimento, ma si era da un lato offuscata e cristallizzata in ideologia separata dall’esistenza, in dogmatismo e in violenza, e dall’altro aveva mostrato un velleitarismo infantile, inutile, assuefatto alla moda. La terza – strettamente connessa alla seconda – è l’amara consapevolezza del confronto generazionale, così come emerge dalle canzoni I padri miei e I padri tuoi. Mentre i padri di un tempo «non ispiravano allegria / chiudevano le porte a tutto», ma «avevano una certa consistenza / e davano l’idea di persone /persone di un passato che se ne va da sé», i nuovi padri di allora sembravano (e sembrano tuttora) non avere alcuno spessore, «studenti un po’ invecchiati», quasi eterni adolescenti, dunque uomini incompiuti, senza autorevolezza, incapaci di coniugare un vero rigore con un uso saggio della libertà.
Ecco dunque quell’approccio esistenziale, sempre presente in Gaber, alla realtà sociale, la sua attenzione alle facce, ai gesti, agli atteggiamenti, ai gusti, ai corpi, capaci di rivelare più di tante analisi sociologiche. Ed ecco anche la drammatica separazione delle idee dall’esistenza concreta, come già aveva denunciato nella canzone Un’idea, all’interno dello spettacolo Dialogo tra un impegnato e un non so. La tragica omologazione antropologica e culturale di cui aveva parlato Pasolini è sicuramente ben rappresentata in Polli di allevamento (il titolo riprende un’espressione che usò proprio Pasolini nei suoi Scritti corsari). Il sistema (come si diceva allora) stava inglobando tutto, neutralizzando così ogni forma di ribellione. E i polli d'allevamento, «nutriti a colpi di musica e di rivoluzioni» avevano sul viso «un’espressione equivoca e sempre più stravolta», patetici o pericolosi nel loro comportamento dissociato e inautentico. Una dolorosa constatazione da parte di chi li aveva avvicinati ed era stato per un tratto una specie di compagno di strada. Perché comunque non bisogna dimenticare ciò che Gaber canterà ne La razza in estinzione (2001), quando ricorda «le strade, le piazze gremite / di gente appassionata / sicura di ridare un senso alla propria vita». La violenta e provocatoria Quando è moda è moda suggella senza mezzi termini una sconfitta, ed i giovani (come ero io allora) vengono definiti «non tanto diversi dai piccolo borghesi che offrono champagne e fanno i generosi». Non importa se è diverso il loro grado di coscienza perché sono comunque il prodotto di una moda che li rende fasulli, prigionieri di atteggiamenti che ormai non hanno nulla di alternativo. Ed è proprio questo venir meno di sostanziali diversità, questo moderno appiattimento che rende drammatica la situazione della società. Gaber afferma nel Finale che bisognerebbe rompere «il meccanismo regolato della scena», fare qualcosa, «dire una parola. Una parola qualunque che non sia scritta nel copione».
E oggi? Oggi sembra non esserci più
niente. Il copione è disarmante. Nuove mode,
peggiori delle precedenti, dominano la scena. Tutto è più difficile e incerto
e la demagogia del momento pare trionfare, senza alcuna
elaborazione teorica. Morte le idee, certo, ma l’esistenza sempre più precaria,
più fragile, più inautentica, abbandonata a impulsi condizionati,
a finte libertà. Slogan e tecnologia sostituiscono il pensiero e
forse anche ciò che di nobile un tempo poteva includere la democrazia, quella
vera. Se la televisione ci ha rincoglioniti, i si può e i social network ci hanno devastati. E Gaber, intanto, ci
manca.
Mauro
Germani