Alberto Giacometti, Scritti, Abscondita, 2001
Alberto
Giacometti in lotta con la realtà. Sempre. Con il disegno. Con la scultura.
Anche con la scrittura. Per catturare l’esistenza e l’esistente. Non solo volti, corpi, ma anche oggetti. Spinto da un
desiderio incessante, anzi una vera e propria ossessione. Tra il vuoto e le
forme. Tra il buio e i bagliori improvvisi. Dentro il suo atelier, la sua bottega-caos,
la sua stanza da condannato. Nella
furia, nella distruzione, nel dubbio, nel tormento. Iniziando, cancellando,
ricominciando. Lottando. Anche con la matita o la penna, sui taccuini, sui
fogli sparsi scritti ovunque, tovaglie di carta, giornali, libri, muri.
La
scrittura di Giacometti procede a piccoli balzi, s’interroga, s’interrompe, si
riprende. Ha il respiro e l’affanno dell’esistenza. E’ timida e violenta. E’
fragile e potente. Dice di sé, del suo smarrimento, ma anche della sua urgenza,
della sua sfida all’impossibile.
Giacometti non usciva mai senza un taccuino in tasca. Doveva osservare,
interpretare, scomporre, ricomporre, tracciare linee, segni, parole. La realtà
circostante l’assaliva. La sua stessa esistenza l’assaliva, con il mistero dei
volti incontrati, la moglie Annette, il legame tenero e disperato con Caroline,
i bordelli, gli amici, la malattia. E le
sue teste scavate. I corpi lacerati. Quelle figure sottili. Quelle materie del
vuoto. Quelle macerie sospese e parlanti. Quelle essenze di vite rapprese.
Quegli acuti alzati nel nulla.
Giacometti
consumava e si consumava. Una dépense
continua e febbrile, vitale – a modo suo. Un corpo a corpo con l’esistenza ed il suo abisso. Nei confronti della
parola provava insoddisfazione, sapeva che non bastava, che ciò che essa
traduceva era poca cosa rispetto a quel groviglio
che è l’essere umano, a quell’enigma che è il mondo. Eppure scrivere era
necessario ed urgente, con le sue sbavature, le sue mancanze, i suoi
tradimenti. Anche la sua arte era così. Una pena desiderata ed una meraviglia
che stordiva improvvisa. Un tremore che scuoteva. E a volte una violenza
tremenda. Un attacco scomposto di crani, di orbite, di arterie, di tronchi
umani. E di aggressioni, di pulsioni nascoste, di omicidi incompiuti.
Giacometti
viveva nel suo laboratorio, anche quando era fuori, anche quando si incontrava
con Caroline. Il suo atelier era
dappertutto, la sua infelicità lo seguiva ovunque, insieme al suo darsi, alla
sua voglia di esistere per conoscere
e per conoscersi. Senza teorie. Senza
filosofie. L’uomo Giacometti e l’artista Giacometti non si pensavano, non si
parlavano, ma indubbiamente si cercavano e a volte giocavano a nascondersi, a volte
si scambiavano le parti, a volte sembravano un essere solo. Chi può dire di più?
Nella
bellissima introduzione agli Scritti - volume comprendente testi già pubblicati, taccuini, fogli sparsi e conversazioni - Jacques Dupin afferma che “negli scritti, nell’opera dipinta, scolpita,
disegnata, la coscienza della riuscita e della conquista è indissociabile dal
sentimento dello scacco. Le avanzate e le ritirate sono insieme i fuochi e i
controfuochi, i punti fondamentali dell’erranza e dell’apertura”. Giacometti
era un combattente, come in fondo dovrebbero essere tutti gli artisti. Nessuna
patria da difendere, forse nemmeno quei segni
di lotta, quelle ferite sulla carta e
sui materiali da lui usati, ma la battaglia
stessa, l’agone che chiama e sfinisce, che fa sperare e disperare, che è la
vita e la morte. Perché l’arte non può essere astratta, non può essere
incontaminata, non può levarsi al di sopra di tutto, ma nasce sempre dalla materia, dal sangue, da un
atelier sporco di macerie, di
esperimenti interrotti, di sconfitte e di momentanee vittorie. Nulla sembra
stabile, immutabile in Giacometti. Osservando le sue opere, ci aspettiamo che
esse improvvisamente possano cambiare, cercare altre linee, muoversi,
cancellarsi e ricomporsi. Ci dicono la mano dell’uomo, il suo movimento e la
sua tribolazione.
E
sempre Dupin sostiene che gli scritti di Giacometti mettono in evidenza le tre
pulsioni fondamentali che governano
l’opera e la vita dell’artista: l’infanzia, la donna e la morte. La
prima con i suoi sogni e la sua crudeltà, i rifugi nelle rocce, il sole
nascosto dalle montagne, l’atelier del padre, l’attaccamento alla madre. La
seconda con il suo fascino strano, che provoca paura ed eccitazione, con il suo
corpo ignoto, sgozzata in sogno,
sempre lontana o doppia. E poi la morte che “è il fondo, tranne l’ombra che la
luce ritaglia, dilania, tranne la luce che bagna i profili del vivente, o della
vivente, e la chiarezza che traspare attraverso le carni”, perché Giacometti ha
affermato “la presenza attiva del vuoto, l’ha nominata, l’ha ripetuta parola
per parola e linea per linea”.
Qual è stato, allora, il suo autoritratto? Così scriveva nel 1960:
Qual è stato, allora, il suo autoritratto? Così scriveva nel 1960:
Non so più chi sono,
dove sono, non mi vedo più, sono convinto che il mio viso debba apparire come
una vaga massa biancastra, esangue, che si tiene assieme sostenuta da vecchi
stracci informi che cadono sino a terra. […]
Le teste, le persone
non sono che movimento incessante, da dentro, da fuori, si rifanno di continuo,
non hanno una vera consistenza, il loro lato trasparente. Non sono né cubi, né
cilindri, né sfere, né triangoli. Sono una massa in movimento, un’andatura, una
forma cangiante e mai del tutto afferrabile. E inoltre sono come vincolate a un
punto situato all’interno che ci guarda attraverso gli occhi e che sembra
costituire la loro realtà, una realtà non misurabile, in uno spazio illimitato
e che sembra esser altro da quello in cui sta la tazza di fronte a me o che è
creato dalla tazza stessa.
Esse non hanno – non
più – un colore che sia definibile.
Ritornare su tutto
questo.
Mauro Germani