Léon Bloy (1846-1917) – ovvero lo scorticato, o il pellegrino dell’assoluto, come venne chiamato – è stato uno scrittore estremo, tormentato da un cattolicesimo apocalittico, nonché da un furore antiborghese e da una inusitata violenza verbale e visionaria. La sua vita, contrassegnata dall’indigenza e dall’emarginazione, fu quella di un disperato (Le Désespéré si intitola il suo primo romanzo, pubblicato nel 1887) trafitto da una fede lacerante, la quale voleva dire per lui prova continua e dolore, solitudine, eccesso, scandalo e mai pacificazione. Basti pensare alla sua relazione – criticata e disprezzata dai più – con Anne-Marie Roulé, una prostituta che riuscirà a convertire e con cui vivrà per diversi anni nella più atroce miseria, fino al ricovero in manicomio di lei, ormai sconvolta da esaltazione mistica.
Ossessionato dai paradossi del peccato e della santità, che sovente nelle loro manifestazioni più radicali sembrano confondersi allo sguardo fallace degli uomini (come accade talvolta nelle opere di un altro grande scrittore, Georges Bernanos), Bloy non smise mai di intraprendere una lotta all’ultimo sangue con le tenebre, simile ad un titano solitario alle prese con un mondo devastato e devastante. Apostolo della povertà («Maledizione a chi non ha mai mendicato!», scrisse) e del dolore da accettare come espiazione e maturazione spirituale, non risparmiò insulti, aggressioni verbali verso i potenti del suo tempo, i giornalisti alla moda, i romanzieri di successo. A proposito della sua opera, Borges scrisse che «forgiò uno stile inconfondibile che, secondo il nostro stato d’animo, può essere insopportabile o splendido». E ancora: «Negò lo spazio cosmico; affermò che i suoi abissi e luminarie non sono altro che una proiezione della coscienza umana. Opinò qualche volta che siamo già all’inferno, e che ogni persona è un demonio incaricato di torturare il suo compagno». Quest’ultima concezione dell’esistenza è certamente rinvenibile nelle sue Histoires désobligeantes (1894): una raccolta di racconti brevi in cui domina la presenza terribile del male che governa il mondo e il cuore degli uomini. Con il suo stupefacente linguaggio, che non risparmia espressioni di sarcastica ferocia nei confronti del conformismo e dell’ipocrisia borghese, della sua miserabile ottusità e della sua idiozia contagiosa, Bloy costruisce storie diaboliche (ed il riferimento qui va a Les Diaboliques di Barbey d’Aurevilly), in cui quasi sempre la dannazione trionfa, dietro la maschera del perbenismo oppure all’interno di inconsueti ed imprevedibili rapporti tra bene e male.
E veniamo ai racconti. Tra i migliori vi è sicuramente Les captifs de Longjiumeau, in cui è narrata la storia di due coniugi benestanti che sembrano l’immagine della felicità, ma che da quindici anni non riescono a partire, nonostante abbiano la passione dei viaggi, perché ogni volta qualcosa impedisce il loro proposito, tanto che la coppia pare «vittima d’una oscura macchinazione del Nemico dell’uomo» e la loro abitazione accerchiata da «truppe invisibili, selezionate con cura per fronteggiarli, e contro le quali nessuna forza avrebbe potuto spuntarla». L’epilogo sarà tragico.
In Une idée médiocre assistiamo all’assurdo giuramento tra quattro uomini di vivere sempre insieme e di non lasciarsi mai e che avrà come testimone il Demonio: «Un solo animo e un solo intelletto suddivisi in quattro corpi in definitiva significava rinunciare alla propria personalità, diventar numero, quantità, ammasso, frazione d’un essere collettivo». E ancora: «La brava gente s’inteneriva vedendo passare quel malinconico quartetto, quegli schiavi della Sciocchezza, che camminavano con lo stesso passo, con delle facce da funerale, vestiti tutti uguali». L’irreparabile, naturalmente, non tarderà a manifestarsi.
In altri racconti vi sono non solo omicidi premeditati, vendette atroci, professioni criminali mascherate da un’etica pubblica, ma anche paradossi in bilico tra peccato e redenzione come in Tout ce que tu voudras!, nel quale la prostituzione sfiora l’incesto in un clima allucinato ed ambiguo tra morte e rinascita («Il Peccato è la porta del cielo», scrisse in una pagina del suo diario).
E a proposito del pensiero di Bloy, occorre aggiungere
che fu assillato dal problema dell’identità e della nostra
incompiutezza causata dalla Caduta, che ci ha fatto precipitare nel Caos, come
testimoniano queste sue parole: «Non c’è sulla terra essere umano capace di
dichiarare chi egli sia. Nessuno sa che cosa è venuto a fare in questo mondo,
di che cosa fan parte i suoi atti, i suoi sentimenti, le sue idee, né qual è il
suo nome vero, il suo imperituro Nome nel registro della Luce». Apprezzato da
Kafka (nei Diari di quest’ultimo leggiamo «Bloy ha un fuoco
che rammenta l’ardore dei profeti. Ma che dico! Bloy impreca molto meglio. E si
spiega, perché il suo fuoco è alimentato da tutto il letame dell’epoca moderna»),
Léon Bloy – autore di saggi e di due romanzi sconvolgenti, il già citato Le
Désespéré e La Femme pauvre (1897) – è stato
certo uno scrittore anomalo, sempre contro il proprio tempo,
incapace di mediazioni e compromessi, nemico acerrimo di un cattolicesimo
accomodante. Secondo Quinzio, egli vedeva «la decomposizione
della cristianità e […] l’unico rimedio, l’ unica salvezza alla quale pensava
era l’evento escatologico, invano atteso da due millenni». Per la sua
intransigenza non risparmiò duri colpi contro il clero e le alte gerarchie
ecclesiastiche troppo compromesse con la società. Nella sua opera troviamo
soprattutto la sofferenza della carne, l’attesa straziante di una liberazione
assoluta e l’aspirazione alla santità.
Mauro Germani