Dire l’indicibile
Le case dei
venti contrari di Lia Maselli
Formebrevi
Edizioni, 2016
“Ma
come si può raccontare quello che non si saprà mai?”
Questa
domanda, che si trova poco oltre la metà del libro, risulta assai importante
per avvicinare non solo la particolare scrittura di Lia Maselli e la storia che
viene narrata, ma anche perché fa emergere una serie di questioni intorno
all’atto dello scrivere che non sono certo da sottovalutare.
A ben
vedere, ogni scrittura nasce proprio da ciò che non si sa, si sviluppa intorno
a qualcosa che manca, che si ignora. E lo scopo non è tanto quello di colmare
questa lacuna, quanto di renderla visibile e concreta, di farla diventare
protagonista, una sorta di centro abissale ai bordi del quale ruota tutto. Del
resto, a che scopo raccontare ciò che si presume di sapere già? Siamo proprio
sicuri di conoscere veramente ciò che intendiamo raccontare? Il momento della
narrazione, del dire non è forse sempre e solo una parte, un residuo, uno
scarto, rispetto a quanto ci preme e sentiamo dentro di noi? Non è in qualche
modo uno strano e misterioso teatro di parole sofferte e insieme distanti che
si apre sulla pagina, che ci viene incontro ogni volta che ci apprestiamo alla
lettura? E dov’è mai l’autore dei segni che catturano il nostro sguardo e la
nostra mente? Dov’ è sparito? E addirittura: c’è mai stato veramente?
Tutti questi
interrogativi, che accrescono indubbiamente il fascino della scrittura (e che
sono stati oggetto di studio da parte di Maurice Blanchot), si possono ritrovare tra le
pieghe del libro di Lia Maselli, in quanto agiscono in modo sotterraneo, come
piccole scosse telluriche al di sotto delle parole e della vicenda stessa,
lasciando intuire o intravedere le fratture, le crepe di un abisso segreto e
profondo.
Le case dei
venti contrari si pone come
un romanzo anomalo, che –
pur raccontando una storia e conservando quindi una dimensione narrativa
- procede per frammenti ed associazioni che fanno pensare alla
poesia. Qui fabula ed intreccio non coincidono, la linearità della
narrazione è continuamente spezzata e frequenti sono i salti spazio-temporali e
gli squarci poetici e visionari che conferiscono alla narrazione una
sospensione tragica, tra dissolvenze di luce e di buio.
Al centro
della storia narrata c’è Aurora con la sua solitudine ed i suoi fantasmi che
l’accompagnano: l’ombra del figlio mai nato, poi la scoperta drammatica di un
tradimento protratto nel tempo e confessato poco prima di una rinascita forse
possibile, ma stroncata da un evento irreparabile. Aurora vuole capire ciò che
le è accaduto e per questo interroga i vuoti, le mancanze di senso, “guarda
da un punto dove la
trama ha ceduto” ed entra così nella zona oscura della propria
esistenza, evoca figure, momenti, parole e sogni che affiorano sia dalla
memoria lontana, sia da quella recente.
Ecco allora
che tornano le case di un tempo, a cui si avvicina per spiare come faceva da
bambina il mondo racchiuso in quelle stanze, scoprirne un’altra verità, le
tracce degli anni, i vuoti, i misteri e quei venti contrari che hanno
soffiato sul suo destino.
Sono case
dai nomi suggestivi: la casa delle ancore, la casa gatto, la casa scuola, la
casa delle rose doppie, la casa dei venti, la casa teatro, per citarne alcune.
Case diverse
che sono come apparizioni nelle pagine del libro, avvolte in un’atmosfera tra
realtà ed immaginazione, dove ciò che accade è insieme ricordo e
rinnovato stupore, sogno ad occhi aperti, esplorazione di quanto sedimentato
nella dimensione inconscia dell’esistenza.
Case-mondi,
case che hanno segnato la vita della protagonista, case di una topografia
interiore, che vuole essere compresa. Case in bilico – potremmo dire - come in
bilico è sempre Aurora, tra i venti forti e contrari del passato e quelli
alterni del presente, tra gli eventi irreparabili della propria esistenza e la
volontà di scoprire e raccontare cosa nascondono per recuperare i pezzi
mancanti: “Guarda, spia, la bambina che ascolta dietro la tenda i
discorsi dei grandi. Quella che ha perso qualcosa ed ora è tornata a
riprenderselo” (La casa gatto, p.27).
Sono queste
pagine molto belle, nelle quali Lia Maselli offre forse il meglio della sua
scrittura essenziale e stratificata, secca, ma allo stesso tempo sospesa
attorno ad un vuoto, concentrata e concentrica, percorsa anche da lampi
visionari. Ciò è particolarmente ravvisabile in certi brani molto brevi, simili
a prose poetiche, che sono momenti onirici molto intensi, nei quali si
condensano domande e pulsioni in una dimensione spazio temporale che spesso
comprende ed associa passato e presente.
Occorre poi
aggiungere che la vicenda di Aurora non è isolata, perché attraversata da altre
vicende, da simmetrie che sembrano rendere ancor più precaria l’identità della
protagonista. L’indagine sul passato lontano e familiare apre infatti altri
labirinti ed altri enigmi, gettando una luce ancor più inquietante sulla storia.
La seconda
sezione del libro, intitolata La
memoria, racconta in una dimensione più storica, un’altra Aurora, che nei
primi anni del Novecento, muore di spagnola a soli trentasei anni, lasciando
nove figli più il decimo che si spegnerà con lei. Tra i figli Emma, che resta
orfana a soli dodici anni, e che sarà destinata a diventare una figura
importante per la protagonista. E’ – come si dice a p. 59 – “un filo che
scivola lento da Aurora a Emma, da Emma ad Aurora”.
Tutto sembra
doppio, se non addirittura multiplo in questo libro, perché la scrittura è
sempre l’altra realtà, la rappresentazione che l’atto creativo mette in scena.
Non solo il
nome di Aurora è doppio, ma doppio è anche il punto di vista del racconto, nel
quale si alterna la terza persona alla prima. Ciò che si narra è spiato e
vissuto al tempo stesso.
Lia Maselli
scrive e si vede scrivere, racconta ed è raccontata. Il teatro della vita e il
teatro della scrittura s’intrecciano e si separano in continuazione, oscillano
ai bordi di una domanda senza risposta, di una vertigine, di ciò che non è dato
sapere.
L’immagine
del teatro, anzi dei teatri,
ricorre spessissimo nel libro e si configura non solo come dispositivo
narrativo, ma svolge anche una funzione catalizzatrice di quanto attiene
all’esistenza, al rapporto io- mondo e a quello tra sogno e realtà.
“Un
teatro è la casa sottratta alla fisica”, si dice nel libro. Infatti è
una sorta di luogo magico che consente l’evocazione del passato, dove si è
protagonisti e spettatori al tempo stesso, ma anche molto di più: è il mondo
che si spia fin dall’infanzia, lo spazio intimo in cui si provano le parti o ci
si ribella per conquistare una propria autonomia, lo scenario in cui
rappresentare le proprie scelte ed i propri sentimenti e fare i conti con essi.
Soprattutto
qui vivono i personaggi di questo libro. Escono simili a fantasmi dai
fondali oscuri di un teatro interiore dove tutto è già avvenuto, e dicono la
loro storia come in attesa di una rivelazione improvvisa , davanti a chi li
guarda e li ascolta: noi lettori, certo, ma anche la protagonista e con lei chi
scrive.
Tutto
avviene intorno ad un buco nero – come si diceva all’inizio – tutta la
rappresentazione teatrale va in scena perché c’è una mancanza, un vuoto. C’è
una morte repentina che ha interrotto ogni comunicazione, che ha creato un
silenzio come un muro invalicabile, che ha cancellato ogni possibilità di
dialogo. E’ per questo che Aurora chiama a sé, nel suo teatro, chi non c’è più:
per sentirlo parlare con un’altra voce, quella perduta per sempre e che forse
potrebbe finalmente dire la verità, dopo le menzogne, le contraddizioni, i
silenzi, le promesse del passato:“Perché continua a pensare ai morti?
Perché sono le loro parole che ritornano asciutte nell’aria che si muove allo
sbattere di una porta sul retro. Aspetta ancora una sua risposta, che sia
univoca, che non muti e non si ossidi al contatto. Vuole che lui metta a segno
il colpo, prenda la mira sul tempo e colpisca con tutta la forza che ora può”
(p. 71).
Il dramma di
Aurora è anche questa imprevedibilità
del passato, che tra l’altro si fonde bene con la scrittura di Lia Maselli,
in quanto quest’ultima sorprende nel suo continuo movimento tra ciò che rivela
e ciò che sottende, aprendo – come abbiamo già evidenziato -
stratificazioni, cerchi concentrici o addirittura gorghi abissali, proprio come
può avvenire in un testo poetico, pur mantenendo una dimensione narrativa.
Verso la
parte finale del romanzo, poco prima dell’ultima sezione, c’è un brano
intitolato Il libro, che
risulta particolarmente significativo. Qui Lia Maselli sembra svelare le
carte a proposito della sua opera, del suo doppio e del suo teatro.
Scrive: “Il libro e il figlio sono i fratelli gemelli delle notti insonni”.
E poi: “Mi dicevano pensa il racconto come un corpo. Rispetta le
proporzioni. Un inizio e una fine ben congegnati. Ma non parlavano mai del
tempo. Della lunga incubazioni di lettere. A volte le proporzioni saltano.
Mutazioni improvvise. E quando le attese si interrompono, nel silenzio delle
creature che nuotano in limbi immaginari, il libro e il figlio diventano una
cosa sola. Un’idea. Una ferita sul mondo”.
Ecco, le
proporzioni saltano, perché non ci sono giuste proporzioni nella vita. E nulla
è così certo, nemmeno ciò che si è vissuto. I sogni del tempo presente dicono
lo smarrimento, ogni ritorno alle origini può essere un girare a vuoto o un
allontanamento. Le prospettive mutano.
“Tornare
dentro i fatti è pericoloso”, si afferma nel libro. Perché? Certamente
perché significa mettersi in discussione, guardare criticamente verso ciò che
abbiamo fatto e ciò che siamo stati. Significa anche sperimentare nuovi punti
di osservazione, scoprire dettagli prima trascurati o ignorati, mutare
prospettiva di indagine. Può voler dire inoltre avere dei dubbi, delle
perplessità non tanto su ciò che è accaduto, quanto su noi stessi nel momento
in cui quel qualcosa è accaduto.
Chi eravamo
davvero in quel momento? Che cosa siamo stati?
Il passato
allora sfuma, certi particolari possono assumere a volte dimensioni
inaspettate. Se il presente dipende dal passato, è anche vero che il passato
può dipendere dal presente, perché il tempo è fluido e cambia in rapporto
all'esistenza.
Viene in mente
ciò che Minkowski, nei suoi studi di psicologia fenomenologica, chiama il tempo vissuto. E' proprio
dentro il tempo vissuto che scava la protagonista, è proprio da lì, da quel
magma interiore che scaturiscono le sue parole e le sue domande. E' proprio questa
zona d'ombra che c'è in noi e nella realtà che contraddistingue il modo
d'essere non solo di Aurora, ma anche dell'autrice, la quale a volte la osserva
e a volte la vive, in uno scambio continuo, come in un gioco di specchi senza
interruzione.
I fantasmi
del passato si muovono, arrivano fino al presente con i loro enigmi, ed il
presente a sua volta li investe con la sua ansia e la sua inquietudine
altrettanto enigmatiche.
Ogni
presenza evocata è un'ombra dentro un'ombra più vasta.
Nelle Lettere a un giovane poeta,
Rilke scrive:" La maggior parte degli
avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha
varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d'arte, misteriose esistenze,
la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura". Scrivere,
per Rilke, significava stare in ascolto, incontrare il mistero dell'Altro, in
un atteggiamento che è stato definito di ardua
passività attiva. La scrittura nasce proprio dall'indicibile che è
l'esistenza e la parola incarna dunque questa tensione di dire l'indicibile, si
situa in questo margine mobile, sfuggente, enigmatico.
Che cosa può
allora la parola rispetto a quanto accade dentro di noi, che cosa può rispetto
all'esistenza? Questa è la domanda che sta a fondamento di ogni scrittura.
Aurora
interroga il tempo passato, ne evoca le presenze, i luoghi, ma
contemporaneamente ne avverte l'instabilità, quasi l'evanescenza. Ogni
volta che torna dentro i fatti, sente come un pericolo, apre un teatro d'ombre
che è insieme mistero e ferita.
C'è molto
passato in questo libro, ma non c'è caduta in un tempo solo, non c'è chiusura,
la temporalità non è spezzata perché comunque c'è un tempo presente, una
continuità, il teatro interiore di Aurora, il suo sdoppiamento. Senza questa
importante dimensione, la storia sarebbe chiusa in se stessa. Invece c'è una
grande tensione che nasce da una scrittura che giustamente in un libro come
questo non può essere né immediata, né convenzionale. Qui la parola si carica
di valenze ulteriori, non vuole semplicemente narrare una storia, ma avvicinare
il più possibile la sua zona d'ombra, il suo punto indicibile, in quanto lì è
la sua ragione, perché - come sosteneva Edmond Jabès - "dove non c'è rischio, non c'è
scrittura".
Nelle ultime
pagine un viaggio attraversa gallerie che bucano il tempo, specchi riflettono
volti e storie che trascorrono come ombre smarrite. I personaggi compaiono nel
loro enigma. Chi sono? Chi è stata Aurora in questa storia? E che cosa comunica
Emma con la sua volpe intorno al collo e il suo sguardo trasparente?
Non c'è, non
ci può essere una risposta, o almeno una risposta sola.
Questo è un
romanzo di interrogativi, di sdoppiamenti, di proiezioni.
La sua
verità è nella domanda.
Mauro
Germani