sabato 10 dicembre 2011

Rinaldo Caddeo recensisce "Livorno"


 

     


MAURO GERMANI - LIVORNO - EDITRICE L'ARCOLAIO 2008

Il vento, la cenere, le ombre, le nuvole, i sogni, i volti, il vuoto, il pianto… e le altre consuete presenze fantasmatiche, care al canzoniere di Mauro Germani, trovano in questa ultima prova, nei rigori di una nuova stringatezza, un ritmo, un’intonazione, quindi una vibrazione, nuovi. Forse perché ritornano da una loro matrice natale, un’origine cronica, radicata e inguaribile: Livorno.
Una musica più incrinata, timbri più infossati, nati a una reticenza più arrotata, calibrata dall’anafora e dagli enjambement, subito: “Restavano in silenzio gli anni/ le cupole alte della notte/ e le ceneri, gli avvisi/ del tempo.// Restava così/ la novella del mare/ Livorno ed ogni voce/ il mio pianto/ in fondo al tuo nome.” (p.13). I lemmi: in silenzio, alte, ceneri, avvisi, pianto, in fondo, ricevono una sonorità, risuonano dentro se stessi e si insinuano nella metafora finale come tanti granelli di polvere che rimbalzano in fondo alla clessidra.
Così scendono, una dopo l’altra, le parole di questo volume che riempiono, scavando del loro suono, pavimenti, soffitto, pareti, come un’eco continua, di una stanza vuota.
Come nota giustamente Sebastiano Aglieco nella Prefazione, è la parola Livorno a tracciare un “perimetro che contiene e discosta”, i pieni e i vuoti di una “mancanza fondativa”. 
Poesia, quindi, di una manque non solo come estraneità radicale, assenza e inappartenenza, ma anche come impossibilità nel presente dell’esistenza stessa: “Noi che siamo impossibili, che saremo domani. Le parole sulla strada e il vento come una domenica. Le automobili. Le luci rubate. Nessun pensiero.” (p.30). Viene in mente la conclusione zen che non conclude di Uno, nessuno, centomila di Pirandello. Lo sguardo che, dopo la rinuncia al senso normale della vita e delle parole, restituisce un senso nuovo delle cose alle cose. Lo sguardo di Germani, però, coglie soprattutto apparizioni/sparizioni (asparizioni, le chiamava Caproni), tra il nulla e il qualcosa: la luce di un volto, l’alito di una domanda, il barlume di un’ombra.
A partire dalla sezione Nel cerchio, inoltre, le anafore dell’invocazione tendono a divenire anfore dell’evocazione: “È nel cerchio la voce/ nel cerchio il tuo passo.” (p.43). Si spalancano nuovi orizzonti, tracciati dal soffio dei ricordi, nitide ma evanescenti promesse, come alito che appare e sparisce sul vetro: “la piazza rapita dal vento./ E intanto brillavano i tuoi occhi/ dicevano l’alleanza del cielo, un’alba,/ un battito puro alle labbra,/ quel respiro e quel canto,/ quella promessa, quel ricordo/ che siamo.” (p.45). “Chi rapiva il tuo volto bianco,/ le tue mani solitarie,/ la tua anima senza mondo?// La musica feriva la casa,/ le pareti aperte sopra la piazza,/ quell’abisso inghiottito dal tempo” (p.46). Versi arcani, struggenti.
Rinaldo Caddeo
recensione del 2 aprile 2010