A proposito
della presunta "facilità" della scrittura di Dino Buzzati, considerata da alcuni priva di un’autentica ricerca, vale la pena fare
riferimento a quanto ebbe modo di scrivere Andrea Zanzotto nel 1980, in occasione
del Convegno che si tenne sullo scrittore bellunese nel volume Dino Buzzati, a cura di Alvise Fontanella, Olschki Editore, 1982.
Zanzotto,
che non esita a dichiarare di avere vissuto e di continuare a vivere “il mito di Buzzati”,
afferma che è possibile riscontrare in Buzzati una “bipolarità”, tra una
scrittura tersa e decifrabile, ovvero “il
buon abito
grigio dello stile da giornalista”, e quella più propriamente
letteraria, caratterizzata anche da una sperimentazione linguistica: lo
scrittore, infatti, pare collocarsi “in questa pendolarità e oscillazione tra una linearità che corrisponde poi anche
all’idea di un dovere […] e l’ineluttabile istanza dell’ambiguità, dell’imprendibilità che è intrinseca alla
lingua stessa tanto più se si pone in attivo confronto con espressioni
extralinguistiche, specie figurative”. E’ chiaro che qui
Zanzotto si riferisce non solo all’attività pittorica di Buzzati, ma anche ad
opere sicuramente “anomale” come Poema
a fumetti (1969) e I
miracoli di Val Morel (1971), in cui è presente da un lato una forte contaminazione tra scrittura e pittura,
e dall’altro un’alternanza singolare fra toni alti e bassi, tra momenti
letterari e talvolta lirici, ed espressioni popolari e gergali, tra poesia e
fumetto, tra gioco ironico, fantasia e folklore.
Al
riguardo, si pensi anche a Un
amore (1963), romanzo che sul piano del linguaggio si espone
volutamente al rischio di cadute, anzi pare volerle esibire, per meglio
esprimere lo smarrimento del protagonista: si vedano le pagine di indiretto
libero, senza punteggiatura, e l’uso di un lessico ripetitivo, quasi piatto,
con improvvise impennate liriche ed immagini inconsuete. Non c’è dunque
sciatteria linguistica, come qualcuno ha affermato, ma una precisa motivazione
stilistica, un preciso impianto, che conferisce al libro una forza
straordinaria, basata soprattutto sulla dissonanza.
Zanzotto
giustamente parla anche della produzione poetica di Buzzati e cita Palazzeschi,
considerando le poesie de Il
capitano Pic (Neri Pozza, 1965) “una
delle poche riuscite di un improbabile ‘surrealismo italiano’ rivisitato”,
e conclude affermando che "la sfida di Buzzati ha la continuità e la
tenacia eleganti e dissimulate che sono proprie del grande milite".
Non
si può non citare, poi, uno studio importante e approfondito come Il sudario delle caligini (Leo S.
Olschki Editore), che Nella
Giannetto, la compianta presidente dell’Associazione
Buzzati, dedicò nel 1996 all’opera dello scrittore. In particolare, in un
capitolo del suddetto volume riguardante i Sessanta racconti, la Giannetto prende in
esame la sintassi, il lessico, il livello retorico, gli espressionismi
linguistici, le polisemie presenti nella lingua buzzatiana. Ad un certo punto
afferma che nella scrittura di Buzzati vi è un’esigenza precisa, “quella del ritmo, della musicalità”,
tanto che “nei Sessanta racconti capita persino di incontrare, a chiusura di
un periodo
o di una frase, dei veri e propri endecasillabi”, ma lo
scrittore “ha una notevole
capacità di dissimulare i suoi ‘scarti’, facendoli scivolare quasi inosservati
fra le pieghe del testo: così clausola ritmica e raffinatezze retoriche,
complice magari un
vocabolo ‘basso’ […] sfuggono al lettore medio”.
Interessante, poi, l’analisi della punteggiatura, sempre molto particolare in Buzzati (ad esempio l’omissione del punto esclamativo o l’uso inconsueto della parentesi) e lo studio davvero minuzioso e attento della sintassi, che evidenzia la costruzione dei periodi con il gerundio, dove la principale è in prima posizione e la subordinata implicita in seconda, oppure l’uso dei participi passati ad inizio periodo, o ancora la presenza di anacoluti. A conclusione del capitolo, Nella Giannetto sostiene che se è vero che un racconto buzzatiano si distingue per alcune costanti tematiche, è altrettanto vero che “molto spesso è possibile riconoscere una pagina di Buzzati anche solo dall’atteggiarsi della sua sintassi, del suo lessico, delle sue scelte retorico-stilistiche”.
Interessante, poi, l’analisi della punteggiatura, sempre molto particolare in Buzzati (ad esempio l’omissione del punto esclamativo o l’uso inconsueto della parentesi) e lo studio davvero minuzioso e attento della sintassi, che evidenzia la costruzione dei periodi con il gerundio, dove la principale è in prima posizione e la subordinata implicita in seconda, oppure l’uso dei participi passati ad inizio periodo, o ancora la presenza di anacoluti. A conclusione del capitolo, Nella Giannetto sostiene che se è vero che un racconto buzzatiano si distingue per alcune costanti tematiche, è altrettanto vero che “molto spesso è possibile riconoscere una pagina di Buzzati anche solo dall’atteggiarsi della sua sintassi, del suo lessico, delle sue scelte retorico-stilistiche”.
Se
si legge attentamente l’opera dello scrittore bellunese, non si può dunque
trattare la questione linguistica in modo sbrigativo, come spesso si è fatto. “Quanto alla lingua di Buzzati – come
ha scritto Andrea Zanzotto –
esistono problemi tra i più complessi da affrontare per coglierne il movimento”.
Mauro Germani