martedì 22 dicembre 2020

LA CITAZIONE (n. 24) - David Maria Turoldo


Colloquio notturno


E quando la notte fonda

ha già inghiottito uomini e case,

una cella mi accoglie

esule del mondo. Gli altri

nulla sanno di questa mia pace,

di questi appuntamenti.

 

Forse neppure io stesso

saprei rifare l’itinerario del giorno,

ripetere la danza del mio Amore.

Quasi nulla avanza di me

la sera: poche ossa, poca carne

odorosa di stanchezze,

curvata sotto il peso

di paurose confidenze.

 

Allora Egli mi attende solo,

a volte seduto sulla sponda del letto,

a volte abbandonato sul parapetto

della grande finestra. E iniziamo

ogni notte il lungo colloquio.

 

Io divorato dagli uomini, da me stesso,

a sgranare ogni notte il rosario

della mia disperata leggenda.

Ed egli a narrarmi ogni notte

la Sua infinita pazienza.

 

E poi all’indomani io, a correre

a dire il messaggio incredibile

ed Egli fermo al margine delle strade

a vivere d’accattonaggio.

 

David Maria Turoldo

sabato 5 dicembre 2020

Georg Heym - Il ladro. Novelle


 Georg Heym, Il ladro. Novelle, Giometti & Antonello, 2020

Vi sono libri che disorientano, che cancellano ogni strada e ogni punto di riferimento, che fanno buio. È il caso di questa raccolta di sette novelle di Georg Heym (1887-1912), poeta e scrittore espressionista, la cui opera è caratterizzata  dalla relazione perturbata e perturbante tra l’Io e il mondo, vale a dire tra una soggettività lacerata ed emarginata e la realtà, tra le pulsioni segrete e ingovernabili dell’uomo e l’ordine culturale e sociale in cui si trova inserito. È proprio all’interno di questo contrasto, in cui l’individuo può sentirsi, di volta in volta, escluso e alienato, oppure esaltato profanatore del mondo, che si configurano le storie di Heym, tutte animate da una specie di nera dissoluzione, vissuta come una ribellione distruttiva, oppure un destino ineluttabile e funesto. E la scrittura colpisce per le sue veemenze improvvise, contraddistinte soprattutto dal pullulare di numerose similitudini (anche quattro o cinque all’interno di una pagina, o addirittura concentrate in poche righe), che scaturiscono dal testo come inflorescenze venefiche, oppure si palesano come vere e proprie scosse telluriche, che minano l’andamento classico della narrazione. Ciò che accade sulla pagina è, in fondo, ciò che l’Io affronta o subisce, in una sorta di disperato e perdente vitalismo, nella ricerca di un superamento delle angustie del reale, delle sue regole, del suo ordine ostile e incomprensibile, che annienta ed esclude. La risposta violenta e folle di alcuni personaggi di Heym nasce da questo disagio, dalla lotta estrema (e tragicamente  vana) nei confronti di un’intollerabile condizione esistenziale e di un mondo estraneo, che non si riconosce più, oppure di un’oppressione sociale (si veda la novella Il cinque ottobre). Le descrizioni allucinate degli ambienti e delle situazioni derivano da questo sguardo feroce ed emarginato, da questa profonda solitudine che non trova consolazione e sfocia sovente nella follia, nello sdoppiamento dell’Io, in una sorta di mistica rovesciata, che cerca l’assoluto in atti estremi e aggressivi, come accade nelle novelle Il pazzo e Il ladro. Nella prima la vicenda del protagonista si svolge all’insegna di una violenza liberatoria, come una riappropriazione degli istinti elementari a lungo soffocati, e si conclude in una sorta di estasi infernale («E mentre il sangue zampillava dalla ferita, gli parve di scendere finalmente sul fondo, sempre più giù, silenzioso come una piuma. Dal basso saliva una musica eterna e il suo cuore morente si aprì tremando in una beatitudine immensa»). Nella seconda novella, invece, – la più ampia della raccolta – il personaggio principale è dominato da un’ossessione religiosa, che nasce dalla convinzione dell’inutilità dell’opera di Cristo e dalla volontà di intraprendere una specifica e delirante missione contro ciò che viene ritenuto il male originario. La narrazione, tra le angosce e i conflitti del protagonista, approda a un finale apocalittico, in cui nel divampare del fuoco trionfa la «terrificante risata della morte». Questo particolare processo di distruzione (e di autodistruzione) è presente anche nelle altre novelle. La dissezione (che rimanda un po’ al primo Benn, quello di Morgue) è una breve e agghiacciante descrizione del lavoro di alcuni medici su di un cadavere, alternata alle espressioni vitali – di amore e di sogno – rimaste misteriosamente attaccate alla carne del morto. Così come  la morte è ancora protagonista nei racconti Gionata e La nave: nel primo si narra della solitudine e della degenza ospedaliera del protagonista, destinato alla fine e a «un’oscurità orrenda», mentre nel secondo – in un’atmosfera che ricorda Edgar Allan Poe – leggiamo la cronaca del viaggio di un piccolo battello, con sette uomini a bordo, che non potrà sfuggire a una implacabile maledizione di malattia e di rovina. Il cupo smarrimento di queste novelle di Georg Heym è senz’altro da collegare a quella perdita di senso che non è solo emarginazione dell’Io, nel suo tormentato dissidio tra sconfitta e volontà di potenza, ma anche e soprattutto perdita di Dio, intesa come suo allontanamento o scomparsa. Come a volte accade, tuttavia, proprio nell’esasperazione del nulla, della morte e della fine, è possibile percepire un’inconscia nostalgia religiosa, un desiderio nascosto di un bene che pare irraggiungibile.

Mauro Germani

 

 

 

martedì 17 novembre 2020

Angelo Mundula - Il Cantiere e altri luoghi

 

Angelo Mundula, Il Cantiere e altri luoghi (Poesie 2000-2005), Carlo Delfino Editore, 2006.

È questa l’ultima raccolta poetica di Angelo Mundula (1934-2015), un autore «fuori da clamori ed eccentricità» – come ebbe modo di scrivere Giuliano Gramigna –, la cui opera in versi (fu anche critico e collaboratore di importanti quotidiani e riviste) è contrassegnata da una religiosità, che si manifesta in una continua tensione dal tempo all’eterno (per citare il titolo di una silloge del 1979, edita da Spirali).

La scrittura di Mundula sorprende per la sua cristallina purezza, capace di rivelare in se stessa vibrazioni e profondità che colpiscono la nostra anima. Domande, soprassalti dello spirito, smarrimenti ed invocazioni si alternano e/o si compenetrano senza soluzione di continuità, in un flusso poetico nel quale la parola appare alla ricerca costante di una dimensione ulteriore, cioè di una verità che sia sempre più vicina al mistero dell’esistenza.

Vi è la consapevolezza di una parola «sospesa», «in bilico», che «potrebbe cadere inabissarsi / come stella o come stella / risplendere nel verso»; una parola che nasce da noi e dunque limitata, pur nella sua possibile umana grandezza. Fino a che punto, allora, può arrivare la scrittura poetica?

È interessante aggiungere come qualcosa di non detto, di inesprimibile rimanga comunque, per Mundula, al di là di ogni opera: si veda il testo Ciò che Dante non ha scritto, in cui si fa riferimento «all’altro universo mai del tutto finito / al grande libro mai del tutto scritto». Questa incompiutezza, tuttavia, non significa rassegnazione o quiete, ma al contrario impulso a cogliere, in una tensione estrema e al tempo stesso umile, ciò che si agita dentro e fuori di noi: le parole vanno gettate «sulla pagina aperta come su un / campo da coltivare», in attesa di un senso, dentro «lo scavo, le crepe / le carte incerte ferite», «nel magma ribollente della terra».

C’è una richiesta incessante nella poesia di Mundula, che è, in fondo, preghiera, riconoscimento della fragilità dell’uomo e dei suoi limiti, coscienza della nostra cecità davanti all’evidenza dell’inspiegabile, nel quale risiede «tutto il sale della vita», tanto che, paradossalmente, «il nostro vero approdo è il naufragio».

Il desiderio di pienezza e di luce scaturisce proprio dalla consapevolezza delle nostre mancanze, del nostro essere bisognosi d’altro, in quanto circondati da un «innominabile buio», nel quale rischiamo di perderci. Così esigenza etica ed urgente bisogno di rinascita spirituale non possono che unirsi davanti ad una  civiltà – la nostra – che appare smarrita, prigioniera di un cieco e falso progresso: «Sbanda da ogni parte la barca del secolo / s’ignora dove sia il timoniere se vi sia / corrente se qualcuno ne segua il filo».

Sondare lo stato della condizione umana è certamente uno degli scopi della poesia di Mundula, evidenziandone anche, nel medesimo tempo, la complessità, mediante una dimensione simbolica e metafisica, che è rinvenibile in diversi componimenti.

Esemplare è, in questo senso, la poesia Stazioni («Da quanto siamo qui / in questa sala d’attesa / in cui tutti aspettiamo il nostro treno / la salita la discesa / nel nostro binario?»), dove  domande senza risposta si succedono insieme ad un sentimento di attesa e di mistero, in una sorta di gioco di specchi che pare confondere chi scende e chi sale da questi treni della vita. E, del resto, come si dice in Qualcosa di noi: «È sempre così difficile scoprire il nostro segreto / sapere qualcosa di noi del nostro viaggio».

Ma è soprattutto l’immagine del Cantiere a configurarsi come luogo centrale, reale e metafisico ad un tempo, dell’intera raccolta: un luogo originario, d’infanzia e di nostalgia, di eterno ritorno e di memoria, di iniziazione e di poesia; un luogo, ancora, in cui misurare la propria vita e chiedere anche perdono per gli errori commessi. Il Cantiere navale dismesso di Porto Torres – in cui il poeta ha abitato da bambino e da ragazzo con la sua famiglia – è stato per lui «incudine e martello / isola e mare, una volta per sempre»: lì hanno preso vita i sogni («grandi navi e viaggi per mare»), i progetti e «gli alti approdi», che a volte sembrano, con l’avanzare degli anni, impossibili, anche se in fondo non si è spento il desiderio «di preparare l’evento di una nave / che da lì prenda il mare e vada / luminosa e grande per i porti del mondo».

Concludendo, la lettura di questo libro può essere considerata l’ultima, sincera confessione e dichiarazione di poetica di un autore appartato ed originale, che ha sempre rivelato – come si afferma nella nota in quarta di copertina – la «caratura spirituale e morale» della sua poesia.

Una segnalazione importante: il sito, curato da Giovanni Nuscis, interamente dedicato ad Angelo Mundula, con sezioni riguardanti la biografia del poeta, le opere, i saggi, gli articoli su quotidiani e riviste, le recensioni e le lettere. QUI

Mauro Germani


sabato 7 novembre 2020

LA CITAZIONE (n. 23) - Pier Paolo Pasolini


 

Riapparizione poetica di Roma


Dio, cos’è quella coltre silenziosa

che fiammeggia sopra l’orizzonte…

quel nevaio di muffa – rosa

di sangue – qui, da sotto i monti

fino alle cieche increspature del mare…

quella cavalcata di fiamme sepolte

nella nebbia, che fa sembrare il piano

da Vetralla al Circeo, una palude

africana, che esali in un mortale

arancio… È velame di sbadiglianti, sudice

foschie, attorcigliate in pallide

vene, divampanti righe,

gangli in fiamme: là dove le valli

dell’Appennino sboccano tra dighe

di cielo, sull’Agro vaporoso

e il mare: ma, quasi arche o spighe

sul mare, sul nero mare granuloso,

la Sardegna o la Catalogna,

da secoli bruciate in un grandioso

incendio, sull’acqua, che le sogna

più che specchiarle, scivolando,

sembrano giunte a rovesciare ogni

loro legame ancora ridente, ogni candido

bracere di città o capanna divorata

dal fuoco, a smorire in queste lande

di nubi sopra il Lazio.

Ma tutto ormai è fumo, e stupiresti

se, dentro quel rudere d’incendio,

sentissi richiami di freschi

bambini, tra le stalle, o stupendi

colpi di campana, di fattoria

in fattoria, lungo i saliscendi

desolati, che già intravedi dalla Via

Salaria – come sospesa in cielo –

lungo quel fuoco di malinconia

perduto in un gigantesco sfacelo.

Ché ormai la sua furia, scolorando, come

dissanguata, dà più ansia al mistero,

dove, sotto quei ròsi polveroni

fiammeggianti, quasi un’empirea coltre,

cova Roma gli invisibili rioni.


da Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, 1961


A proposito di Pasolini, è possibile leggere su questo blog una nota critica relativa a L'usignolo della Chiesa CattolicaQUI

sabato 31 ottobre 2020

Mauro Germani - "I posseduti". Frammenti di un discorso nel deserto

 


[…]

Sono qui, sono sempre stati qui, i posseduti nella carne e oltre la carne – prima dell’eterno distacco, qui, nelle loro putrefazioni e negli osanna, coi loro occhi morti o levàti al cielo, miserabili dentro bocche di fango, oppure santi rapiti dalla preghiera, midolli di verbi che senza saperlo s’incontrano e si cercano in danze di sangue, coi loro arti amputati, a balzi, a saltelli, a sputi, nei visi bianchi o di fiamma, nei vortici del tempo, tutti insieme nella morte, eppure in attesa – nevvero? – dell’ultimo rantolo, senza più ragione, senza più cervello, finalmente, perché chiamati ad altro, chiamati da sempre, dal primo vagito all’abbandono finale – poeti bui e senza voce baciati dal nero e colpiti all’improvviso come da un dolce assassino, e poi, all’opposto, spiriti d’infanzia e di luce, certezze di bontà dentro il mistero del male nel mondo – affossati, tutti, ad uno ad uno, con le loro carcasse immonde, senza più i petti d’un tempo, i palpiti, la giovinezza, gli amori –

Sono qui, sono sempre stati qui, i posseduti dalle loro tremende parole, reiterate fino al paradosso e alla follia, cercate e amate dentro l’ossessione del nulla che divora la carne fino agli ultimi brandelli, simili ad avanzi di macelleria, oppure tutti coloro che sanno la bellezza e l’indicibilità delle preghiere più vere insieme a ogni santo martirio per Cristo, con Cristo e in Cristo, sempre sangue su sangue in ambedue i casi, sempre dolore – ecco – per ogni cellula corporale, per arrivare allo scoppio, alla resa, a quella carne così fredda e bianca come una luna morta… Oh, è questo, è questo che hanno cantato e cantano i posseduti, i senza speranza e i suicidi, i mistici e gli innamorati di Dio –; questo che sprofonda o innalza e urla nel silenzio e non ha pace, e condanna e benedice, mentre restano vaganti le opere di chi si è affidato alla scrittura, sì, i personaggi, i fantasmi, i profughi delle loro parole, dentro gli antichi miti fino a oggi, per i pochi che li vogliono accogliere, Achille, Ulisse, Enea, senza fissa dimora nei secoli – potremmo dire – in un luogo senza luogo, che tutto contiene, pare senza distinzioni, K che viene sgozzato come un cane, e il principe Saurau travolto dalla follia, e Drogo che scruta il deserto, e Hans Castorp nel sanatorio di Davos, e Meursault estraneo a sé stesso, e Antoine Roquentin disgustato dall’esistenza, e lo scrivano Bartleby che abdica al mondo e alle parole, e Ferdinand Bardamu nel disastro della realtà, e Donissan che lotta con Satana, e Mouchette assalita dal male, e il curato d’Ambricourt  nella solitudine della sua parrocchia, e Clotilde luminosa nella povertà e nel dolore, e Marchenoir innamorato del Medioevo, e poi Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, e Amleto, Re Lear, il principe Myškin, e Stavrogin, e Nechljudov, e ancora, ancora – (ma quanti, Dio mio, quanti!... usciti dalle anime a frotte, a stormi, nei cieli invisibili della storia, come uccelli liberati improvvisamente dalle gabbie, ciechi dopo tanto buio, e abbagliati, e perduti!...) – fino a quando il mondo sarà, prima dell’altro tempo –; tutto questo, ecco, alla ricerca del proprio segreto senza saperlo, oppure come atto di fede e invocazione nella preghiera, sì, sempre dall’ultima ora e dalla carne sfinita – la nostra, che adesso è qui e che domani lasceremo alla terra – nella speranza e nell’attesa di un’altra luce, di una nuova carità, di una pace, e del perdono…

Mauro Germani

giovedì 29 ottobre 2020

LA CITAZIONE (n. 22) - Giovanni Testori


 […]

Un giorno qualcuno sarà profeta di vita;

a me non è stato possibile.

A me è stato possibile solo dirvi questo:

riunite la morte alla vita,

riunitele

o su voi scenderà solo e per sempre lei,

la morte fattasi oggetto,

la morte fattasi cosa…

Riunitele,

ve lo chiedo dalla mia fine

e dal mio inizio:

riunitele.

Allora il cerchio si ricomporrà

e con il cerchio il senso,

l’infinita pazienza dell’essere,

la sua giustizia, il suo significato.

Riunitele così, vita e morte,

com’è accaduto a lei,

come sta accadendo a me,

in un bacio,

nel bacio che vi do.

Pietà per la mia insipienza,

pietà per il mio povero, incapace amore.

Pietà, popolo che m’ascolti,

pietà di me, di voi,

e poi luce, infinita giustizia, carità,

perdono…

 

Giovanni Testori, Conversazione con la morte, Biblioteca Universale Rizzoli, 1978

sabato 17 ottobre 2020

Mauro Germani - Altri aforismi (2)


Mistero di Dio e mistero dell’uomo: che vengano strappati all’oblio e finalmente preservati e ricongiunti.

Ogni volto di un santo è illuminato dall’amore e dalla sofferenza.

Sentirsi sconfitti può avvicinarci a Dio, oppure allontanarci. È la nostra libertà.

In un grido disperato c’è sempre una speranza segreta, un’altra voce che chiama, un’invocazione che chiede misericordia e soccorso.

Che la Chiesa diventi davvero povera, al di là di ogni potere e più conforme allo spirito evangelico! Non cancelli, però, la solennità delle funzioni e dei riti: siano questi sempre segni di mistero e di bellezza per ogni anima.

Bisogna ammettere che sul piano della salvezza, l’arte e la poesia non esistono. Probabilmente una preghiera autentica, o un semplice balbettio durante una confessione, valgono di più di ogni capolavoro realizzato dall’uomo.

Forse non si muore mai soli, ma insieme a tutti i morti.

Imparare a pregare è anche prepararsi a morire, saper dire di sì, lasciarsi andare nel luogo in cui da sempre siamo attesi.

C’è sul volto un desiderio di verità che vince il mondo perché è l’ultimo. È il grido dell’anima, l’attesa del morente.

La contesa tra bene e male riguarda l’uomo. C’è in palio la sua anima. E la tremenda battaglia è nel mondo, è qui, passa attraverso il sangue e la carne.

Un’anima davvero libera dovrebbe essere sempre un’anima pura, uno sguardo di luce in mezzo alle tenebre.

Bernanos ha scritto che «il peccato contro la speranza è il più mortale di tutti, e forse quello accolto meglio», ma ha anche precisato che non bisogna confondere la speranza con l’ottimismo. Quest’ultimo, infatti, «è una falsa speranza di cui si servono i vigliacchi e gli imbecilli».

E se questa pandemia, che tanto ci spaventa, fosse in realtà la conseguenza di un morbo antico, più subdolo e silenzioso, che per anni e anni ha colpito le nostre anime, ed ora ha cominciato ad attaccare anche i nostri corpi, in un assedio completo, ricordandoci che la morte esiste? Chi fermerà questo male? Chi potrà ridarci il respiro e riunirci? Potrà bastare la scienza?

Oh, la sorpresa della Carità, la sua speranza viva, il suo fuoco portato dentro il dolore! Quell’affannarsi continuo di uomini e donne dove si grida e si soffre, cavalieri sporcati dall’amore che redime, così umili, così semplici, eppure così potenti nella loro grandezza!

La conversione a Cristo non è mai qualcosa di definitivo, perché la fede è una prova sempre esposta al rischio della caduta e del fallimento. Essa, infatti, deve essere continuamente rinnovata.

Come trema il buio, come confonde e si confonde! Occorre guardarlo, penetrarlo, per conoscerlo meglio, capirne il dramma, il segreto che lo inghiotte e lo fa palpitare nella lotta, davanti ai nostri occhi spalancati…

Le nostre parole che restano come rovine d’Altro, come frammenti di ciò che perdiamo giorno dopo giorno. Scintille, oppure ceneri di un fuoco lontano, che altrove divampa.

mercoledì 30 settembre 2020

Mauro Germani - Altri aforismi

 

 

Abbandonarsi all’abbandono e non sentirsi più abbandonati: rendere grazie all’abbandono. Nonostante.

Ognuno di noi è una domanda di sangue, un segno, una storia, un segreto, che chiede di essere rivelato.

Tutto ciò che ho scritto e che scrivo è il tentativo di dire l’indicibile.

Miracolosamente, l’abitudine al dubbio mi ha portato a dubitare anche di esso.

Questa libertà della caduta, dell’essere ciechi e sordi… Come ho potuto tradire quella volta che un amore mai provato mi abbracciò nel vuoto, potentissimo e dolce, e tremai, inginocchiato nella preghiera? Ma una sera di lacrime mi attendeva, davanti ai Santi Evangeli...

Un prodigio o un miracolo ci fanno scoprire l’esistenza di una realtà più grande e più vera, quell’impossibilità che diviene possibile, che c’è, e ci sconvolge.

Il silenzio di Dio ci parla continuamente. È sempre qui, nel buio della sua luce.

Da bambino lo intuivo, poi l’ho dimenticato. Solo adesso ho capito che non v’è alcuna relazione tra ragione e preghiera. Più un’orazione è per la mente assurda, più è autentica, perché proviene dall’anima.

Oh, grandezza della Chiesa invisibile, della comunione di anime mosse dalla preghiera, dalle lacrime e dall’attesa!

Il male che preme, che sale dall’anima fino alla carne. Il male che è sangue versato dalla disperazione. Una condanna. Un abisso, che solo una Grazia superiore può colmare.

Il corpo è come il mondo. Entrambi sono destinati ad essere lasciati.

Li sento. Alcuni morti mi passano accanto. Invisibili e lievi, chiamano senza parole, forse cercano di dire il mistero della loro eterna fanciullezza.

Durante la notte, da sdraiati – cioè nella posizione dei morti – possiamo avere, ad occhi aperti, nel buio, visioni e sensazioni altrimenti improbabili. Poi, il mattino seguente, ricordiamo che dobbiamo dimenticare.

L’altro volto che siamo, l’altra anima che abbiamo, l’altra verità che sapremo: Videmus nunc per speculum in aenigmate: tunc autem facie ad faciem. Nunc cognosco ex parte: tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum. (San Paolo, I Corinzi, XIII, 12)

Ecco, l’assenza s’è incarnata, è divenuta per noi corpo e sangue – l’unico corpo e l’unico sangue. È il morto ed il risorto.

Tutto avviene tramite il dolore: nascita, vita e morte ne sono profondamente segnate. Senza di esso nessuna liberazione è possibile.

Da kronos a kairòs. Enigma del tempo. Cammino o salto verso quella spoliazione di sé, che è – paradossalmente – pienezza, promessa che attende e ci attende. Il passaggio è la nostra via crucis.

Ogni anima è macchiata dal sangue, è segnata dal tormento e dal dilemma: il nulla ed il tutto di Dio, la fine e il futuro dell’origine.

giovedì 3 settembre 2020

Léon Bloy - La donna povera



Léon Bloy, La donna povera, Città Armoniosa, 1978

Questo romanzo di Léon Bloy (1846-1917), pubblicato nel 1897, è un grido e una preghiera. Con la straordinaria forza espressiva che lo contraddistingue, il grande scrittore cattolico ci consegna un’opera che fa trasalire, percorsa da fremiti violenti e soavi, ora di condanna e ora di profonda fede e spiritualità.

Ben oltre il naturalismo, che giudica fallimentare, Bloy rivendica «il diritto di narrare al di fuori dei limiti stabiliti dai teorici della finzione». E in effetti la sua scrittura si situa in uno spazio letterario altro, in cui i personaggi appaiono come incarnazioni di anime tout-court, senza psicologismi di sorta, e il narratore non risulta mai esterno, ma coinvolto nella storia con il furore e la passione di un profeta che non può tacere.

La vicenda di Clotilde, la donna povera del titolo, è esemplare. Creatura segnata dalla sventura e dalla grazia, luminosa anche e soprattutto nella sofferenza, non può non trasmettere al lettore una profonda commozione.

Già nella descrizione iniziale, è possibile percepire la natura eccezionale del personaggio: «i suoi magnifici capelli neri scintillanti, i grandi occhi di gitana prigioniera da cui sembrava si dilatassero le tenebre, ma dove si concentrava ogni rassegnazione, il pallore doloroso del suo volto infantile i cui lineamenti, modificati da un’angoscia vivissima, erano divenuti quasi severi e infine la morbida agilità dei suoi gesti e del suo camminare» conferiscono, fin da subito, alla figura di Clotilde «un’aria di grandezza», in opposizione a quanto di turpe la circonda, cioè alla forza travolgente e incessante del male.

A Clotilde è riservato un destino di dolore e di elezione, degno dell’eroica santità dei martiri, o degli ultimi, a cui è stato promesso il Regno Celeste.

Il tema della povertà – centrale in tutta l’opera di Léon Bloy  e che egli stesso dovette sperimentare drammaticamente sulla propria pelle – è qui fonte di lacrime e di preghiera, di solitudine e di abbandono a Dio, di umiltà e di coraggio. A proposito del suo mistero, Bloy scrive: «“Avrete sempre i poveri con voi”. Dal giorno in cui furono pronunciate queste parole abissali, nessuno è stato più in grado di dire che cos’è la povertà». E Clotilde, questa vittima sacrificale del mondo, questo agnello immolato e baciato dalla grazia, rifulge tra le tenebre di una società ipocrita e meschina, condannata al proprio nulla, alla propria tragica insensatezza.

Il feroce disprezzo di Bloy per la borghesia passa attraverso la denuncia della sua cupidigia, nonché della terribile falsità morale, ovvero quella maschera sociale che viene ostentata per coprire ogni segreta nefandezza. Così i ricchi – afferma Lèon Bloy – «questi miserabili intuiscono che la povertà è la faccia stessa di Cristo, la faccia oltraggiata che mette in fuga il principe di questo mondo e che dinanzi ad essa non è possibile straziare il cuore dei poveri al suono dei flauti o degli oboe. Sentono che la sua vicinanza è pericolosa, che le lampade fumigano al suo avvicinarsi, che le torce diventano ceri funebri e ogni gioia sparisce». Va detto poi che gli strali dello scrittore colpiscono anche quella parte del clero troppo comoda e amante del quieto vivere, quei ministri opachi o benestanti, che hanno ridotto in normale consuetudine, vale a dire in cenere, il fuoco della parola divina, e non sanno pertanto trasmettere alcunché a chi li incontra.

Attorno a Clotilde ruotano diversi personaggi, l’anima dei quali è sapientemente tratteggiata da Bloy. Oltre a coloro che sono la causa della sventura della donna, descritti con sarcasmo in tutta la loro miseria morale, vi sono quelli attratti dal suo misterioso fascino spirituale: personalità non comuni, artisti eccentrici e solitari, fuori da ogni conformismo ideologico e sociale, destinati anch’essi all’incomprensione e a una sorte avversa. Tra questi, vale la pena citarne due: Cain Marchenoir e Léopold: il primo, scrittore dilaniato dall’assoluto, innamorato del Medioevo («Il Medioevo era un’immensa chiesa come non se ne vedrà più fino a quando Dio non ritornerà sulla terra […] Era costantemente il Venerdì Santo e il sole non si mostrava»), segnato da una religiosità tragica e intransigente, tanto da essere chiamato il grande inquisitore di Francia; il secondo, praticante «l’arte dimenticata della miniatura» sposerà, invece, Clotilde, e condividerà con lei i patimenti e i dolori della loro drammatica vita.

L’impetuosità della scrittura di Bloy non risparmia – all’interno della narrazione – pagine di profonde riflessioni circa l’esistenza, i suoi abissi e i suoi enigmi, come isole sparse qua e là, circondate da un mare agitato che attende d’essere placato da una forza superiore. Perché alla fine questo romanzo dolce e violento, evangelico e visionario, incarna mirabilmente le ultime parole di lei, la donna povera: «Non c’è che una tristezza. È quella di non essere santi».

Mauro Germani


A proposito di Léon Bloy, su questo blog:

domenica 12 luglio 2020

LA CITAZIONE (n. 21) - Vincenzo Cardarelli

PASSATO

I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo,
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì posso dire
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapido!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.

Vincenzo Cardarelli

martedì 7 luglio 2020

Per Ennio Morricone


Un’unica sinfonia dentro di noi, insieme ai fantasmi di luce del cinema. Una composizione di note e di suoni, che entra nel mondo e poi si innalza per divenire eterna. Un mito che chiama a sé altri miti. Un’avventura d’altro che sentiamo nostra, capace di accostarci agli estremi segreti dell’esistenza. 
Concreta e angelica sempre, dagli schiocchi minacciosi di una frusta, ai rintocchi fatali di una campana, alla creazione di suoni mai uditi, fino alle sublimi voci femminili, che ci rapiscono improvvise come indicibili estasi. 
Grazie a Ennio Morricone. La sua musica mi ha accompagnato da quando ero bambino e ancora la porterò con me.

lunedì 8 giugno 2020

Marco Molinari - Il grande spettacolo di guardare in alto


Marco Molinari, Il grande spettacolo di guardare in alto, Ronzani Editore, 2020

Marco Molinari guarda in alto, in questa sua nuova raccolta poetica. Qui – più che nella produzione precedente – i versi rivelano un desiderio di appartenenza e al tempo stesso di libertà, laddove il cielo sembra riflettere la terra e la terra, la «grande pianura» (che cantò Bellintani, poeta della provincia mantovana, attento alle voci arcane della natura, ed oggi quasi dimenticato) guarda il cielo.

In questa reciprocità, che per Molinari è anche scoperta di sé e conoscenza, nonché memoria individuale e collettiva, si delinea una sorta di realismo, che però è anche e sempre altro, attraversato com’è da forze misteriose, ovvero slittamenti di senso, ossimori o paradossi, che s’innervano nei testi con naturalezza, senza alcuna artificiosità e senza alcun compiacimento. Il dettato di Molinari delle ultime prove, infatti, sembra proprio aver raggiunto un equilibrio originale (ed assai raro); una voce, cioè, che si fa di volta in volta sempre più personale, ora modulandosi nella narrazione poematica, ora nel ricordo-confessione, ora nella descrizione di personaggi marginali, o di scorci paesaggistici. E con la volontà di compiere un percorso poetico autonomo, appartato, autentico, nell’intento di cogliere l’esistenza ed il proprio mistero nel vissuto, in ciò che è avvenuto nel tempo e che in quel tempo è stato sognato.

Assai rilevante, in proposito, risulta la prima sezione del libro, Tagliare per i campi, che racconta di una deambulazione, che è insieme fuga e ritorno, desiderio di allontanamento ed appropriazione di sé, prima che sia troppo tardi, in una pianura attraversata come in una dimensione onirica, scossa da senso d’attesa, ansia e speranza, fino a raggiungere i confini davanti al mare, e scoprire il margine tra sogno e realtà.

La sezione Le mie menti riguarda, invece, i pensieri solitari, scissi, sconvolgenti, rivelatori di verità altre, ma anche di sofferenze. Menti multiple, quindi, come assoluti esistenziali, che s’impongono nella solitudine, nelle lacrime, nel sogno, tra il quotidiano e l’altrove, e che aprono scenari imprevisti, destinati all’oblio, fino a che resta lo spazio per una mente «minuscola, quasi / larva o feto o simulacro / […] che ristora, senza peso, / e nessuno la incatena».

E la tensione presente in Molinari tra realtà e sogno si trova anche nei paesaggi, che appaiono nella loro mutevolezza, laddove attimi d’incanto si alternano a momenti in cui «quel che manca / sopravanza quel che c’è», oppure nasce il desiderio di un incontro con un amico, con il quale parlare all’interno di un «quadro impressionista».

Vi sono continui rimandi tra le varie sezioni del libro, fili sottili che congiungono passato e presente, passo dopo passo, anni giovanili, esperienze ormai lontane e consapevolezza attuale, tra disinganno e  rinnovato stupore, tra malinconia e desiderio di comprensione e chiarezza ulteriore.

Dai ricordi dei vent’anni e alle loro speranze, quando era facile confondere la vita con la poesia, fino ad oggi ed alle “schiere dei poeti” che «si sono dissolte», ecco – nonostante tutto – le meraviglie improvvise, le «rinascite» inaspettate (come quella di un castoro o di un uccello feriti), che testimoniano il mistero dell’esistenza, piccoli miracoli dalla morte alla vita, o il desiderio di una possibilità dentro la natura stessa: «Voglio rinascere in una minuscola / erba sconosciuta […]». E qui c’è tutta la predilezione di Molinari per il piccolo, per ciò che apparentemente non conta ed è considerato trascurabile.

Ma è soprattutto nella sezione Il grande spettacolo di guardare in alto, che sembra risiedere la novità del libro. Lo sguardo di Molinari si solleva verso il cielo e scopre, oltre l’assurdità dell’infinito, «solo un centimetro di nuvola / ridente» che saluta come «un vecchio amico», oppure la promessa del vento sotto «poche stelle che illuminano l’oscura / valle, l’oscura città, l’oscura vita», o ancora la tempesta mancata, e “tutto riposa / lassù per lo scampato pericolo / i visi si appendono al velo della sera / e raspano nel muschio innocente / che nasconde gli anni d’infanzia». Pare proprio che lassù, dove «non ci sono strade né vicoli», dove non esiste il tempo, ma il sempre, e dove tutto muore e tutto nasce, si possa indovinare una corrispondenza segreta, persino un volto sfumato, non compatto, che suggerisce mille interpretazioni.

Infine i ritratti di personaggi minori, umili e quotidiani (tra gli altri, le parrucchiere che «trattano i figli come i capelli»; il barbiere come «un re buono un nobile elegante»; il giocatore di dama che «possedeva una scienza semplice / nel silenzio della pianura»; il pescatore di legna che dal Po tirava su «i pezzi di legno che la corrente / portava a foce), una sorta di teatro interiore, colmo di pietas, a cui Molinari ci ha già abituato nelle precedenti raccolte, e che si unisce qui a luoghi e momenti che prendono forma nel ricordo e nell’innocenza di un tempo, suscitando un senso di malinconica nostalgia se confrontati alla desolazione odierna, alla natura violata e all’indifferenza spesso associata all’arroganza. Ecco, ad esempio, la poesia intitolata La messa delle dieci e trenta, in cui Molinari ricorda il senso di festa e la sicurezza dei chierichetti come lui di essere «dalla parte del Signore, Lui era con noi / e allora lì non temevamo niente / per un’ora eravamo gli angeli, gli apostoli / i profeti, era davvero una festa». O, ancora, il ricordo di quando passava la processione ed «ogni casa / aveva il medesimo sorriso / di luci».

Come afferma Pasquale Di Palmo nella prefazione, il «recupero memoriale» appare, in questa raccolta, «sferzante come un giudizio senza appello nei confronti degli ultimi avvilenti decenni».

Il guardare in alto, allora, non significa nascondere il presente, ma cercare un « grande spettacolo», qualcosa che ci faccia aspirare ad una bellezza dimenticata e ci faccia comprendere meglio chi siamo e che cosa facciamo quaggiù.

«Ma quando non ci sono strade / perché si sono cancellate / non rimane che salire», dicono infatti i versi di Molinari.

Mauro Germani

 


sabato 23 maggio 2020

Giorgio Pressburger - La legge degli spazi bianchi


Che cosa nasconde l’indicibile? Qual è la malattia bianca che lo governa? E quali forme d’esistenza consente? Sono queste alcune delle domande che scaturiscono spontanee dalla lettura del libro La legge degli spazi bianchi (1989) di Giorgio Pressburger (1937-2017). 
Si tratta di un’opera composta da cinque racconti, che hanno come protagonisti o come osservatori dei medici coinvolti in esperienze estreme, laddove la scienza vacilla davanti al mistero dell’esistenza. Cinque storie narrate con lucidità inquietante. Cinque destini segnati da ciò che travalica la ragione e sconvolge i sensi, annullando le nostre consuete coordinate. Cinque casi ultimi, che sfuggono ogni logica. Cinque abissi.
Perché le domande che suscitano non hanno alcuna risposta definitiva, ed il lettore sperimenta così la propria solitudine davanti alla nudità dei fatti, a quella serie di eventi inspiegabili che proprio l’afasia ed il silenzio sembrano aver reso possibili. C’è, insomma, una sorta di ossimoro esistenziale, una possibilità dell’impossibile – un’origine spezzata, una lacuna, un impedimento – che scatena forze inarrestabili, destinate ad una conclusione drammatica, che è morte, o follia, o smarrimento in luoghi sperduti, senza nome. Entriamo così nella malattia, in quelle zone oscure della mente e del corpo, in quei labirinti dell’offuscamento, in cui  c’è solo una continua e progressiva perdita di sé, come una strana forma d’obbedienza ad altro, un’adesione esclusiva all’innominabile. Ed è in questo slittamento, in questo franare nel vuoto, che vivono le loro esperienze i personaggi descritti da Pressburger, come se a poco a poco fossero trascinati dal demoniaco, che si nasconde nelle fratture della loro esistenza: in quella mancanza nascono i loro fiori del male, proprio perché «la malattia si annida, infatti, nel corpo, ma ha origine nel negativo metafisico e i suoi sintomi si manifestano come sottrazione d’essere».
Dei cinque racconti, i primi tre risultano particolarmente riusciti: La legge degli spazi bianchi, Orologio biologico e Vera.
Il primo narra la vicenda del dottor Fleischmann, destinato col tempo, a soli 55 anni, a sprofondare – lui medico stimato e fino ad allora in compiaciuto vigore fisco – in una terribile situazione di non ritorno, ovvero a non riuscire più a pronunciare alcune parole e a perdere in seguito anche la memoria; la sua ultima frase comprensibile, ma enigmatica, sarà: «Tutto è scritto negli spazi bianchi tra una lettera e l’altra. Il resto non conta».
Il secondo racconto, invece, nasce dalla constatazione di un tempo sfasato, di un’anomalia dell’esistenza che coinvolge il medico protagonista e la signora Polak, ormai settantenne e sposata ad un uomo gravemente ammalato. «L’orologio della nostra vita è sempre andato o troppo avanti o troppo indietro, mai con il tempo giusto per noi», dirà la donna all’uomo, che da giovane l’ammirava di nascosto quando lei prendeva il sole; e la tragedia finale confermerà questo destino. Ancora troviamo uno spazio, un vuoto che si spalanca e dà origine alla vicenda.
Vera è sicuramente il racconto migliore del libro. Qui Pressburger, in una narrazione più lunga, si addentra insieme al protagonista, il dottor Abramo Friedmann, nei territori del mistero e della follia. La vita del medico, infatti, sarà sconvolta da Vera, una ragazza di sedici anni dall’aspetto di bambina, pressoché muta e quasi incapace di camminare, a causa del male che l’ha colpita e di tre operazioni al cervello, ma dai lineamenti bellissimi: «Il viso, privo di spigoli, color rosa attorno agli zigomi, pareva perfettamente conchiuso in sé. Il naso piccolo e dritto, le labbra d’un rosa tenue, carnose senza essere aggressive, d’una linea morbida ma precisa, non potevano avere altra forma. […] Aveva un abito rosso a fiori bianchi, e scarpette rosse, di stoffa. Il suo respiro era un esile soffio, tenero e profumato, tanto discreto da destare ammirazione, non pietà». Per Friedmann, Vera diventerà un’ossessione senza scampo, insieme alla relazione tormentata con la madre di lei: un precipitare nell’isolamento e nella follia, tra momenti di esaltazione e rimorso, tra dolcezza e violenza, nell’oscura consapevolezza che «tutto è vacuo, tranne la colpa. Quella si solidifica, il resto evapora». Di fronte a Vera, enigma della natura, della malattia e del mondo, non c’è scienza che tenga. Al cospetto della sua fragile e misteriosa bellezza, non c’è per l’uomo Friedmann che l’attrazione di quell’abisso, la passione senza nome che lo travolgerà.
La scrittura di Giorgio Pressburger, autore di formazione culturale mitteleuropea (era nato in Ungheria, da cui fuggì nel ’56), ha costituito – come  ebbe modo di affermare Leone Piccioni nell’introduzione al volume edito dalla Biblioteca Universale Rizzoli nel 1992, quattro anni dopo la prima edizione uscita da Mariettti – «una variante importante nel clima generale della nostra narrativa”, raggiungendo «un risultato letterario anche, e specialmente, dal punto di vista linguistico, di piena autenticità».
Mauro Germani